Tecniche speciali di investigazione e crimine organizzato: le undercover operations

Tecniche speciali di investigazione e crimine organizzato: le undercover operations

Le operazioni di infiltrazione, rientranti nella materia del coordinamento operativo, consistono in attività di raccolta e di successiva analisi di notizie e di dati, dalla cui elaborazione sono ricavate informazioni utili, in cui l’identità dell’agente o ufficiale deve rimanere segreta o dissimulata sotto diversa apparenza.

Tali operazioni vanno svolte secondo le regole e le procedure proprie della lex loci, in base ad un accordo specifico concluso tra lo Stato richiedente e lo Stato richiesto.

Ai sensi dell’art. 20 della Convenzione di Palermo, gli Stati contraenti sono tenuti, “nel rispetto del diritto e delle procedure nazionali”, ad adottare le misure necessarie per consentire l’impiego della consegna controllata[1] e di altre ipotesi operative, quali la sorveglianza elettronica[2] e le undercover operations, ossia le operazioni sotto copertura.

Gli Stati interessati sono tenuti a collaborare nello svolgimento dell’operazione, al fine di coordinarsi quanto alla preparazione e al controllo delle attività, preoccupandosi anche di operare in modo da assicurare garanzie di sicurezza degli agenti infiltrati o sotto falsa identità.

L’accordo deve altresì definire una serie di aspetti importanti nella pratica, quali la durata delle operazioni e le relative condizioni particolareggiate, ossia i profili su cui appare inevitabile l’attivazione di un canale di efficace e pronto coordinamento – magari costituendo un apposito team investigativo sotto l’egida di Eurojust – tra le rispettive autorità giudiziarie degli Stati interessati.

Può farsi ricorso alle operazioni di infiltrazione non solo per fronteggiare la grande criminalità ma anche relativamente ad indagini aventi ad oggetto forme di criminalità “ordinaria”[3].

Nell’ordinamento italiano, il legislatore ha disciplinato organicamente lo strumento investigativo in esame solo con l. 146/2006, il cui art. 9 ha dato attuazione all’art. 20 della Convenzione di Palermo, fornendo un quadro generale delle suddette tecniche speciali di investigazione, da impiegare in contesti investigativi particolarmente complessi e nel corso di specifiche indagini di polizia. Così facendo, il legislatore ha ridisegnato il sistema delle c.d. tecniche di indagini “non convenzionali”, prima disciplinate con norme ambigue e spesso discordanti tra loro.

La norma si applica ogniqualvolta l’attività sotto copertura (realizzata dai soggetti e con le modalità stabiliti dalla legge) sia finalizzata ad acquisire elementi di prova, con riferimento ai reati commessi con finalità di terrorismo, “ai delitti previsti dagli artt. 648-bis e 648-ter nonché nel Libro II, Titolo XII, Capo III, Sezione I, del codice penale, ai delitti concernenti armi, munizioni, esplosivi, ai delitti previsti dall’art. 12 commi 3, 3-bis e 3-ter, del t.u. delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, di cui al d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286, nonché dall’art. 3 della l. 20 febbraio 1958, n. 75”[4] .

Tuttavia, il legislatore ha escluso i reati di cui agli artt. 416 e 416-bis, 318-321, c.p., creando una discrasia, di fatto, con la norma convenzionale, non essendo stati ricompresi i principali crimini associativi.

Quanto alla descrizione delle condotte che possono essere oggetto di undercover operations, la noma si pone in linea con le dinamiche organizzative del crimine transnazionale. In particolare, nell’intento di potenziare i poteri delle forze di intelligence, è consentito loro, anche per interposta persona, di “dare rifugio o comunque prestare assistenza agli associati, acquistare, ricevere, sostituire od occultare denaro, armi, documenti, stupefacenti, beni ovvero cose che sono oggetto, prodotto, profitto o mezzo per commettere il reato o altrimenti ostacolare l’individuazione della loro provenienza o ne consentono l’impiego”, nonché “utilizzare documenti, identità o indicazioni di copertura anche per attivare o entrare in contatto con soggetti e siti nelle reti di comunicazione, informandone il pubblico ministero al più presto o comunque entro le quarantotto ore  dall’inizio delle attività”.

Ai sensi dell’art. 9, co. 1, le attività di undercover devono essere effettuate dagli “ufficiali di polizia giudiziaria della Polizia di Stato, dell’Arma dei Carabinieri e del Corpo della guardia di finanza, appartenenti alle strutture specializzate o alla Direzione investigativa antimafia, nei limiti delle proprie competenze”, nonché dagli “ufficiali di polizia giudiziaria appartenenti agli organismi investigativi della Polizia di Stato e dell’Arma dei carabinieri specializzati nell’attività di contrasto al terrorismo e all’eversione e del Corpo della guardia di finanza competenti nelle attività di contrasto al finanziamento del terrorismo”.

Ai sensi del secondo comma, gli agenti di polizia giudiziaria possono utilizzare documenti, identità o indicazioni di copertura al fine, tra l’atro, di avviare contatti con individui e siti nelle reti di comunicazione Internet (ad esempio per ricercare siti pedopornografici), previo raccordo col pubblico ministero, che deve esserne tempestivamente informato.

La norma stabilisce poi, con formulazione ambigua, che l’operazione deve essere disposta da “organi di vertice” di una delle principali forze di Polizia, ovvero, per loro delega, dai rispettivi responsabili di livello almeno provinciale, d’intesa con la Direzione centrale dell’immigrazione e della polizia delle frontiere per i delitti di cui all’ art. 12, commi 3, 3-bis, 3-ter, t.u. immigrazione.

Ai sensi del quarto comma, l’esecutore deve dare preventiva notizia al pubblico ministero indicando, se necessario o richiesto, il nominativo dell’ufficiale di polizia giudiziaria responsabile dell’attività, nonché quello degli eventuali ausiliari. in ogni caso, il pubblico ministero deve essere informato, senza ritardo, nel corso dell’operazione, delle modalità, delle persone che vi partecipano e dei risultati ottenuti.

L’art. 9, comma 8, prevede un obbligo informativo supplementare poiché il soggetto che ha disposto l’operazione deve comunicarlo, senza ritardo, anche al procuratore generale presso la corte d’appello. Se si tratta di reati di cui all’art. 51, co. 3-bis, c.p.p., medesima comunicazione va fatta al Procuratore nazionale antimafia.

Per eseguire le operazioni può essere autorizzato l’impiego temporaneo di beni, mobili o immobili, nonché di documenti di copertura; inoltre possono essere attivati siti nelle reti e realizzate aree di comunicazione o di scambio su sistemi informatici, secondo le modalità stabilite con decreto del Ministro dell’interno, di concerto col Ministro della giustizia e con gli altri Ministri interessati. Il medesimo decreto stabilisce modalità e forme del coordinamento, anche in ambito internazionale, a fini informativi ed operativi tra gli organi di indagine.

Sul piano processuale, non si registra un orientamento univoco.

Sul punto, la Cassazione si è espressa nel senso che la legittimità e la liceità dell’operazione debba essere valutata ex ante, in relazione al momento in cui tale attività è disposta dall’autorità giudiziaria e non con riguardo all’esito dell’investigazione. Pertanto, se vi erano già indizi di uno dei gravi reati tassativamente previsti nella norma, quale condizione per attivare l’attività al momento in cui l’organo giudiziario ha autorizzato gli strumenti sotto copertura, i mezzi di prova acquisiti sono legittimi ed utilizzabili ex art. 191 c.p.p., anche se riguardano reati diversi e meno gravi di quelli ipotizzati.

Tuttavia, in altra pronuncia, è stata negata l’utilizzabilità di prove acquisite attraverso operazioni sotto copertura, poste in essere senza il rispetto delle prescrizioni stabilite dal legislatore con riferimento ai reati individuati[5].

È opportuno distinguere, in tema di operazioni sotto copertura, tra la figura dell’agente infiltrato (undercover) e quella dell’agente provocatore, ossia colui che provoca un delitto al solo fine di assicurare il colpevole alla giustizia. Tale figura è stata tradizionalmente ricondotta nell’ambito del concorso di persone nel reato, quale forma di istigazione a commettere il delitto, includendola nel concorso morale perché l’attività tipica dell’agente consiste nel rafforzare o suscitare in altri un proposito criminoso già esistente. Si tratta, nella maggioranza dei casi, di appartenenti alle forze dell’ordine che si prefiggono l’obiettivo di raccogliere prove da utilizzare contro organizzazioni criminali o comunque di attività dirette alla scoperta di gravi reati.

La dottrina tradizionale riconosce la responsabilità penale dell’agente provocatore sulla base del rilievo che l’intenzione di denunciare gli autori di un reato non assume, nel nostro ordinamento, efficacia scriminante in quanto non si può ammettere un comportamento che, oggettivamente e soggettivamente, abbia contribuito a ledere o mettere in pericolo un bene giuridico.

Sulla linea di tale interpretazione la giurisprudenza afferma che – in applicazione della scriminante dell’adempimento di un dovere prevista dall’art. 51 c.p.  e di quanto dispone l’art. 55 c.p.p. che fa obbligo alla polizia giudiziaria di assicurare le prove dei reati e di ricercarne i colpevoli – l’agente provocatore è esente da pena soltanto nei casi in cui si limiti a svolgere attività di osservazione, controllo e contenimento delle azioni illecite altrui[6].

 L’agente infiltrato invece è un soggetto che si insinua, per lungo tempo, nella struttura criminale al fine di coglierne le dinamiche, che non provoca reati ma spesso è costretto a lasciarsi provocare proprio per inserirsi più stabilmente nelle maglie dell’organizzazione accreditando il proprio ruolo di membro della stessa[7].

I giudici della Corte europea dei diritti dell’uomo, nell’ottica di accentuare la dimensione processuale dell’istituto, hanno sottolineato che l’interesse pubblico alla repressione ed alla prevenzione del crimine non giustifica “l’utilizzazione di materiale probatorio ottenuto in conseguenza di una provocazione esercitata dalle forze di polizia”[8].

In altre parole, la Corte europea dei diritti dell’uomo considera violato il principio di fairness se un reato è conseguenza della provocazione operata dalle forze di polizia qualora si accerti che, senza tale intervento esterno, il delitto non sarebbe stato commesso. Al contrario, le prove sono legittimamente acquisite qualora la commissione del reato dipenda dalla scelta del reo, non influenzata in maniera sostanziale dall’azione degli organi di polizia.

Sul piano processuale, l’utilizzazione delle dichiarazioni extradibattimentali rese dall’agente provocatore potrebbe porsi in contrasto con l’art. 6, comma 3, lett. d, della CEDU, ai sensi del quale la persona accusata ha diritto di esaminare o far esaminare i testimoni a carico. Infatti, potrebbe darsi che l’audizione degli agenti non avvenga nel pubblico dibattimento. Tuttavia, tale regola non è assoluta e non comporta la violazione della Convenzione qualora all’imputato venga offerta un’adeguata opportunità di contestare le testimonianze a carico[9].

 

 


[1] Tale tecnica ha lo scopo di monitorare l’attività criminosa in corso e ricorre, ad esempio, quando la traditio illecita è stata intercettata, con il consenso degli Stati interessati, ed è stata lasciata proseguire con il suo carico iniziale intatto, rimosso o sostituito in tutto o in parte. Tale attività si è rivelata molto efficace nella lotta contro il traffico di droga ed altre forme gravi di criminalità, ma può essere impiegata anche in indagini su reati relativi alla detenzione di materiale pornografico e simili.
[2]   Si tratta di una sottospecie di intercettazione di conversazioni telefoniche o di altre forme di comunicazione particolarmente invasiva, tanto da essere generalmente impiegata solo quando sia rischiosa l’infiltrazione di agenti nell’organizzazione criminale.
[3] F.Frezza, Mobilità della criminalità e cooperazione giudiziaria: strumenti e prassi operative nel contrasto del crimine transnazionale. Relazione all’incontro di studi del C.S.M. “Guido Galli” sul tema: “Una ricerca processuale transnazionale: rogatorie internazionali, indagini internazionali e prova formata all’estero”, Roma, 23-25 settembre 2002, pp. 24 ss.
[4] Si tratta dei reati di riciclaggio, impiego di denaro, beni o utilità di provenienza illecita, riduzione o mantenimento in schiavitù o servitù, prostituzione minorile, pornografia minorile, detenzione di materiale pornografico, iniziative turistiche volte allo sfruttamento della prostituzione minorile, tratta di persone, acquisto ed alienazione di schiavi, nonché di reati concernenti armi, munizioni ed esplosivi, favoreggiamento aggravato dell’ingresso illegale di stranieri e di quelli in tema di prostituzione.
[5] Cass. pen., Sez. III, 28 gennaio 2005, n. 13500.
[6] In tal senso: Cass. pen., 11 aprile 1994, n. 6425; Cass. pen., 31 dicembre 1998, n. 669.
[7] De Maglie, Gli «infiltrati» nelle organizzazioni criminali: due ipotesi di impunità, in Riv. it. dir. pen. proc., 1993, pp. 1059 ss.
[8] C. eur. dir. umani., 9 giugno 1998, Teixera de Castro c. Portogallo, in Legisl. pen., 1999, pp. 197 ss.
[9] C. eur. dir. umani, 14 dicembre 1999, A.M. c. Italia, in Cass. pen., 2000, p. 2483.

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Roberta Aleo

Nasce a Palermo nel 1991. Dopo la maturità classica si laurea nel 2017 in Giurisprudenza presentando una tesi sperimentale dal titolo "Le strutture investigative di contrasto alla criminalità organizzata". Nel 2019 consegue il diploma di specializzazione presso la Scuola di Specializzazione per le Professioni legali presentando una tesi dal titolo "Rapporti tra carcere duro ed esigenze di tutela dei diritti fondamentali dei detenuti". Tirocinante presso il Tribunale e la Procura della Repubblica ed abilitata all'esercizio della professione forense, collabora alla stesura di testi ed articoli giuridici con riviste scientifiche e studi legali.

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