Successione agraria: rivoluzionaria sentenza del Tribunale di Avellino

Successione agraria: rivoluzionaria sentenza del Tribunale di Avellino

Come è noto, nel diritto agrario la disciplina del fenomeno successorio a causa di morte presenta, da sempre, rilevanti peculiarità, ispirate all’esigenza primaria di tutelare la continuità dell’impresa agricola.

La specificità della successione de qua  risiede nell’oggetto del fenomeno successorio, ovvero la proprietà terriera e l’azienda agricola: quest’ultime hanno la peculiarità di essere al contempo non solo strumenti di produzione ma anche e soprattutto strumenti di lavoro e, proprio in quanto tali, la legge vuole assicurare che tali strumenti mantengano, anche nel contesto della successione mortis causa, la loro specifica destinazione.

Ad oggi la successione agraria trova disciplina in seno all’art. 49, co. 1, L. n. 203/1982, secondo il quale “nel caso di morte del proprietario di fondi rustici condotti o coltivati direttamente da lui o dai suoi familiari, quelli tra gli eredi che, al momento dell’apertura della successione, risultino avere esercitato e continuino ad esercitare su tali fondi attività agricola, in qualità di imprenditori a titolo principale ai sensi dell’articolo 12 della legge 9 maggio 1975, n. 153, [rectius, imprenditore agricolo professionale ex art. 1 d.lgs. n. 99/2004]  o di coltivatori diretti, hanno diritto a continuare nella conduzione o coltivazione dei fondi stessi anche per le porzioni ricomprese nelle quote degli altri coeredi e sono considerati affittuari di esse”.

La successione agraria, di tal guisa, rappresenta, in un certo qual modo, continuazione di una attività professionale esercitata sul fondo, con la precipua funzione di assicurare la continuità nella titolarità di un ordinamento produttivo, qual è l’impresa, latu sensu, agricola. Gli interventi legislativi volti a preservare la continuità delle unità agricole si sono ispirati, quindi, a modificare la vocazione mortis causa in ordine a tali beni e, più frequentemente, a dettare regole di attribuzione preferenziale in sede di divisione.

La lettera della norma di cui all’art. 49 incentra tutta la disciplina sull’esigenza di garantire la continuità dell’attività imprenditoriale esercitata sul fondo e quindi di garantire la continuazione dell’attività esercitata su di esso. Ma, andando al di là del semplice dato letterale, la norma de qua sembrerebbe altresì valorizzare, oltre alle posizioni effettive di lavoro, anche l’attività agricola nel più ampio contesto dell’interesse pubblico alla conservazione dell’iniziativa economica intrapresa su quel fondo ed alla stabilità della famiglia coltivatrice ivi insediata.

Riassumendo quanto sin qui detto, alla luce delle considerazioni appena svolte, duplice è la ratio della norma in commento: da un lato preservare l’unità del fondo, inteso come mezzo di produzione nel più ampio interesse pubblicistico della collettività e dell’economia nazionale; dall’altro, preservare i mezzi di sostentamento idonei alla sopravvivenza della famiglia ivi insediata, nell’ambito della tutela del diritto all’esplicazione della propria personalità (art. 2 Cost.) e della tutela del diritto al lavoro (art. 4 Cost).

Ai fini dell’applicazione dell’art. 49, si rendono necessari due requisiti soggettivi: in primis la qualità di erede, ed in secondo luogo quella di aver esercitato ed esercitare sui fondi attività agricola, in qualità di imprenditore a titolo principale o di coltivatore diretto. E’di per sé evidente la rilevanza dell’elemento fattuale, risiedente nella necessità di dimostrare che quello che tra gli eredi vuole servirsi del regime di cui all’articolo in commento, oltre che rivestire le qualità richieste dalla norma, deve aver svolto e deve continuare a svolgere attività agricola sul fondo: la disposizione, in effetti, non richiede che gli affittuari assumano formalmente l’impegno alla continuazione dell’attività, rilevando piuttosto il semplice fatto dello svolgimento della coltivazione o della conduzione.

Tale attività, tuttavia, deve essere svolta da soggetti altamente qualificati, identificati dalla legge nell’imprenditore agricolo professionale e nel coltivatore diretto: il cessionario viene identificato, oltre che per il legame con il defunto, fondato sul vincolo familiare, anche dalla attitudine a gestire il fondo: si tratta di una circostanza ulteriore rispetto alla semplice qualità di erede, valutata presuntivamente per il possesso dei requisiti soggettivi.

Ora c’è da chiedersi se questa valutazione, presuntivamente compiuta dalla norma – la quale considera i soli imprenditori agricoli professionali ed i soli coltivatori diretti idonei alla gestione di un fondo agricolo – sia o meno superabile: è possibile assimilare a tali due figure anche ulteriori soggetti che, pur avendo la asserita attitudine a gestire il fondo, non rientrino nelle categorie individuate dalla norma?

Per il Tribunale di Avellino, Sezione Specializzata Agraria, (sentenza n. 707 del 22.03.2016) tale presunzione sembrerebbe superabile, qualora il soggetto che voglia rivendicare la propria qualità di successore legittimo dimostri che, al di là delle “etichette” e delle formalità, possegga quelle qualità che gli permettono di gestire il fondo, al pari di un coltivatore diretto o di un imprenditore agricolo, alla luce della ratio dell’art. 49 L. n. 203/1982,  volta a preservare l’unità del fondo – come mezzo di produzione e di lavoro –  e  la sopravvivenza della famiglia insediata su di esso.

Questi i fatti da cui muove la decisione.

A seguito di contratto di licitazione privata, stipulato negli anni Sessanta, veniva concesso in affitto un fondo rustico di proprietà di un comune irpino. L’affittuario deteneva e coltivava il fondo insieme al figlio, traendone sostentamento per sé e per la propria famiglia e provvedendo al versamento dei canoni di fitto. Negli anni Ottanta, l’originario affittuario decedeva e così continuava ad occuparsi del fondo il figlio, il quale, per tutto il tempo, oltre che occuparsi dei terreni di proprietà comunale, alla stessa stregua del padre e così come egli in vent’anni gli aveva insegnato, provvedeva altresì al pagamento dei canoni di fitto, dovuti al Comune, per un periodo lungo oltre trent’anni. Il rapporto rimaneva pacifico sino a quando, l’erede dell’allora stipulante si vedeva recapitare dal Comune una disdetta del contratto di fitto del terreno agricolo e, successivamente un ricorso ove si asseriva la mancanza delle qualifiche soggettive richieste dall’art. 49, co. 1, L. n. 203/1982, non risultando esso né imprenditore agricolo professionale né coltivatore diretto.

Aderendo alla tesi della difesa, il Collegio ha convenuto che il disegno del legislatore del 1982 era quello di assicurare che il fondo oggetto di contratto agrario venisse lasciato nelle mani di soggetti che avessero le capacità di gestirlo, e di tal guisa, lo stesso legislatore aveva riconosciuto, in via presuntiva, che tali soggetti fossero quelli indicati nella norma; ma tale presunzione è stata ritenuta superabile, qualora l’erede, pur non avendo le qualità prescritte dalla norma, dimostrasse in ogni caso di avere le qualità richieste dalla ratio legis, come del resto è avvenuto nel caso di specie.

Nel caso de quo, infatti, era pacifica la qualità di erede del resistente ed era altresì pacifica la circostanza fattuale riferita al perdurante esercizio di attività agronome sul fondo in questione, sin dal momento della morte dell’originario titolare. Ciò che solo apparentemente mancavano erano quelle mere attitudini a gestire il fondo, ma il Tribunale ha riconosciuto in capo all’erede la sussistenza di quelle qualità che gli avrebbero permesso di amministrare il fondo stesso, alla luce della ratio dell’art. 49 L. n. 203/1982: infatti, il Tribunale irpino evidenziava che il resistente “ha fornito prova documentale del possesso della qualifica di bracciante agricolo, similmente alla moglie, e dunque, almeno in astratto, la sussistenza dei requisiti soggettivi per subentrare al padre nel contratto di affitto in essere al momento del decesso”.

Insomma, una pronuncia dal sapore squisitamente innovativo e di grande impatto, che non sarà sicuramente esente da censure, ma che dimostra le potenzialità per ampliare notevolmente il novero di quei soggetti che, al di là dell’elemento puramente letterale fornito dalla norma in commento, potrebbero vedersi riconosciuto il diritto a succedere in un contratto agrario di cui era titolare il de cuius, alla stregua di una interpretazione costituzionalmente orientata ed alla luce del diritto vivente.


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Emanuela Spolverino

Praticante Avvocato Abilitato al patrocinio, presso il foro di Avellino. Laureata in Giurisprudenza nel settembre 2014 presso l'Università degli Studi di Salerno, ove è stato anche conseguito il Diploma di Scuola di Specializzazione per le Professioni Legali nel settembre 2016. Attualmente impegnata a svolgere la professione forense; collabora con il Tribunale di Avellino, come tirocinante ex art. 73 L. 98/2013, presso la Sezione Lavoro e Previdenza.

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