Tra corpo e valori: la prostituzione vista da un altro lato

Tra corpo e valori: la prostituzione vista da un altro lato

Sommario: 1. Gli atti di disposizione del proprio corpo e l’oggetto del contratto sociale – 2. Il contratto sessuale – 3. Il buon costume

 

1. Gli atti di disposizione del proprio corpo e l’oggetto del contratto sociale

La prostituzione corrisponde ad una particolare forma di disposizione del proprio corpo e si configura come espressione dell’autonomia individuale di cui la donna gode; in particolare, la Corte di Strasburgo, nel caso K.A e A.D. c. Belgio (2015) riconosce la libertà sessuale quale parte integrante di tale autonomia personale, nonché la conseguente illegittimità di un’interferenza statale in materia a fronte della sussistenza del consenso e della natura privata degli atti. Tuttavia, il rapporto intercorrente tra libertà sessuale e scambio oneroso tende a porsi al limite tra l’esercizio dell’autonomia privata e dell’eterodeterminazione dell’ordinamento, sottolineando una prima e imprescindibile opposizione tra corpo umano e una sua possibile mercificazione a scopo di lucro.

È opinione condivisa che, in simile ambito, “gli interessi coinvolti siano strettamente inerenti alla sfera personale e come tali non possano trovare adeguata tutela nelle regole che presiedono ai rapporti economici, rispondenti certamente a logiche diverse”.

Il corpo è, infatti, parte integrante ed imprescindibile dell’individuo, giacché volto alla realizzazione della sua persona. Per questo motivo, accanto a un riconoscimento della libera disposizione del corpo umano, numerosi ordinamenti giuridici sentono la contestuale esigenza di porre dei limiti alla stessa, e nel negare l’inalienabilità a titolo oneroso, considerano la gratuità quale condizione volta a garantire la spontaneità dell’atto e la non-condizionabilità del consenso, evitando così qualsiasi forma indiretta di coercizione della libertà individuale.

La nozione di persona umana è oggetto di una “pluralità di concezioni etiche e di visioni del mondo contrapposte, incommensurabili e tutte ritenute democraticamente non rifiutabili”. Alla luce del pluralismo odierno, ricade sul legislatore nazionale la scelta di identificare il corpo quale res in commercium e di stabilire i limiti entro cui l’individuo possa disporne.

Un altra regolamentazione sviluppatasi a difesa di una più libera disposizione del corpo concerne la titolarità di quest’ultimo. Ogni individuo è proprietario del suo corpo ed è libero di disporne autonomamente, avendo così la possibilità di offrire sul mercato la propria mano d’opera nel rispetto della sua volontà.

In ordinamenti giuridici di impronta liberale, come quelli attuali, la nozione di proprietà non implica soltanto il diritto di utilizzare e godere del bene, ma anche di alienarlo e, sotto una prospettiva lavoristica, una simile alienabilità comporta la mercificazione del lavoro senza ricomprendere una commercializzazione della persona stessa.

Così secondo il femminismo liberale, la prostituzione è assimilabile a qualsiasi forma di lavoro dal momento che il corpo messo a disposizione  della donna è un bene disgiunto dalla persona di quest’ultima, nonché oggetto di una tutela dell’integrità fisica funzionale all’esercizio di qualsiasi attività e soggetto alla libera formazione della volontà della donna, che quindi si pone su di un piano di parità rispetto al cliente, senza in alcun modo degradare la propria condizione.

Una questione spinosa  in materia di prostituzione riguarda “cosa” la donna offra sul mercato. Riprendendo la posizione dell’inscindibilità del corpo dell’individuo, si sostiene che, attraverso la commercializzazione dell’atto sessuale, la donna “venda” un potere temporaneo sulla propria persona, che tuttavia non sarebbe possibile esercitare dal momento che si risolverebbe in una rinuncia al suo volere.

Vi è chi, invece, sostiene che la prostituta al momento dell’accordo con il cliente, venda un bene da lei inalienabile – la sua dignità umana – riducendosi cosi ad oggetto di un acquisto altrui. In un’ottica maggiormente moralista, si può ritenere che la prostituta offra sul mercato un bene specifico – un atto sessuale – il quale, al pari del corpo femminile, è stato per lungo tempo oggetto di tabù.

Logicamente opposte sono le argomentazioni addotte dal femminismo liberale e da tutti coloro che sostengono la legalizzazione della prostituzione: questi ritengono che la donna offra dei veri e propri servizi; sotto tale prospettiva, il cliente stipula un contratto di consumo e paga la professionalità e l’abilità della donna, la quale, nell’esercizio della prestazione, offre l’utilizzo temporaneo e circoscritto del suo corpo.

2. Il contratto sessuale

Se gli ordinamenti riconoscessero alla prostituta la titolarità di un’autonomia negoziale e la possibilità di concludere dei contratti sessuali di consumo, questi ultimi opererebbero come limiti alla libertà del cliente nell’ambito della transazione, a tutela della parte contraente debole.

Allo stato attuale, risultano ancora numerosi i limiti, interni ed esterni, al quadro normativo che impediscono alla prostituta di beneficiare realmente di una simile tutela giuridica. In primo luogo, numerosi ordinamenti nazionali prevedono la regola in base alla quale un contratto sessuale può essere concluso, fermo restando l’impossibilità di agire in giudizio.

La limitazione della capacità contrattuale di una classe di individui – quali le prostitute – e la conseguente disparità di accesso alla giustizia comporta un’irrazionale violazione del principio di eguaglianza. In una prospettiva di decriminalizzazione del meretricio, sarebbe opportuno introdurre la possibilità per la parte debole di chiedere una declaratoria di nullità. Occorre segnalare la sussistenza di vari fattori che impediscono alla prostituta di applicare o recedere da contratti legittimamente conclusi.

La vulnerabilità fisica della donna e l’ingresso in ambienti dalla stessa controllati spesso impediscono di far rispettare i termini contrattuali. Nel mercato del sesso le violenze e gli inadempimenti comportano conseguenze minime per il trasgressore; ciò è amplificato dal fatto che il quadro normativo regola la prostituzione soltanto per punirla o controllarla e che gli agenti che applicano la legge siano ricompresi tra coloro che abusano delle prostitute. Infine, permane la travagliata subordinazione economica, che limita la libertà e il potere della donna nello stabilire rigidi termini contrattuali rispetto alle richieste del cliente.

3. Il buon costume

L’espressione “buon costume” è di derivazione romanistica, essendo la traduzione della locuzione latina “boni mores”, già in uso nella Roma arcaica e poi riportata diverse volte nel Corpus Iuris Civilis e conservata nel diritto di epoche successive.

L’importanza di questo concetto, che pure non viene espressamente definito dalle fonti romane, è rilevante, tant’è che si è ritenuto che i “boni mores sono la base dell’ordinamento giuridico e la vita romana”. In generale, i boni mores – che ricoprono il rango di fonte del diritto, al pari delle leggi – hanno matrice consuetudinaria e la loro legittimazione discende dall’importanza che il rispetto della tradizione ha rivestito per il consolidamento dell’ordinamento romano. Essi non si esauriscono nell’affermazione di precetti di indole morale in senso stretto: il comportamento dell’individuo, rileva ai fini della conservazione della società. L’introduzione della nozione di “buon costume” nella legislazione italiana preunitaria si deve soprattutto al diritto francese napoleonico.

La nozione di buon costume si identifica così nella norma morale accettata come tale dall’opinione pubblica in un determinato luogo e in un determinato tempo: si pone come prevalenza del significato sociale di una condotta su quella individuale, rinviando ad un dato extragiuridico.

La clausola generale in esame può far fronte e contemperare la pluralità di valori e culture che è propria degli ordinamenti contemporanei; malgrado ciò, parte della dottrina ritiene che nella società attuale – proprio perché caratterizzata da continui mutamenti culturali e da una marcata disomogeneità – il richiamo al buon costume sia ormai impraticabile e irragionevole.

Sarebbe opportuno – a parere di chi scrive – identificare il buon costume con la morale giuridica, cioè in quei principi e in quei diritti di cui l’individuo è titolare in quanto uomo e cittadino: si farà riferimento alle nozioni di buona fede, etica professionale, ma soprattutto al contenuto delle Costituzioni che, data la loro funzione e la loro posizione gerarchica, esprimono un consenso generalizzato all’interno della società.

Soffermandosi invece sull’esercizio del meretricio, ciò che sembra ledere il buon costume non è la sola vendita del corpo quale parte integrante e imprescindibile dell’individuo, ma anche l’insita commercializzazione della sessualità, la quale, oltre a riflettere valori etico-morali, è spesso considerata un bene giuridico tutelato. Ad esempio, la libertà sessuale è protetta in quanto libertà e quindi espressione del principio di autodeterminazione.

È bene ricordare che, un seguito alla rivoluzione sessuale degli anni Sessanta, in cui il movimento femminista ha rivendicato un principio di eguaglianza ricomprendente anche una parità di standard morali, la sessualità non è più interpretata come meramente strumentale alla riproduzione della specie; al contrario, essa è intesa come parte integrante dell’essere umano e connessa alla salute dell’individuo.


Salvis Juribus – Rivista di informazione giuridica
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Dott.ssa Luana Leo

La dottoressa Luana Leo è dottoranda di ricerca in "Teoria generale del processo" presso l'Università LUM Jean Monnet. È cultrice di Diritto pubblico generale e Diritto costituzionale nell'Università del Salento. Ha conseguito la Laurea Magistrale in Giurisprudenza presso il medesimo ateneo discutendo una tesi in Diritto Processuale Civile dal titolo ”Famiglie al collasso: nuovi approcci alla gestione della crisi coniugale”. È co-autrice dell'opera "Il Presidente di tutti". Ha compiuto un percorso di perfezionamento in Diritto costituzionale presso l´Università di Firenze. Ha preso parte al Congresso annuale DPCE con una relazione intitolata ”La scalata delle ordinanze sindacali ”. Ha presentato una relazione intitolata ”La crisi del costituzionalismo italiano. Verso il tramonto?” al Global Summit ”The International Forum on the Future of Constitutionalism”. È stata borsista del Corso di Alta Formazione in Diritto costituzionale 2020 (“Tutela dell’ambiente: diritti e politiche”) presso l´Università del Piemonte Orientale. È autore di molteplici pubblicazioni sulle più importanti riviste scientifiche in materia. Si occupa principalmente di tematiche legate alla sfera familiare, ai diritti fondamentali, alle dinamiche istituzionali, al meretricio, alla figura della donna e dello straniero.

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