Sull’applicabilità del divieto di concorrenza, ex art. 2301 c.c., ai soci accomandanti

Sull’applicabilità del divieto di concorrenza, ex art. 2301 c.c., ai soci accomandanti

La disciplina della società in accomandita semplice (artt. 2313-2324 c.c.), per scelta legislativa, non gode di un regime normativo autosufficiente, infatti ad essa, in virtù dell’art. 2315 c.c., si applicano, ove compatibili, le disposizioni relative alla società in nome collettivo. Tale modello normativo ha fatto sorgere in dottrina e in giurisprudenza notevoli dubbi interpretativi circa la compatibilità e la conseguente possibilità di estensione di alcune disposizioni, topograficamente collocate nella disciplina delle società in nome collettivo, anche alla società in accomandita semplice, posto che quest’ultima risulta connotata dalla presenza di due categorie di soci (accomandatari e accomandanti) con differenti poteri e con diversi regimi di responsabilità per le obbligazioni sociali. Pertanto, mentre è più agevole individuare il complesso di norme che regolano la posizione dei soci accomandatari che, al pari dei soci della collettiva, rispondono illimitatamente e solidalmente per le obbligazioni sociali, non può dirsi lo stesso per i soci accomandanti, i quali, invece, rispondono limitatamente alla quota conferita.

Una questione che dimostra la precarietà della suddetta tecnica legislativa è quella dell’applicabilità o meno del divieto di concorrenza ex art. 2301 c.c. ai soci accomandanti di una società in accomandita semplice, posto che esso, senza dubbio, trova applicazione per i soci accomandatari.

Prima di approfondire la questione de qua, sembra doveroso fare almeno un cenno al divieto di cui all’art. 2301 c.c. e alla sua ratio. Infatti la norma si pone lo scopo di proteggere la società dal danno che le potrebbe derivare a seguito dell’esercizio di un’attività economica condotta in modo concorrenziale da uno o più soci (amministratori e non). Per tale ragione è fatto divieto sia l’esercizio di un’attività concorrenziale condotta per contro proprio, sia per contro altrui, oltre che, com’è evidente dal testo della disposizione, partecipare come socio illimitatamente responsabile ad altra società concorrente[1]. Si precisa che la violazione del divieto, per l’effetto dell’art. 2301, comma 3, legittima la società a richiedere il risarcimento del danno ed è causa di esclusione del socio ex art. 2286 c.c.

Rispetto all’applicabilità di tale obbligo ai soci accomandanti, nel tempo, sono state assunte posizioni dottrinali divergenti, anche se, come si vedrà nel prosieguo, sembra di gran lunga prevalente la soluzione negativa, anche alla luce della più recente giurisprudenza di merito e di legittimità.

La più risalente dottrina[2], in virtù dell’art. 2318 c.c., che riconosce ai soci accomandatari i diritti e gli obblighi dei soci della società in nome collettivo, riteneva che il divieto di cui all’art. 2301 c.c. non potesse estendersi ai soci accomandanti, in quanto non previsto espressamente per essi dal legislatore. Tale orientamento dottrinale si poneva sulla stessa linea interpretativa adottata da una non recente giurisprudenza di legittimità che ha funto da pietra miliare per la successiva giurisprudenza di merito. Infatti la Suprema Corte nel lontano 1989 riconosceva sì, in virtù del combinato disposto degli artt. 2315 e 2318 c.c., l’applicazione del divieto di concorrenza ai soli soci accomandatari e non anche ai soci accomandanti, ma, allo stesso tempo, affermava la possibilità di riferire in via astratta il divieto in parola anche a quest’ultimi[3]. Infatti quello di cui all’art. 2301 c.c., secondo la giurisprudenza di legittimità, non è un divieto legale, ma un divieto pattizio liberamente disponibile, con la conseguenza che le parti possano restringerne o ampliarne la portata. È però necessario, in tale ultimo caso e cioè in caso di estensione ai soci accomandanti del divieto di concorrenza, una esplicita previsione nel contratto sociale. L’importanza di tale pronuncia è stata tale da influenzare, sia per la soluzione, sia per l’apparato motivazionale, anche le successive pronunce di merito che hanno avuto ad oggetto la questione affrontata in questa trattazione. Di ciò è prova, in via esemplificativa, la statuizione del Tribunale di Torino del 2004 secondo cui “tale divieto, dettato per i soci delle società in nome collettivo, è applicabile esclusivamente nei confronti dei soli soci accomandatari di società in accomandita semplice: solo quest’ultimi, infatti, e non i soci accomandanti di società in accomandita semplice, per il combinato disposto degli artt. 2315 e 2318 c.c. hanno i diritti e gli obblighi dei soci delle società in nome collettivo[4].

Tale orientamento negli anni si è mostrato sicuramente prevalente, ma non possono trascurarsi le voci di dissenso che si sono levate, soprattutto in dottrina. Infatti, secondo parte della dottrina, seppur minoritaria, è preferibile ritenere che anche il socio accomandante sia gravato dall’obbligo di non concorrenza ex art. 2301 c.c. “sul presupposto che i poteri di informazione possono consentirgli l’acquisizione di notizie riservate che potrebbero danneggiare la società, qualora eserciti in proprio un’attività concorrente o partecipi come socio illimitatamente responsabile ad altra società[5]. Ed infatti, se l’art. 2320, comma 3, c.c. attribuisce ai soci accomandanti il diritto di ricevere comunicazioni annuali sul bilancio, sul conto dei profitti e delle perdite e il diritto di consultare “i libri e gli altri documenti della società”, la non applicabilità del divieto di concorrenza potrebbe esporre la società a gravi conseguenze sotto il profilo del rendimento dell’attività imprenditoriale.

Si pensi alla riservatezza di alcune informazioni aziendali che, se conosciute dai competitors, potrebbero mettere in grave difficoltà la strategia imprenditoriale della società. Pertanto, la ratio di tutela della società, espressa dal divieto di concorrenza, suggerisce di renderla immune sia dalle condotte concorrenziali provenienti dai soci accomandatari, sia da quelle provenienti dai soci accomandanti.

Tra l’altro, dall’art. 2318 c.c. non può desumersi la non applicabilità del divieto in parola ai soci accomandanti, posto che non è questo il fine della norma che, invece, è destinata univocamente alla disciplina dei soci accomandatari, ai quali, per semplicità legislativa, è stata estesa integralmente la disciplina dei soci della collettiva.

Al contrario ai soci accomandanti, in quanto categoria diversa dai soci della collettiva, non poteva estendersi l’integrale disciplina regolativa della posizione di quest’ultimi ed, infatti, è stata prevista un’apposita norma, l’art. 2320 c.c., che pone un regime specifico.

Ma né l’art. 2318 c.c., né l’art. 2320 c.c. stabiliscono espressamente che il divieto di concorrenza non trova applicazione per i soci accomandanti. Del resto, se le norme della società in nome collettivo, ai sensi dell’art. 2315 c.c., si applicano alla società in accomandita semplice in quanto compatibili, può affermarsi che nulla osta all’applicabilità del divieto ex art. 2301 c.c. anche ai soci accomandanti. Si potrebbe giungere ad una soluzione opposta soltanto nel caso in cui vi fosse una norma che vietasse espressamente per i soci accomandanti l’applicazione del divieto o che comunque fosse evidentemente incompatibile con questo.

Può pertanto dirsi che l’art. 2301 c.c. può riferirsi, seppur in via implicita, ai soci accomandanti, i quali, conseguentemente, potrebbero essere esclusi dalla società ove violassero la disposizione.

Del resto, se il socio accomandante, nei casi di cui all’art. 2314 c.c., in materia di violazione delle regole sulla ragione sociale, e nei casi di cui all’art. 2320 c.c., in materia di violazione del divieto di immistione, è sottoposto ad un rigoroso trattamento sanzionatorio sotto il profilo patrimoniale, non appare, poi, ragionevole, concedergli la facoltà di svolgere un’attività concorrenziale con quella della società cui fa parte.

Appare poco ragionevole infatti sanzionare, da un lato, in maniera rigorosa con l’esclusione dalla società, il socio accomandante che abbia violato il divieto di immistione, che concretamente potrebbe aversi anche nel caso di conduzione di trattative in nome della società, e dall’altro non prevedere alcuna reazione ove questi arrechi un danno più ingente, conducendo un’attività concorrenziale (per esempio, anche sfruttando le informazioni segrete della società).

Quindi, con tale interpretazione non rigorosamente ancorata al dato letterale, ma fondata su una ricostruzione sistematica e ragionevole dell’ordito normativo, si vuole evitare la conseguenza per cui il socio accomandante, in caso di violazione del divieto di immistione, che si potrebbe tradurre in un tenue pregiudizio alla società, sia sottoposto ad un trattamento sanzionatorio rigido (responsabilità illimitata ed esclusione) e invece, in caso di violazione di divieto di concorrenza, che potrebbe produrre un danno ingente, non vi sia alcun trattamento sanzionatorio.

Depone nel senso prescelto in questa trattazione anche la necessità di non estraniare del tutto i soci accomandanti dall’attività imprenditoriale della società in accomandita semplice che, in nuce, conserva potenziali rischi di abuso da parte degli stessi[6].

Nonostante quanto premesso, la Corte di Cassazione, in una recente pronuncia, ha riconfermato la pregressa giurisprudenza di legittimità, stabilendo che, per il combinato disposto degli artt. 2315 e 2318, il divieto di cui all’art. 2301 c.c. “è applicabile nei confronti dei soli soci accomandatari società in accomandita semplice e non anche per i soci accomandanti, salvo che per questi ultimi non sia pattiziamente previsto con una disposizione contenuta nel contratto sociale[7].

E’ da precisare, tuttavia, che la società, dinanzi ad un’attività concorrenziale del socio accomandante, non rimarrebbe scevra di tutela in tutti i casi. Per esempio, l’attività concorrenziale del socio accomandante, condotta proficuamente per il tramite della sottrazione di notizie riservate e di segreti aziendali di cui è detentrice la società in accomandita semplice, potrebbe integrare gli estremi di un atto di concorrenza sleale ex art. 2598, n. 3, c.c., trattandosi di un comportamento non conforme ai principi di correttezza professionale e idoneo a cagionare all’altrui azienda un danno. Da tale violazione, per i soci accomandanti che siano colpevoli in concorso di atti di concorrenza sleale, potrebbe derivare l’applicazione dell’art. 2286 c.c. che prevede l’esclusione del socio in caso di gravi inadempienze degli obblighi che derivano dalla legge o dal contratto sociale[8]. E’ necessario, però, che si tratti di gravi inadempienze, motivo per cui in dottrina si è osservato al riguardo che “per giusta causa di esclusione deve intendersi ogni accadimento, riguardante la persona del socio, che sia idoneo a pregiudicare la profittevole prosecuzione del rapporto sociale con il medesimo[9], tra cui anche l’attività concorrenziale del socio in danno della società cui fa parte.


[1] Il divieto, conseguentemente, non impedisce al socio di far parte, in qualità di socio limitatamente responsabile, della compagine societaria di una società concorrente di persone o di capitali. Così come non viene impedito l’esercizio di un’attività d’impresa svolta in modo non concorrenziale con quella della società.
[2] BUSSOLETTI, M., Società in accomandita semplice, in ED, XLII, Milano, 1990, 974; GRAZIANI, A., Diritto delle società, V ed., Napoli, 1962, 162, nt. 1.
[3] Cass. civ. 16-06-1989, n. 2887, in www.pluris-cedam.utetgiuridica.it.
[4] Trib. Torino, Sez. Proprieta’ Industriale e Intellettuale, 02/09/2004, De jure, reperibile in www.iusexplorer.it; ma Cfr. anche Trib. Prato, 05/09/2011, De jure, in www.iusexplorer.it.
[5] PISCITELLO, P., Società in accomandita semplice, in www.treccani.it; nello stesso senso GRECO, P., Le società nel sistema legislativo italiano. Lineamenti generali, Torino, 1959, 351, nota 24 e DENOZZA, F., Società in accomandita. I) Società in accomandita semplice, in Enc. giur. Treccani, XXIX, Roma, 1993.
[6] Cfr. CAMPOBASSO, G.F., Diritto Commerciale, Diritto delle Società, vol. II, a cura di M. CAMPOBASSO, UTET, Torino, 2012, 124, secondo cui “servendosi di un accomandatario di paglia (compiacente ed ovviamente nullatenente), si soci accomandanti potrebbero in fatto cumulare i vantaggi delle società di persone (esercizio personale e diretto del potere di direzione dell’impresa), con quella delle società di capitali (beneficio della responsabilità limitata)”.
[7] Cass., n. 10715 del 24 maggio 2016, in www.cortedicassazione.it.
[8] In tal senso cfr. LUONI, S., SAS – L’esclusione del socio accomandante assente, protestato o concorrente in Giur. It., 2015, 3, 679. Tra l’altro se l’accomandante fosse legato alla società in virtù di un rapporto di subordinazione, la tutela per la società troverebbe fonte nell’art. 2105 c.c. che stabilisce un obbligo di fedeltà in capo al prestatore di lavoro.
[9] CIAN, M., L’esclusione del socio, in S.r.l. Commentario dedicato a G. B. Portale, Milano, Giuffrè, 2011, 506 ss. V. anche GARESIO, G., L’esclusione del socio accomandante: l’applicazione dell’art. 2286 c.c. al socio di capitale in Giur. Comm., fasc.4, 2015, 875.

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Salvatore Casarrubea

Laureato in Giurisprudenza con 110, lode e mensione alla tesi. Attualmente è Iscritto all'ordine dei praticanti avvocati di Palermo e collabora con lo studio Legale Perrino&Associati e con lo studio Legale Casarrubia. Mail: salvocasarrubea@gmail.com

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