Tecniche di anticipazione della tutela penale e principio di offensività

Tecniche di anticipazione della tutela penale e principio di offensività

Sommario: 1. I principi di materialità e di offensività – 2. Tecniche di anticipazione della tutela penale – 3. Reati di pericolo e reati di possesso – 4. Delitto tentato – 5. Reati a dolo specifico e reati di attentato – 6. Compatibilità delle tecniche di tutela anticipata con il principio di offensività – 7. In conclusione

 

La normativa in materia penale si fonda sui principi di materialità ed offensività della condotta. Tuttavia il legislatore non ha mancato di elaborare alcune tecniche anticipatorie della tutela penale, tramite la creazione di fattispecie delittuose che di primo acchito sembrerebbero entrare in conflitto con i due principi generali, in particolare con il principio di offensività.

1. I principi di materialità e di offensività

In base al principio di materialità nessun fatto può essere punito se non produce una estrinsecazione materiale. Espresso dalla massima latina “cogitationis poenam nemo patitur“, fu elaborato al fine di temprare una concezione formale del reato che individuava quest’ultimo unicamente in una fattispecie tipica, ossia prevista dalla legge: secondo la concezione formale un fatto poteva essere punito come reato per il solo fatto di essere previsto dalla legge come tale, indipendentemente dalla effettiva lesione che poteva essere prodotta. Ad oggi, grazie alla elaborazione del principio di materialità come cardine dell’ordinamento penale, ha preso piede l’opposta concezione di reato: secondo la concezione materiale di reato perché un fatto possa essere punito in qualità di reato è necessario sia che sia previsto dalla legge come tale sia, altresì, che si sostanzi nell’offesa ad un bene giuridico rilevante per l’ordinamento, e pertanto tutelato.

Il principio di materialità trova la sua fonte nella Costituzione, precisamente all’art. 25 Cost., il quale parla di punibilità per un “fatto commesso” e sancisce, di conseguenza, l’assenza del reato in mancanza di una volontà criminosa che si materializzi in un comportamento esterno.

Fra gli ulteriori riferimenti normativi al principio in esame spicca l’art. 115 c.p., il quale esclude la punibilità della mera intenzione criminosa. La norma si basa su un’esigenza garantistica, ovverosia quella di escludere la configurabilità del reato (anche nella mera forma del tentativo) nei casi di semplice accordo criminoso o di istigazione a delinquere non effettivamente seguiti dalla commissione del fatto di reato; ad ogni modo la norma non tralascia l’eventuale pericolosità sociale del soggetto, che tale accordo od istigazione possono indicare, prevedendo la possibilità di applicazione di una misura di sicurezza.

Ad ulteriore fondamento del diritto penale italiano troviamo il principio secondo cui sono privi di ogni rilevanza giuridica i fatti la cui punibilità non è condizionata all’offesa del bene giuridico tutelato dalla norma incriminatrice. Noto come principio di offensività, viene espresso dal brocardo latino nullum crimen sine iniuria, per il quale il reato deve sostanziarsi nella necessaria offesa ad un bene giuridico, non essendo concepibile un reato senza offesa. Il principio, dunque, subordina la sanzione penale all’offesa del bene giuridico tutelato e risulta indefettibile in un sistema penale liberale e garantista. Ricordiamo, peraltro, come l’offesa possa sostanziarsi tanto nella effettiva lesione del bene quanto nella sua esposizione a pericolo in termini potenziali.

I rifermenti normativi  al principio in questione, rinvenibili nella Costituzione, sono gli articoli 13 Cost. e 25, comma 2, Cost. L’art. 13 Cost., nel prevedere che “la libertà personale è inviolabile” implicitamente indica che una eventuale restrizione della libertà personale dovuta all’applicazione di una pena può ammettersi soltanto in presenza di una effettiva (o potenziale, in quanto messa in pericolo) lesione di un bene giuridico rilevante per l’ordinamento. L’art. 25, comma 2, Cost., espressione del fondamentale principio di legalità, afferma che “nessuno può essere punito se in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso”; l’articolo è di fondamentale importanza in quanto ai fini della punibilità di un fatto richiede in primis che esso sia tipico (previsto dalla legge come reato), ed inoltre che sia offensivo di beni tutelati dalla legge, non potendo essere punita una condotta lesiva di un bene giuridico non avente copertura legislativa al momento della commissione del fatto. Ulteriore riferimento normativo al principio in esame si desume dall’art. 49 comma 2 c.p., il quale esclude la punibilità del reato impossibile: prendendo in considerazione la peculiare ipotesi di tentativo inidoneo, esclude la punibilità del reato qualora, per la inidoneità dell’azione ovvero per l’inesistenza dell’oggetto risulta impossibile l’evento dannoso o pericoloso.

I principi di materialità ed offensività impongono, dunque, che il fatto di reato abbia riscontri esterni oggettivi e ciò comporta la non punibilità delle intenzioni e delle qualità personali. A conferma di ciò la giurisprudenza (della Corte Costituzionale e della Corte di Cassazione) si è espessa innumerevoli volte e, negli anni, ha ricondotto all’alveo del penalmente irrilevante tutte quelle condotte caratterizzate da esiguità del danno arrecato, e pertanto concretamente inoffensive. In particolare tramite la sentenza n. 354 del 2002  i giudici della Corte Costituzionale hanno affrontato il tema della non punibilità delle qualità personali tramite la valutazione della legittimità costituzionale dell’art. 688, 2 comma, c.p.: la norma in questione prevedeva la punibilità di una fattispecie (che altrimenti restava esclusa dall’area del penalmente irrilevante) ossia lo stato di manifesta ubriachezza in luogo pubblico o aperto al pubblico, rilevante in concomitanza con la situazione personale di chi avesse riportato una condanna per delitto non colposo contro la vita o l’incolumità individuale. La Consulta ha affermato, dunque, l’illegittimità costituzionale dell’articolo.

La Consulta, in tale prospettiva, è intervenuta altresì per espungere dall’ordinamento sanzioni che non rispettassero il principio di proporzionalità, il quale esige che la pena sia proporzionata al disvalore del fatto illecito commesso in modo che la sanzione adempia nel contempo alla funzione di difesa sociale ed a quella di tutela delle posizioni individuali (si pensi, al riguardo, al minimo edittale previsto con riferimento alla fattispecie dell’oltraggio a pubblico ufficiale).

Da ultimo tali orientamenti hanno trovato piena consacrazione nell’art. 131 bis c.p., il quale codifica come causa di non punibilità la particolare tenuità del fatto, ossia il caso in cui l’offesa sia particolarmente tenue ed il comportamento del reo non abituale. Le circostanze di cui al secondo e terzo comma dell’articolo operano invece quali presunzioni juris et de jure di non particolare tenuità del fatto: quando l’autore ha agito per motivi abietti o futili, o con crudeltà, o ha adoperato sevizie, o ha profittato delle condizioni di minorata difesa della vittima, o quando la condotta ha cagionato o da essa sono derivate, quali conseguenze non volute, la morte o le lesioni gravissime di una persona, ovvero quando si procede per delitti, puniti con una pena superiore nel massimo a due anni e sei mesi di reclusione, commessi in occasione o a causa di manifestazioni sportive, ovvero quando il fatto di cui agli articoli 336, 337, 341 bis c.p., è commesso nei confronti di un pubblico ufficiale nell’esercizio delle proprie funzioni.

2. Tecniche di anticipazione della tutela penale

Malgrado la supremazia che nel nostro ordinamento rivestono il principio di offensività e di materialità, il legislatore ha positivizzato alcune figure giuridiche che costituiscono delle vere e proprie tecniche di tutela giuridica anticipata. Gli stessi principi, difatti, si contrappongono all’esigenza che a volte sussiste di prevenire anticipatamente la lesione di un bene giuridico, punendo anche la sola condotta del soggetto.

A tale insieme vanno ricondotte diverse categorie di reati: reati di pericolo, di possesso e di attentato, reati a dolo specifico, fino alla figura del tentativo.

3. Reati di pericolo e reati di possesso

Le fattispecie di reati di pericolo e reati di possesso costituiscano una prodromica tutela penale rispetto all’effettiva lesione o messa in pericolo del bene protetto, e apportano una evidente anticipazione temporale della tutela.

I reati di pericolo sono la categoria opposta dei reati di danno, dai quali deriva una lesione concreta e reale ad un bene tutelato dall’ordinamento. Nei reati di pericolo il bene giuridico oggetto della norma non è concretamente leso ma è messo a rischio dalla condotta dell’agente; si pensi all’associazione per delinquere, ex art. 416 c.p., all’avvelenamento di acque, ex art. 439 c.p., ovvero all’omissione di soccorso ex art. 593 c.p. All’interno della categoria dei reati di pericolo è possibile individuare una classificazione ulteriore, tra reati di pericolo concreto e reati di pericolo astratto, in base alla concretezza e possibilità che il bene tutelato sia messo in pericolo. Rientrano nelle ipotesi di pericolo concreto tutti i  casi il giudice sarà chiamato ad accertare se il bene tutelato dall’ordinamento sia stato concretamente messo in pericolo dalla condotta dell’agente (reati contro la salute e l’incolumità pubblica, ad esempio). Nei reati di pericolo astratto la condotta viene sanzionata anche se il bene tutelato non è messo concretamente in pericolo, purchè il colpevole ponga in essere la condotta descritta dalla norma (esempio tipico è il reato di incendio). Infine occorre precisare che il legislatore ha positivizzato anche la categoria dei reati di pericolo presunto, per i quali il pericolo è insito nella condotta stessa, tipizzata: in tale ipotesi l’esistenza del pericolo è giuridicamente certa e non sarà dimostrabile l’inesistenza dello stesso (è il caso, ad esempio, della detenzione illegale di armi: in tale caso l’ordinamento ritiene comunque pericolosa).

I reati di possesso costituiscono la categoria delittuosa in cui l’oggetto del divieto è il possesso o detenzione di un determinato oggetto, ossia la possibilità di farne uso. E’ proprio nel pericolo dell’uso della cosa che risiede la ragione della configurazione di quest ipotesi di reato (ne costituisce un esempio l’art. 453 c.p., detenzione di monete falsificate). Sottocategoria dei reati di possesso sono, peraltro, i reati di sospetto, contrastanti con la generale presunzione di non colpevolezza, retaggio di una concezione dei rapporti tra Stato e cittadini rigidamente moralista e caratterizzata da un aperto atteggiamento di sfiducia verso certe categorie di persone. Il reato previsto dall’art. 707 c.p., ovvero il possesso ingiustificato di chiavi alterate o di grimaldelli, costituisce esempio emblematico della sottocategoria: la funzione della norma in esame è di prevenire il compimento di reati, incrimando la mera creazione di situazioni di fatto che, se poste in essere da determinati soggetti, verosimilmente preludono alla commissione di un delitto.

4. Delitto tentato

Analoga funzione di anticipazione della tutela è rinvenibile nel delitto tentato di cui all’art. 56 c.p., la cui punibilità è connessa al compimento di atti idonei e diretti in modo non equivoco a commettere un delitto, ma del quale, tuttavia, non risultano integrati tutti gli elementi costitutivi; difatti, risponde di delitto tentato colui che compie atti idonei diretti in modo non equivoco a commettere un delitto, se l’azione non si compie o l’evento non si verifica. Con l’espressione “atti idonei diretti in modo non equivoco a commettere un delitto”  l’art. 56 indica le azioni che esteriorizzano un’intenzione criminosa, senza però che il crimine sia stato commesso, o perché manca l’evento nonostante la condotta sia stata realizzata, oppure perché la condotta è stata realizzata solo in parte. Idoneo è un atto che può considerarsi capace di raggiungere il risultato, e oggettivamente pericoloso, quindi quello che presenta queste due caratteristiche: 1) capacità  2) oggettiva pericolosità.                      Per quanto riguarda il concetto di idoneità, l’opinione maggioritaria sostiene che il giudizio vada effettuato ex ante e in concreto; tale criterio è detto anche della prognosi postuma.  Per quanto attiene, invece, all’univocità degli atti si fronteggiano tre tesi. Secondo l’opinione oggettiva gli atti possono essere considerati inequivoci quando, in sé considerati, sono oggettivamente tali da provocare quel determinato evento; secondo l’opinione soggettiva gli atti sono univoci quando in sede processuale viene raggiunta la prova del proposito criminoso. Infine, secondo una teoria intermedia, è necessario utilizzare contemporaneamente il criterio oggettivo e quello soggettivo: l’atto sarà univoco quando sia di per sé idoneo a provocare l’evento, e quando sia raggiunta la prova dell’intento criminoso.  Si distingue, inoltre, il tentativo compiuto da quello incompiuto: il tentativo compiuto si ha quando il reo ha posto in essere tutto l’iter criminoso, fino alla fine, ma l’evento non si è verificato (ad es. l’agente esplode un colpo che tuttavia non colpisce il bersaglio); il tentativo è incompiuto quando la condotta criminosa non è stata portata a termine. Ad ogni modo il tentativo ha un’efficacia estensiva della punibilità, in quanto estende la proibizione di un fatto ad una soglia antecedente a quella del reato consumato. Si tratta, tuttavia, di una figura di reato autonoma e perfetta, perché presenta tutti gli elementi necessari per l’esistenza del reato: fatto tipico, antigiuridicità, colpevolezza. Il tentativo, secondo l’opinione tradizionale è considerato un reato di pericolo, o, meglio, un reato di pericolo astratto: il soggetto viene punito non perché ha realizzato un’offesa al bene giuridico, ma perché ha messo in pericolo il detto bene.

5. Reati a dolo specifico e reati di attentato

Nelle fattispecie di reato a dolo specifico la tipologia di dolo consiste in una finalità, ulteriore alla mera commissione dell’illecito, che l’agente deve prendere di mira. Dal dolo generico occorre, difatti, tenere nettamente distinto il dolo specifico del reato: il primo consiste nella volontà dell’autore di un reato di tenere una data condotta e di provocare un dato evento; il dolo specifico può essere indicato come il movente, la ragione intima per cui il soggetto compie il reato, normalmente irrilevante ai fini della sussistenza del reato. Il dolo è specifico quando la norma incriminatrice richiede, affinché sia integrata la fattispecie, che il soggetto, oltre a rappresentarsi e volere il fatto tipico, agisca con l’intento di realizzare uno scopo ulteriore (in questo caso il movente è rilevante); si pensi all’espressione “al solo scopo di danneggiare la cosa altrui” nel delitto di danneggiamento seguito da incendio previsto dall’art. 424 c.p. In tali casi il movente diviene elemento costitutivo del reato. Ulteriori esempi di fattispecie connotate da dolo specifico sono alcune ipotesi delittuose che offendono la personalità e la integrità dello Stato, come la fattispecie di associazione con finalità di terrorismo anche internazionale o di eversione dell’ordine democratico ex art. 270-bis c.p.  e le condotte con finalità di terrorismo ex art. 170 sexies c.p.

Un’altra tecnica di tutela anticipata è quella dei delitti di attentato, altrimenti detti delitti a consumazione anticipata, Essi puniscono una condotta in quanto tesa al perseguimento di un determinato risultato che, però, ai fini della punibilità non è necessario si consegua in concreto. E’ rinvenibile una omogeneità di struttura tra tentativo e delitto di attentato, posto che in entrambi i casi costituiscono elementi essenziali la univocità e l’idoneità degli atti a ledere il bene protetto. Proprio la mancanza di una disposizione di parte generale che, alla stregua dell’art. 56 c.p., regolasse il delitto di attentato che ha fatto sorgere il problema di stabilire se il quest’ultimo punisca già l’attività preparatoria o richieda, invece, la presenza degli elementi strutturali del tentativo, ovvero l’inizio di esecuzione e l’idoneità degli atti. Ad ogni modo i delitti di attentato vengono collocati dalla dottrina tradizionale nell’ambito dei reati di scopo, con i quali si incrimina non l’offesa ad un bene giuridico, ma la realizzazione di certe situazioni che lo Stato ha interesse a che non si realizzino. Tali fattispecie sono in grado di eludere il principio di offensività in quanto, a differenza dei reati di offesa in cui la lesione o la messa in pericolo costituiscono elemento tipico del reato, nei reati di attentato manca l’offesa o per l’anticipazione dell’incriminazione a fasi precedenti l’offesa stessa o per la mancanza dello stesso bene giuridico (si veda la categoria dei reati senza bene giuridico). L’ipotesi principale è quella di cui all’art. 241 c.p., rubricato “Attentati contro l’integrità, l’indipendenza e l’unità dello Stato”, che disciplina il più grave tra i delitti contro la personalità dello Stato e punisce chiunque compie atti violenti diretti e idonei a sottoporre il territorio dello Stato o una parte di esso alla sovranità di uno Stato straniero, ovvero a menomare l’indipendenza o l’unità dello Stato.

6. Compatibilità delle tecniche di tutela anticipata con il principio di offensività

Per quanto attiene alla categoria dei reati di pericolo occorre operare una distinzione. In riferimento ai reati di pericolo concreto essi presuppongono un accertamento concreto della pericolosità ad opera del giudice ed il pericolo assurge ad elemento costitutivo della fattispecie. Nei reati di pericolo astratto, invece, la pericolosità viene prevista dal legislatore in via generale e astratta sulla base di regole d’esperienza, sebbene determinate fattispecie consentano di individuare comunque un elemento concreto di pericolo quale requisito della fattispecie: si pensi ad esempio al reato di epidemia, che fa riferimento a quelle malattie che possiedono una carica infettiva ed una velocità di propagazione tali da porre in pericolo concreto un numero indeterminato di persone. Sembrano porsi in apparente contrasto con il principio di offensività quelle fattispecie di pericolo astratto relativamente alle quali non è possibile, neppure in via interpretativa, rinvenire la necessità di un accertamento di indici di concreta pericolosità. Per questo motivo parte della dottrina ha persino sostenuto l’illegittimità costituzionale di tali fattispecie, sebbene la Corte Costituzionale abbia respinto l’idea di una incompatibilità delle fattispecie di pericolo astratto con il dettato costituzionale in quanto tali ipotesi rappresentano il più efficace strumento di tutela di determinati e fondamentali beni giuridici.

Con riferimento ai reati di possesso essi operano in funzione preventiva, perché tendono a prevenire la commissione di reati futuri mediante l’incriminazione di comportamenti che ne costituiscono la premessa idonea. Circa la sottocategoria dei reati di sospetto, essi sono reati che puniscono condotte che lasciano presumere la commissione, ancora non accertata, di un reato. La dottrina sul punto è molto critica e dubitativa sul piano della conformità delle due tipologie di reati al principio di offensività, perché l’autore del reato risponde penalmente per una condotta non concretamente accertata come pericolosa, ma solo sintomatica di una eventuale e possibile reato. La dottrina afferma, infatti, che i reati ostativi incriminano condotte addirittura anteriori al tentativo; ne costituisce esempio il già citato art. 707 c.p., ma il mero possesso non necessariamente prova la volontà di commettere un delitto contro il patrimonio. Tuttavia, secondo una interpretazione formale della fattispecie, se il possesso non giustifica il possesso, è passibile di una contravvenzione. Sul punto è intervenuta la Corte costituzionale che ha sancito la legittimità della norma ritenendola rispettosa del principio di offensività, affermando che il principio di offensività è collegato alla valutazione del giudice che, tenendo conto delle circostanze soggettive e oggettive, verifica la concreta violazione o messa in pericolo del bene giuridico tutelato dalla norma. Tali forme di incriminazione risultano discutibili anche in considerazione della circostanza che esse realizzano un’inversione dell’onere della prova per cui spetta al soggetto agente provare la destinazione o la provenienza lecita degli oggetti in suo possesso. Un parziale temperamento è stato fornito dalla recente giurisprudenza, la quale ha sostenuto che l’imputato non sia tenuto a fornire la piena prova della liceità del possesso, essendo sufficiente una spiegazione congrua e circostanziata. In accoglimento dei dubbi circa la sopravvenienza di tale tipologia di reati, è intervenuta la Corte Costituzionale, nel dichiarare costituzionalmente illegittimo l’art. 708 c.p., rubricato “Possesso ingiustificato di valori“.

Altra categoria di reati che desta il sospetto di una violazione del principio di offensività è quella dei reati dolo specifico. Con riguardo ai reati a dolo specifico si è palesato il sospetto di una violazione del principio di offensività e materialità derivante dal fatto che la normativa in questione tende ad una valorizzazione della volontà dell’agente rispetto alla reale offesa o messa in pericolo del bene. Il problema evidentemente non si pone laddove il dolo specifico assolva ad una funzione selettiva e determini, conseguentemente, una restrizione dell’ambito del penalmente rilevante (come nel reato di ricettazione ex art. 648 c.p., il quale esige che il soggetto commetta il fatto al fine di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto) ovvero ad una funzione differenziatrice (si pensi alla diversità degli scopi che l’agente può prendere di mira nel realizzare il sequestro di persona, cui corrispondono varie fattispecie di sequestro). Problematica è, invece, l’ipotesi in cui il dolo specifico assolve ad una funzione anticipatoria. In tal caso la punibilità a titolo di reato consumato è ancorata, non alla effettiva realizzazione dell’offesa, ma ad un momento prodromico caratterizzato dall’aver agito con una determinata finalità. Secondo prevalente dottrina e giurisprudenza, a rendere compatibili tali fattispecie con il principio di offensività sopperisce una loro interpretazione in chiave oggettiva, che tenga conto dell’effettiva idoneità della condotta a conseguire un determinato risultato.

Per quanto attiene i reati di attentato, l’esigenza di una rivalutazione dell’intero sistema penale alla luce del principio di offensività ha indotto il legislatore del 2006 a modificare i tratti essenziali delle più importanti fattispecie di delitti di attentato, attraverso una restrizione selettiva delle condotte punibili, conforme alla concezione del diritto penale quale extrema ratio. Le fattispecie sono state ridisegnate tramite la previsione espressa del duplice requisito della idoneità e della violenza degli atti, ovverosia che la condotta consista in atti violenti non solo soggettivamente diretti al fine vietato, ma a ciò oggettivamente idonei. A ben vedere la necessaria idoneità degli atti costituiva un punto già assodato per via dell’attività di dottrina e giurisprudenza, per cui il punto cruciale della novella è costituito dal requisito della violenza degli atti: tale requisito consente di espungere dall’ambito del penalmente rilevante tutte le condotte che costituiscano mera espressione della libertà di pensiero ma che non sfocino in veri e propri atti di violenza.

Infine, anche la figura del delitto tentato costituisce una tecnica di tutela anticipata giacché si configura laddove l’agente non riesca a portare a compimento l’illecito programmato. Al fine di evitare l’uso smodato della figura del tentativo, strumentalizzato al fine di punire fatti concretamente inoffensivi, è cruciale stabilire quando degli atti possano dirsi in grado di  sfociare nella consumazione di un delitto. Dottrina e giurisprudenza sono concordi nell’ammettere che il parametro di accertamento dell’idoneità deve essere condotto sulla base del giudizio della prognosi postuma, che tiene in considerazione tutte le circostanze conoscibili ex ante da parte di un agente di media diligenza e avvedutezza nonché di quelle circostanze ulteriori in concreto conosciute.

7. In conclusione

L’esigenza sempre più pregnante di arretrare la soglia di punibilità del fatto è consequenziale allo sviluppo della nostra società, definita “società del rischio”, dove l’aumento delle minacce cui sono esposti beni e persone è in continuo aumento e dove il pericolo è diventato il normale prezzo da pagare per lo sviluppo di una società industriale moderna e produttiva. Ne consegue che il pericolo non può e non deve più essere considerato solo il frutto di condotte criminali, in quanto è possibile che scaturisca da comportamenti totalmente leciti.

D’altro canto il principio di offensività pone dei precisi limiti ad una estensione dell’area del penalmente rilevante e non consente al legislatore di giungere fino al punto di sanzionare pure e semplici violazioni del precetto penale che non siano anche produttive di un’offesa ad un bene giuridico ritenuto meritevole di tutela da parte dell’ordinamento. In altri termini soltanto un pericolo che sia obiettivamente rilevabile e verificabile potrà legittimare un’anticipazione della tutela penale.

Peraltro i maggiori problemi di compatibilità con il principio di offensività sorgono in relazione alla categoria dogmatica dei reati di pericolo astratto, sebbene ad oggi risulti pacifica la rilettura di tali fattispecie in chiave d’offesa; se al legislatore è dato di arretrare la soglia di punibilità per proteggere beni giuridici esposti ad aggressioni, al giudice compete il dovere di verificare se le ragioni che hanno giustificato l’arretramento si siano verificate anche nel caso concreto.

A ben vedere, dunque, nella società attuale è necessario operare un equo bilanciamento tra l’esigenza di tutelare beni di primaria importanza e quella di evitare l’illegittima compressione dei diritti di libertà, tramite l’applicazione di pene: a tale scopo è stato elaborato il principio di precauzione il quale costituisce una valida legittimazione di forme di tutela anticipata. L’esigenza di prudenza insita nel principio di precauzione impone di ricercare una relazione di proporzionalità tra il rango dei beni da proteggere e la limitazione dei diritti di libertà. In definitiva, la soluzione prospettata consiste nella applicazione combinata del principio di offensività e quello di proporzionalità; in altri termini, meno grave è l’offesa tanto più elevato deve essere il rango del bene.


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Claudia Ruffilli

Claudia Ruffilli, nata a Bologna il 21 aprile 1992. Ho conseguito il diploma di maturità classica presso il Liceo Classico Marco Minghetti di Bologna. Nel 2017 ho conseguito la Laurea Magistrale in Giurisprudenza presso l'Università degli Studi di Bologna. Ho svolto la pratica forense presso uno Studio Legale ed un tirocinio formativo presso il Tribunale per i Minorenni di Bologna. Nel 2019 ho conseguito l'abilitazione all'esercizio della professione forense presso la Corte di Appello a Bologna, dove lavoro.

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