Sul “divieto di patto leonino”

Sul “divieto di patto leonino”

Ai sensi dell’art. 2265 c.c. sono dichiarati nulli i patti con i quali uno o più soci sono esclusi da “ogni partecipazione agli utili o alle perdite”.

Per la dottrina e la giurisprudenza “ogni partecipazione” non va intesa nel senso formalistico di esclusione “da qualsiasi parte agli utili ovvero alle perdite”. Se così fosse, sarebbe sufficiente un’esclusione in percentuale elevatissima (anche il 99%) per evitare la violazione del divieto e la nullità della clausola. Rappresenta opinione dominante quella per la quale sia nulla non solo la clausola di totale esclusione dai benefici ovvero dalle perdite sociali ma, altresì, il patto recante un’ esclusione talmente elevata da equivalere alla totalità (per diffuso consenso: in misura superiore all’80%).

Dottrina e giurisprudenza ritengono che il divieto operi non solo rispetto alle clausole dell’atto costitutivo delle società di persone (violazione diretta) ma anche per tutte le clausole di identico effetto contenute in patti parasociali stipulati tra soci, salvo che non ricorra un interesse dei soci alla relativa pattuizione. Si pensi, ad esempio, ad un mutuo concesso da un socio a vantaggio dell’altro nel quale viene previsto che il mutuatario rimborserà il mutuante mediante la totalità degli utili ottenuti dalla comune società. Deve quindi precisarsi che, non potrà dirsi sempre nulla la clausola che prevede una partecipazione agli utili e alle perdite in misura diversa da quella societaria.

Il patto leonino sarà quindi nullo sia laddove inserito nell’atto costitutivo della società che in un patto parasociale collegato ed, in ogni caso, si tratterà di una nullità circoscritta alla sola clausola e non estesa all’intero contratto societario.

Una volta accertata la nullità della clausola in questione, potranno e dovranno essere applicate le norme legali sulla partecipazione del socio agli utili o alle perdite.

Può l’art. 2265 c.c. dettato in tema di società semplice (e di persone) applicarsi a quella di capitali?

La soluzione è positiva.

Infatti, nonostante tale divieto trovi la sua collocazione all’interno della normativa dedicata alla società semplice, la dottrina prevalente non ne esclude l’applicabilità alle società di capitali considerato che, come indicato dall’art. 2247 c.c., la finalità societaria è proprio la divisione degli utili tra i soci.

Pertanto, il divieto di patto leonino è proiezione della causa del contratto di società ovvero, serve ad assicurare il rispetto da parte dell’autonomia contrattuale dei soci del c.d. scopo – fine di quest’ultima. Tale norma va in effetti letta come garanzia che, se lo scopo – fine della società è quello di “dividerne gli utili” esso sia rispettato dai soci (che sono sempre liberi di prevedere diritti parziari in tema di distribuzione dei benefici sociali), così da non vanificare la causa del contratto.

Costituendo conseguenza della causa del contratto, il divieto deve operare in tutte le società (anche mutualistiche) e ciò in particolare ove si consideri che, per orientamento uniforme, le norme delle società di persone possono ben applicarsi anche alle società di capitali ove rappresentino le regole generali del diritto delle società.

Occorre considerare che l’esigenza equitativa sottesa al divieto, ovvero limitare l’autonomia contrattuale anche a protezione della minoranza e di singoli soci che entrino a far parte di una società già costituita, nella misura in cui essa contraddica la causa del contratto, ricorre non solo nella società di persone ma  – se non con maggiore forza – anche nelle società di capitali, specie quando aperte al pubblico risparmio.

Ragionando sull’incidenza e sulle modalità di applicazione del patto leonino alle società di capitali vediamo che il divieto riguarda sia i rapporti tra società e soci che i rapporti tra i soci stessi.

Per quel che concerne le modalità di applicazione dello stesso, in considerazione dell’autonomia dei soci e della società nel conformare i diritti patrimoniali delle proprie partecipazioni, è evidente che il divieto incide sulle clausole statutarie previste dall’art. 2328 c.c. e dall’art. 2346 c.c. relative al riparto degli utili. In tale prospettiva il divieto limita, negli stessi termini in cui opera per le società di persone, la libertà contrattuale dei soci alla stipula dell’atto costitutivo e della società nel modificare le regole legali di ripartizione dei benefici sociali tra i membri della compagine, da un lato; l’autonomia negoziale dei soci in sede di conclusione dei patti parasociali, dall’altro.

Vero è che la prassi notarile ha nel tempo sostanzialmente sterilizzato le conseguenze dell’applicazione del divieto alle società di capitali. Nello standardizzare le clausole relative al riparto degli utili, infatti, i notai hanno curato di assicurare il massimo rispetto alla previsione dell’art. 2265 c.c.

Ben più complesso appare il discorso relativo all’ applicazione del divieto in ragione delle differenti modalità in cui, per legge, può articolarsi l’autonomia negoziale delle società nella conformazione delle partecipazioni sociali. Situazione, questa, sulla quale ha ampiamente inciso la riforma delle società e che richiede una distinta analisi per la spa da un lato e per la srl dall’altro.

Nella s.r.l. il divieto di patto leonino viene in rilievo e quindi limita il potere statutario di riconoscere ai soci “diritti particolari” riguardanti sia diritti amministrativi che patrimoniali (art. 2468, co 3 c.c.).

Posto che si tratta di posizioni giuridiche cui si ricollegano per disposizione dell’atto costitutivo, diritti eterogenei rispetto a quelli degli altri soci, il potere di differenziazione attribuito anche in materia di diritti patrimoniali (distribuzione degli utili) viene, ad avviso della letteratura unanime, limitato proprio dalla operatività del divieto.

Il criterio di ripartizione degli utili tra i soci è definito personalistico per cui vi è l’attribuzione di una singola quota a ciascun socio per l’intero ammontare della sua partecipazione sociale. È vero che si ricorre al valore nominale della quota per determinare l’ammontare degli utili e la quantità dei diritti di cui il socio dispone (sia amministrativi che patrimoniali).

Dovranno stimarsi nulli e quindi sostituite dalla disciplina legale della srl e dalla regola della proporzionalità alla partecipazione (art. 2468, 1° e 2° co c.c.) le clausole che riconoscono la partecipazione agli utili solo al socio “particolareggiato” o gli garantiscano una partecipazione così elevata da equivalere all’ unanimità. Lo stesso varrà anche per la distribuzione del residuo attivo della liquidazione in sede di scioglimento della società e degli altri diritti patrimoniali.

Occorre d’ altronde tenere presente che un “diritto particolare” può consistere anche nella limitazione o esclusione dei diritti degli altri soci a vantaggio del “favorito”. In tale prospettiva, quindi, saranno ugualmente considerate nulle le clausole che escludono ogni partecipazione agli utili (o la solita percentuale quasi totalitaria) agli altri soci.

Nella s.p.a l’applicazione del divieto del patto leonino sconta un più ampio livello di sicurezza, dato che la legge prevede espressamente alcuni tipi di azioni (categorie anch’ esse dominate dall’ uguaglianza) caratterizzate da clausole speciali (principio di eguaglianza ex art. 2348 c.c.) incidenti sulla distribuzione degli utili.

Avendo riguardo alle azioni privilegiate, la specialità è data dal privilegio negli utili o nella quota di liquidazione riconosciuto alle azioni della categoria. Il divieto di patto leonino esclude quindi la legittimità di clausole di privilegio che attribuiscono tutti gli utili o la solita percentuale elevatissima ad una sola categoria in danno delle azioni ordinarie ovvero, di altre categorie di azioni.

Diversamente, nelle azioni postergate la specialità è data dalla postergazione delle azioni della categoria rispetto agli utili o alle perdite, per cui rispettivamente le azioni partecipano agli utili solo dopo il pagamento di una certa percentuale degli utili ad altra categoria di azioni e le perdite incidono su tale categoria di azioni solo dopo aver inciso sulle azioni delle altre categorie. Quindi, la clausola è legittima quando la postergazione non si traduca nella esclusione da ogni partecipazione agli utili o nella consueta percentuale quasi – totalitaria.

La clausola è legittima quando la perdita possa incidere sulle azioni postergate, dopo aver inciso sulle altre categorie di azioni. Ma se così è, si può prevedere anche che le perdite incidano prima, per la totalità, sulle altre azioni e solo dopo, sulle azioni postergate per le perdite superiori al valore nominale delle altre categorie. In tal caso non vi è esclusione dalla partecipazione alle perdite, ne totale ne ad essa equivalente ma solo una diversa ripartizione interna tra i soci, delle stesse.

Diversamente, nel caso di azioni correlate, ovvero laddove utili e quote di liquidazione sono collegati al risultato di un settore produttivo determinato dall’ andamento della società, decisiva è la definizione del settore data dall’ atto costitutivo. Infatti, ove questo sia tanto ampio da ricomprendere l’intera attività sociale (o la quasi totalità) risulterà quindi in contrasto con il divieto di patto leonino ogni clausola il cui effetto utile sia l’esclusione delle altre categorie di azioni dalla partecipazione agli utili.


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