Tenuità del fatto e reato continuato

Tenuità del fatto e reato continuato

Una questione giuridica di indubbia attualità che agita vivi contrasti giurisprudenziali concerne la compatibilità tra la categoria dogmatica dell’istituto della tenuità del fatto disciplinato dall’art. 131-bis c.p. e quella del reato continuato, contemplato dal capoverso dell’art. 81 c.p.

Giova sin d’ora osservare come l’orientamento assolutamente maggioritario delibi in favore di un giudizio di incompatibilità tra le due fattispecie (cfr., ex pluribus, Cass. Pen., Sez. V, sent. n. 4852 del 14/11/2016; Cass.Pen., Sez. III, sent. n. 43816 del 01/07/2015) secondo le argomentazioni che di qui a poco verranno illustrate, laddove le maggiormente convincenti (e, si ritiene, condivisibili) motivazioni della giurisprudenza di merito e di qualche isolata sentenza di legittimità appaiono, allo stato, subvalenti, nonostante si assista, nella materia de qua, ad una progressiva estensione delle argomentazioni più “possibiliste”.

Com’è noto, l’art. 131-bis c.p., al primo comma, stabilisce che “Nei reati per i quali è prevista la pena detentiva non superiore nel massimo a cinque anni, ovvero la pena pecuniaria, sola o congiunta alla predetta pena, la punibilità è esclusa quando, per le modalità della condotta e per l’esiguità del danno o del pericolo, valutate ai sensi dell’articolo 133, primo comma, l’offesa è di particolare tenuità e il comportamento risulta non abituale”.

Quanto ai limiti di applicabilità legali di tale causa di non punibilità, il successivo secondo comma vieta il riconoscimento di un fatto tipico, antigiuridico e colpevole come immeritevole di sanzione penale quando “quando l’autore ha agito per motivi abietti o futili, o con crudeltà, anche in danno di animali, o ha adoperato sevizie o, ancora, ha profittato delle condizioni di minorata difesa della vittima, anche in riferimento all’età della stessa ovvero quando la condotta ha cagionato o da essa sono derivate, quali conseguenze non volute, la morte o le lesioni gravissime di una persona.

Il terzo comma, infine, specifica che: “Il comportamento è abituale nel caso in cui l’autore sia stato dichiarato delinquente abituale, professionale o per tendenza ovvero abbia commesso più reati della stessa indole, anche se ciascun fatto, isolatamente considerato, sia di particolare tenuità, nonché nel caso in cui si tratti di reati che abbiano ad oggetto condotte plurime, abituali e reiterate”.

Dall’esame testuale della disposizione normativa in commento, appare di immediata evidenza l’intenzione del legislatore di escludere dall’applicazione del beneficio in esame, (con giudizio discrezionale iuris et de iure) talune specifiche categorie di reati, talune circostanze della condotta illecita che dimostrano una particolare disinvoltura a delinquere o una particolare insensibilità alla spinta dissussiva espressa dalla fattispecie incriminatrice o, ancora, gli imputati di reati connotati dal carattere dell’abitualità.

In tal senso, viene sottratto al potere del giudice la possibilità di qualificare uno dei fatti dinanzi richiamati siccome “tenue” e non punibile, a fronte della qualificazione negativa operata a monte ex voluntas legis.

Quid iurs, nei casi di reato continuato, la cui categoria non viene espressamente esclusa dall’ambito di operatività dell’art. 131-bis c.p.?

Come in esordio cennato, la giurisprudenza nomofilattica prevalente appare univoca nell’escludere dalla disciplina della tenuità del fatto, e dal conseguente beneficio della causa di non punibilità ivi prevista, quei reati che siano ritenuti avvinti dal vincolo della continuazione, atteso che la medesimezza del disegno criminoso rappresenta una dimostrazione di una abitualità della condotta, come tale incompatibile con la saltuarietà della stessa richiesta ai fini dell’applicazione dell’art. 131-bis c.p.

In questo senso si esprime la recente sentenza resa dalla Sesta Sezione Penale della Corte di Cassazione, n.11378 del 12 gennaio 2018, dove il Supremo Collegio dichiara expressis verbis di aderire all’orientamento giurisprudenziale maggioritario secondo il quale la causa di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto di cui all’art. 131-bis c.p.. non può essere dichiarata in presenza di più reati legati dal vincolo della continuazione, in quanto anche il reato continuato configura un’ipotesi di “comportamento abituale” per la reiterazione di condotte penalmente rilevanti, ostativa al riconoscimento del beneficio, essendo il segno di una devianza “non occasionale” (Cass. Pen., Sez. V, sent. n. 48352 del 15/05/2017; Cass. Pen., Sez. II, n. 1 del 15/11/2016).

E tuttavia, tra le strette maglie di tali argomentazioni, sembrano aprirsi delle “crepe” ermeneutiche favorevoli al giudizio di compatibilità tra tenuità del fatto e continuazione, fatte proprie dalla giurisprudenza di merito e coraggiosamente (ma, si ripete, più condivisibilmente) recepite anche da talune pronunce di legittimità.

Al di là del dato testuale della mancata previsione dell’istituto del reato continuato tra le cause di esclusione del beneficio previsto dall’art.131-bis c.p., alcuni Tribunali (cfr., ex pluribus, Tribunale di Milano, sent. n. 4195 del 16/4/2015; Tribunale di Grosseto, sent. n. 650 del 6/7/2015) evidenziano come non necessariamente la pluralità dei medesimi reati tipica della continuazione siano sempre espressione di una condotta abituale.

E ciò in quanto se è vero che il giudizio di tenuità debba condursi ex ante ed in concreto, ne consegue che il paradigma di valutazione della condotta sub iudice dovrà giocoforza essere quello dello scrutinio, anzitutto, della natura dei reati continuati, se essi, cioè, siano omogenei ovvero eterogenei.

In secondo luogo, assumerà valenza determinante l’indagine circa l’eventuale, stretta contiguità temporale delle singole azioni od omissioni.

Da ultimo, ma non certo in ordine di importanza, occorrerà scrutinare la rappresentazione e volizione dell’agente in relazione alla considerazione unitaria che lo stesso abbia avuto rispetto il complessivo iter criminis, con applicazione dei criteri dosimetrici previsti dall’art. 133 c.p.

Lungo la scia di tali coordinate ermeneutiche sembra muoversi anche la Seconda Sezione Penale della Corte di Cassazione con la sentenza n. 19932 del 26/4/2017 quando esclude che vi sia una incompatibilità normativa tra reato continuato e causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto, sostenendo che il reato continuato non rientra tra i reati della stessa indole, che l’art. 131-bis c.p. espressamente esclude dal beneficio.

Tale espressione, invero, come richiamata dalla norma, andrebbe intesa non nel suo significato naturalistico, ma quale richiamo ad “una tendenza o inclinazione al crimine”.

A tal riguardo, i Giudici di legittimità specificano che la continuazione “non si identifica automaticamente con l’abitualità nel reato, ostativa al riconoscimento del beneficio, non individuando comportamenti di per se stessi espressivi del carattere seriale dell’attività criminosa e dell’abitudine del soggetto a violare la legge”.

Il secondo degli orientamenti illustrati, seppur allo stato minoritario, mostra una maggiore aderenza allo stesso dato normativo, offrendo – al contempo – una lettura costituzionalmente orientata degli istituti della tenuità del fatto e della continuazione, arrivando a mitigare le rigorose conclusioni sostenute dal filone più restrittivo.

Auspicabile in parte qua (e, si ritiene, molto probabile in un prossimo futuro) sarebbe un intervento chiarificatore delle Sezioni Unite Penali, affinché indichino un principio di diritto uniforme e condiviso, rispetto ad una materia che si dimostra ancora “plastica” e permeabile agli ondivaghi orientamenti interpretativi della giurisprudenza.


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