Stupefacenti: il reato di lieve entità

Stupefacenti: il reato di lieve entità

Da diverso tempo la regolamentazione penale in tema di illecita detenzione, coltivazione e cessione di sostanze stupefacenti si è trasformata in un complesso ed articolato turbinio di atti legislativi, interventi della Corte costituzionale ed arresti del Giudice di legittimità che hanno finito per mutare lo stesso territorio repressivo in un dedalo di trattamenti diversificati sotto molteplici punti di vista, sostanziali e temporali.

Il primo intervento legislativo italiano, rappresentato dalla legge n. 396/1923, era volto alla repressione del commercio delle sostanze stupefacenti per salvaguardare l’ordine pubblico, inteso come pacifica convivenza, messa in pericolo dalla circolazione di tali sostanze.

Con l’entrata in vigore del Codice Rocco del 1930, furono stabilite misure dirette alla repressione del commercio clandestino di tali sostanze e dell’agevolazione all’uso delle stesse, sempre con l’obiettivo di tutelare l’ordine pubblico. Una radicale svolta nella regolamentazione degli stupefacenti, caratterizzata da una notevole impostazione repressiva, si ebbe con la l. 1041/1954, che puniva gravemente tutte le possibili condotte in materia, compresa la detenzione per uso personale.

La l. 685/1975 introdusse un sistema normativo volto a favorire la libertà di autodeterminazione, strettamente connessa al disposto dell’art. 2 Cost. e del comma 2 dell’art. 32 Cost., intesa come capacità di compiere scelte razionali, ciò presuppone la comprensione e la valutazione della propria azione e del carattere autolesivo della stessa, senza che ciò possa avere rilevanza penale. Infatti, la l. 685/1975, pur vietando la detenzione di sostanze stupefacenti, prevedeva una causa di non punibilità se la sostanza era destinata al proprio uso personale e se si trattava di una “modica quantità”. La genericità e l’aleatorietà del concetto di “modica quantità” condusse ad un necessario riordino della disciplina che si ebbe con il D.P.R. n. 309/1990. Il D.P.R. introduceva l’art.73, norma cardine su cui poggia l’intero sistema penalistico della legislazione sugli stupefacenti. L’art.73 era imperniato sul sistema del doppio binario sanzionatorio che distingueva le “droghe c.d. leggere” e le “droghe c.d. pesanti” e ribadiva la non punibilità della detenzione per uso personale qualora non superasse “la dose media giornaliera”, quantificata dal Ministero della Salute. La Corte Costituzionale, con la sent. 333/1991, dichiarò l’incostituzionalità di tale previsione normativa che fondava il discrimine del penalmente rilevante non sul tipo di condotta, ma sulla “dose media giornaliera”, violando il principio di uguaglianza e di necessaria offensività. Proprio per tali ragioni, nel 1993 si celebrò un referendum abrogativo, che condusse all’eliminazione del concetto di “dose media giornaliera”.

La L. 49/2006 prevedeva un unico trattamento sanzionatorio per tutte le sostanze stupefacenti o psicotrope, spostando il baricentro della tutela costituzionale alle sottocategorie dell’ordine pubblico, quali la quiete pubblica e la tollerabilità sociale delle condotte antigiuridiche.

La scelta della parificazione era stata attenuata dalla riduzione del minimo edittale e dalla possibilità di applicare per i fatti di lieve entità la circostanza attenuante. L’omologazione operata dal legislatore, proiettandosi sulla dimensione offensiva delle condotte penalmente sanzionate, ledeva il principio di uguaglianza poiché equiparava condotte diverse e tipologie di sostanze con effetti diversi. La costituzionalità della norma fu portata all’attenzione della Corte di Cassazione, che, con sent. n. 22643/2008, giustificava l’equiparazione alla luce della diffusa opinione scientifica che considerava pericolose tutte le droghe.

Con la pronuncia n.32/2014, la Corte Costituzionale non ha voluto attaccare la disciplina normativa in sé, quanto piuttosto l’introduzione della stessa mediante decreto legge. A seguito della dichiarazione di illegittimità si verificò una situazione di impasse che portò all’emanazione della l. n. 79/2014, con riespansione della disciplina incriminatrice di cui al testo originario dall’art. 73, prevedendo forbici edittali più miti, rispetto a quelle caducate, per gli illeciti concernenti le cd. “droghe leggere”, e, viceversa, più severe per i reati concernenti le cd. “droghe pesanti”.

La disciplina delle ipotesi di lieve entità è stata novellata, non solo attraverso la riduzione del massimo della pena detentiva edittale, portata a quattro anni di reclusione, ma anche attraverso la modifica terminologica della disposizione che delinea una autonoma ipotesi di reato e non più una circostanza attenuante. Infatti, prima della dichiarazione di illegittimità della Consulta, la Corte di Cassazione, con una pronuncia del 2010, ha riconosciuto all’art. 73, comma 5 della l. 49/2006, natura di circostanza attenuante ad evidente effetto speciale poiché la norma era correlata ad elementi che non inficiavano la struttura delle condotte alternative di cui all’art.73 comma 1 e 1 bis, ma determinavano una minore valenza offensiva. Dalla riconosciuta natura di circostanza attenuante ad effetto speciale ne conseguiva, quale corollario, che, nel caso di concorso con una circostanza aggravante, essa era soggetta al giudizio di comparazione ai sensi dell’art. 69, comma 4 c.p. e che il tempo di prescrizione della fattispecie restava immutato ai sensi dell’art. 157, 2° comma c.p., secondo il quale le circostanze attenuanti non influiscono sul tempo necessario a prescrivere il reato.

I presupposti su cui si fonda il giudizio di lieve entità del fatto -indicati nella norma nel dato qualitativo, quantitativo, nei mezzi, nelle modalità e nelle circostanze dell’azione- devono essere apprezzati sulla scorta di una valutazione globale. In ordine alla quantità della sostanza, il giudice deve tenere conto del valore ponderale del principio attivo contenuto nella sostanza, mentre il dato qualitativo è correlato alla natura e alla purezza della stessa. Con riguardo alle modalità e ai mezzi, la lieve entità del fatto potrà essere riconosciuta in presenza di non allarmanti caratteristiche dell’azione, dell’episodicità della condotta e del ristretto ambito del mercato di riferimento. A fronte di detti parametri di carattere oggettivo, si pongono le circostanze dell’azione, nell’ambito del cui concetto la Corte di Cassazione, con una pronuncia del 2010, ha ricondotto anche le condizioni soggettive dell’agente, e dunque anche la sua personalità, specie se trattasi di soggetto tossicodipendente o comunque di emarginato sociale, e le finalità della sua condotta. Sul punto si è espressa anche la Consulta, la quale, con la pronuncia n. 40/2019, ha ribadito che la fattispecie di lieve entità possa essere riconosciuta solo nell’ipotesi di minima offensività della condotta, deducibile da tutti i parametri richiamati dalla disposizione. La Suprema Corte, discostandosi dall’orientamento precedente, ha statuito, con una sentenza del 2019, che la configurabilità dell’ipotesi lieve non può essere esclusa sulla base di singoli parametri, quali la diversa tipologia delle sostanze cedute o lo svolgimento non occasionale dell’attività di spaccio, astraendo tali elementi dalla ricostruzione fattuale nella sua interezza, fondata su una razionale analisi riguardante la combinazione di tutte le specifiche circostanze.

La norma incriminatrice richiama le condotte, di cui ai commi 1 e 1 bis dell’art.73, idonee ad integrare il reato, le quali possono essere commesse da chiunque, non essendo richiesto che il soggetto agente possieda alcuna particolare qualifica soggettiva: si tratta, pertanto, di un reato comune. Il reato può essere posto in essere sia da un solo individuo che da più soggetti che concorrono nella realizzazione dell’evento delittuoso. Il concorso può essere ravvisato quando il soggetto ha materialmente partecipato all’esecuzione materiale di taluna delle diverse condotte tipiche contemplate dall’art. 73, ovvero quando ha partecipato all’attività riguardante la preparazione del delitto e la messa a disposizione dei mezzi occorrenti alla relativa commissione, ovvero, infine, quando ha fornito un qualsiasi apporto causale concreto all’attività criminosa posta in essere dall’autore materiale, così da consentirne e agevolarne l’azione, assicurando il proprio contributo materiale o anche solo morale alla realizzazione dell’illecito. La Corte di Cassazione, con una sentenza del 2013, ha escluso il concorso nel reato al convivente del soggetto agente che mantenga un comportamento meramente passivo. Nel 2015, la Suprema Corte esclude la punibilità del soggetto trasportato a bordo di un’autovettura che, seppure a conoscenza delle sostanze stupefacenti, rinvenute a seguito di perquisizione dalla polizia giudiziaria, mantenga un comportamento meramente passivo.

Il reato ha natura permanente in relazione alle condotte che presuppongono una prolungata relazione di disponibilità della sostanza stupefacente, e dunque un perpetuarsi dell’offesa al bene protetto che dipende direttamente dalla volontà del reo; in tali casi la consumazione del reato si protrae fino a quando non si interrompe quella relazione di disponibilità. Ha, invece, natura istantanea in relazione alle condotte che integrano ed esauriscono l’offesa al bene protetto; in tali casi la consumazione si ha nel momento in cui viene posta in essere l’illecita condotta.

L’elemento costitutivo del reato è la destinazione di sostanze stupefacenti di lieve entità ad un uso non personale e, dunque, si tratta di un reato di mera condotta commissivo, avente natura di pericolo astratto poiché potenzialmente lesivo dell’integrità psicofisica della persona, intesa quale entità unica, composta da corpo e mente.

Quanto al dato psicologico, l’illecito richiede non un dolo specifico, ma un semplice dolo generico, consistente nella coscienza e volontà di porre in essere la condotta descritta nella fattispecie incriminatrice, è, infatti, irrilevante lo scopo perseguito dall’agente.

E’ rilevante menzionare la pronuncia del 2016 della Corte d’Appello di Venezia. I giudici, alla luce del principio di ragionevolezza della pena, riconoscono la qualificazione di fatto di lieve entità, qualora ne ricorrano i presupposti, anche allo spaccio esercitato in modo continuativo, discostandosi dalla giurisprudenza precedente. Inoltre, con la stessa sentenza, si riconosce il rapporto fra il piccolo spaccio e l’organizzazione criminale che lo stesso ha necessariamente alle spalle. Se lo spacciatore partecipa a un sistema stabile di approvvigionamento, distribuzione o cessione delle sostanze stupefacenti, la condotta finale dello stesso rimane il fatto autonomo, ma l’organizzazione costituisce un’associazione per delinquere prevista dall’art.74, comma 6.

Infine, il comma 5 bis prevede che il giudice,con la sentenza di condanna o di applicazione pena su richiesta delle parti, per le ipotesi di fatto di lieve entità, può applicare, anziché le pene detentive e pecuniarie previste al c. 5 del medesimo articolo, la pena del lavoro di pubblica utilità, di cui all’art. 54 d.lgs. n. 274 del 2000. La sostituzione con la pena del lavoro di pubblica utilità può avvenire solo a determinate condizioni: il soggetto interessato alla sostituzione della pena, vale a dire l’imputato, deve essere persona tossicodipendente o assuntore di sostanze stupefacenti o psicotrope; il giudice non deve ritenere che possa o debba concedersi il beneficio della sospensione condizionale della pena; l’imputato deve fare richiesta della sospensione della pena e, infine, deve essere sentito il pubblico ministero.La ratio sottesa all’istituto è evidentemente quella di favorire il recupero di persone dedite all’uso abituale di sostanze stupefacenti e che, a causa di questa condizione, si determinano alla commissione di reati in materia di stupefacenti di lieve allarme, impiegandole in attività socialmente utili, così da evitare il loro ingresso in carcere.

Tracciato dal legislatore il quadro esegetico con cui gli interpreti si dovranno confrontare, la sfida sarà quella di individuare i casi concreti in cui l’illecito di cui al comma 5 possa costituire fatto di lieve entità. Lo scenario ora prefigurato avvalora l’idea che la materia in esame è ancora lontana da un definitivo assestamento.


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Giuliana Favara

Abilitata all'esercizio della professione forense, ha conseguito la laurea magistrale a ciclo unico in Giurisprudenza e il diploma di Specializzazione nelle Professioni Legali presso l'Università Mediterranea di Reggio Calabria. Ha svolto lo stage di formazione teorico-pratica presso gli uffici giudiziari, nella sezione GIP/GUP e nella Prima Sezione Civile del Tribunale di Reggio Calabria, ai sensi dell'art. 73 del d.l. 69/2013, e ha collaborato con uno studio legale operante nel settore penale.

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