Tra procacciamento di voti e associazione mafiosa: una rinnovata applicazione del “pactum sceleris”

Tra procacciamento di voti e associazione mafiosa: una rinnovata applicazione del “pactum sceleris”

1. Il nuovo reato di “scambio elettorale politico mafioso”. La struttura della fattispecie criminosa.

L’art. 1 della L. 62/2014 mantiene l’originaria formulazione dell’art. 416 ter modificando l’essenza del reato attraverso il rimodellamento dell’incriminazione di colui che accetta la promessa di voti da parte di un’associazione mafiosa e, al contempo, introducendo la punibilità del soggetto intraneo (o comunque riconducibile) alla cosca che garantisce il sostegno elettorale. In questo senso si può pervenire ad una prima conclusione: se il reato di scambio elettorale, così come introdotto dal d.l. Scotti-Martelli, appariva un delitto plurisoggettivo necessario improprio volto ad estendere la pena ex art. 416 bis c.p. comma primo al politico candidato che avesse stipulato con la cosca un accordo elettorale, la nuova disposizione dell’art. 416 ter c.p., invece, pare perseguire un obiettivo diverso. Nel primo comma, infatti, definisce in maniera più precisa la condotta imputabile alla controparte politica mentre, nel secondo comma, sembra voler inasprire il trattamento penale per gli affiliati che intervengono nella conclusione del pactum sceleris. Si può ritenere che la tendenza di fondo dell’intervento di riforma sia stata quella di recepire per tabulas gli approdi, interpretativi ed applicativi, raggiunti dalla giurisprudenza nel ventennio di vigenza della norma. Ne è derivato un testo che costituisce una accettabile mediazione tra le diverse istanze emerse ma che, ciò nonostante, non è rimasto esente da critiche: invero, come si vedrà nel proseguo della trattazione, taluni aspetti del “nuovo” art. 416 ter c.p. hanno destato sin da subito alcune perplessità.

Come sopra accennato, il primo rilevante cambiamento riguarda la struttura della fattispecie di scambio elettorale politico-mafioso: a differenza del passato, infatti, l’attuale formulazione dell’art. 416 ter c.p. si struttura in due commi contenenti due figure delittuose diverse ma connesse. Si tratta di un impianto radicalmente innovativo dal momento che avvicina la struttura dell’art. 416 ter c.p. alla conformazione tipica dei reati di corruzione di cui agli artt. 318 ss. c.p. Questa  constatazione non è di poco conto, poiché consente di trarre importanti conseguenze circa la corretta interpretazione della fattispecie riformata: in primo luogo, dalla lettura in combinato disposto dei due commi, si evince che la nuova formulazione dell’art. 416 ter c.p. delinei, così come i delitti di corruzione appena richiamati, una fattispecie plurisoggettiva necessaria propria, in cui la medesima sanzione è comminata nei confronti di entrambe le condotte che concorrono alla realizzazione del fatto tipico. Se quindi, prima dell’intervento riformistico, l’art. 416 ter c.p. puniva una sola delle due prestazioni intervenute, con la l. 62/2014, invece, si incrimina sia colui che promette di procurare i voti con i metodi tipici dell’associazione criminale, sia il candidato che si impegna a favorire il sodalizio con una qualunque utilità.

Per quanto concerne l’individuazione del disvalore sanzionato, la riformata fattispecie definisce una ipotesi di reato-contratto di pericolo astratto, difatti il legislatore attribuisce penale rilevanza al fatto stesso dell’accordo tra il politico e colui che promette di procacciare voti mediante modalità mafiose, ritendendo irrilevanti le successive condotte esecutive del patto stesso. La soluzione prescelta, dunque, è stata quella di retrocedere la soglia del penalmente rilevante alla semplice accettazione della promessa mafiosa, confermando così l’anticipazione della punibilità come l’unica impostazione in grado di garantire una tutela effettiva all’ordine pubblico.

Oggetto dell’accordo è, sul versante del promissario, la promessa ovvero l’erogazione di denaro o di altra utilità; mentre sul versante del promittente, esso è costituito dalla promessa di procurare voti mediante le modalità intimidatorie indicate nel terzo comma dell’art. 416 bis c.p.

Come opportunamente rilevato, in base alla nuova formulazione, il “metodo mafioso” costituisce oggi un preciso oggetto di pattuizione all’interno del sinallagma illecito: perché il reato di “scambio elettorale politico mafioso” possa dirsi integrato bisogna quindi accertare sul piano oggettivo che il politico, o chi per lui, accetti la promessa di un suo interlocutore di procurargli, in cambio di denaro o altre utilità, un certo numero di voti grazie al possibile ricorso, con modi espliciti o anche solo impliciti, alla forza di intimidazione di cui egli gode in ragione dell’appartenenza ad un sodalizio mafioso radicato sul territorio, o che comunque, anche quando non agisca in rappresentanza di una associazione, garantisce quale propria e specifica modalità operativa.

2. Gli aspetti critici della nuova formulazione normativa.

Nonostante il nuovo art. 416 ter abbia indubbiamente rappresentato un passo avanti rispetto al passato, e ciò grazie alla introduzione delle “altre utilità” quale oggetto di scambio, così come alla ritenuta punibilità della semplice “promessa” del denaro e delle utilità, non mancano perplessità con riferimento ad alcune scelte legislative.

Primariamente la preoccupazione che un modello punitivo così concepito portasse con sé il rischio di un’eccessiva rarefazione del contenuto offensivo della fattispecie risolvendosi nell’incriminazione di accordi sprovvisti della necessaria pregnanza da un punto di vista materiale, insieme all’esigenza di meglio definire il confine con la limitrofa figura della corruzione elettorale (art. 96 d.D.R. n. 361/1957), ha spinto il legislatore a precisare, nella nuova formulazione normativa, che il patto deve avere ad oggetto la promessa di voti da procurare «mediante le modalità di cui al terzo comma dell’art. 416 bis c.p.», e quindi al ricorso al c.d. metodo mafioso. Del resto, che la ratio della fattispecie fosse non certo quella di incriminare la compravendita di voti tra politici e organizzazioni criminali, quanto piuttosto quella di impedire che il libero esercizio del diritto elettorale venisse inquinato dall’azione intimidatrice delle associazioni mafiose, era palese anche sotto il vigore della precedente versione dell’art. 416 ter c.p. che si riferiva, seppur impropriamente, alla «promessa di voti prevista dal terzo comma dell’art. 416 bis c.p.».

Le incertezze maggiori avevano piuttosto riguardato il ruolo da riconoscere al metodo mafioso nella struttura del fatto incriminato, discutendosi, in giurisprudenza, se il ricorso (quantomeno potenziale) alla forza di intimidazione dovesse considerarsi in re ipsa nella natura mafiosa del sostegno promesso o dovesse invece essere oggetto di esplicita pattuizione al momento della conclusione dell’accordo. In altre pronunce, la Corte di Cassazione si era addirittura spinta fino al punto di richiedere che gli interlocutori del politico avessero fatto effettivo ricorso alla prevaricazione mafiosa al momento del procacciamento dei voti. Opzione, questa, comprensibile nell’ottica di un incremento del tasso di materialità ed offensività del reato, ma che mal si concilierebbe al tenore del dettato legislativo. In altre parole, sembra potersi accogliere con favore l’indicazione di quella dottrina, secondo la quale, per il perfezionamento del pactum sceleris, può ritenersi «sufficiente anche la prova congiunta della caratura mafiosa dei promittenti, della loro implicita allusione alla possibilità di procurare un determinato numero di voti grazie alla forza intimidatrice di cui godono e, sul versante soggettivo del promissario, della piena consapevolezza della mafiosità della controparte e della sua capacità di procacciare preferenze grazie alla forza di intimidazione di cui è dotato ed a cui ha fatto, anche solo indirettamente, riferimento». Altresì il legislatore ha scelto di inserire un secondo comma nel corpo dell’art. 416 ter c.p. che espressamente estende il trattamento punitivo stabilito per il politico a colui che promette il procacciamento di voti mediante il ricorso al metodo mafioso.  A tal uopo, in dottrina ha destato perplessità tale scelta legislativa di non limitare il soggetto del promittente ai soli membri dell’organizzazione mafiosa che agiscano in nome e per conto di essa, ricomprendendovi al contrario anche gli appartenenti ad una cosca che operino uti singoli ovvero gli extranei che vantino l’impiego del metodo mafioso. Pare opportuno affermare che, da un punto di vista empirico, una promessa resa da un intraneus operante uti singulus o, addirittura, da un extraneus non sia equiparabile a una promessa proveniente da una associazione criminale strutturata.

Tuttavia, seppur apprezzabile lo sforzo del legislatore di rendere la norma in questione applicabile al più ampio numero di casi, è difficile ipotizzare una situazione in cui un singolo soggetto possa seriamente vantare l’utilizzo del metodo intimidatorio, al pari di una associazione mafiosa strutturata e radicata sul territorio. Se pure il ricorso alla minaccia o alla violenza venisse promesso, la messa in pericolo dei beni giuridici tutelati dalla norma sarebbe evidentemente di minore entità rispetto al pericolo creato dall’attivazione di una intera cosca mafiosa.

Merita segnalare altresì una evidente contraddizione con il dictum del terzo comma dell’art. 416 bis c.p. poiché la norma, nel definire il metodo mafioso, recita che lo stesso si concreta nell’utilizzo di una «forza di intimidazione» che sia derivante dal «vincolo associativo». Da ciò ne consegue che non sono tanto i singoli atti di violenza o minaccia a contraddistinguere il metodo mafioso, quanto la “forza di intimidazione” e il “vincolo associativo” indissolubilmente legati tra loro tali da poter differenziare le intimidazioni semplici dalle intimidazioni “mafiose”.

3. La recente soluzione compromissoria della Corte di Cassazione. Una nuova lettura dell’oggetto dell’accordo e del dolo del promissario.

Con la sentenza Serino, la Suprema Corte, prospetta una lettura del riformulato art. 416 ter c.p. che si allinea alle indicazioni dell’approccio c.d. sincretistico affacciato in dottrina all’indomani di Antinoro. Ad avviso della Cassazione la nuova fattispecie «dà luogo ad un reato contratto che si consuma immediatamente al momento dello scambio delle promesse oggetto del programma negoziale senza che sia necessario, poi, che i due poli del negozio illecito abbiano di fatto portato ad esecuzione l’impegno assunto. È un reato catalogabile tra quelli di pericolo. La soglia di punibilità è infatti anticipata anche alla fase del mero scambio delle promesse mentre la concretizzazione dell’impegno (il reperimento dei voti con le modalità mafiose e il pagamento del corrispettivo) assume piuttosto il tenore del postfatto, al più destinato a rilevare penalmente se tale da integrare altre ipotesi di reato, eventualmente concorrenti o assorbenti». Sullo snodo della questione controversa, relativo all’«oggetto dell’accordo», i giudici di legittimità affermano che esso «deve necessariamente riguardare le modalità di acquisizione del consenso elettorale tramite il metodo mafioso. È stata infatti recepita normativamente l’interpretazione maggioritaria offerta da questa Corte avuto riguardo al tenore letterale previgente della citata disposizione. Interpretazione in forza della quale il patto elettorale illecito, per assumere valenza mafiosa e distinguersi dalle altre ipotesi di corruzione elettorale previste dal sistema, deve prevedere l’utilizzo della sopraffazione e della forza di intimidazione quali modalità di reperimento dei voti, non essendo sufficiente in sé il mero scambio contemplante la promessa di voti contro l’erogazione di denaro, in alcuni arresti di questa Corte ritenuto utile al fine di integrare l’ipotesi di reato in disamina». E, nel tentativo di collegare questo paradigma interpretativo alla ratio della previsione normativa, i giudici di legittimità così proseguono: «il sinallagma illecito, si è detto, si concreta già solo attraverso la promessa delle reciproche prestazioni. E se oggi il dato normativo non è più espressamente limitato alla promessa di denaro da parte del candidato grazie al riferimento ad altre utilità… è rimasta sostanzialmente invariata la connotazione di fondo del negozio illecito siccome immediatamente correlata alla natura della prestazione, anche solo promessa, dal soggetto che si muove sull’altro versante negoziale: quella di garantire la veicolazione del consenso elettorale mediante le modalità di cui all’art. 416 bis, comma terzo, c.p. Dato, anche questo, oggi ancor più compitamente esplicitato nella norma novellata ma che costituiva il frutto dell’interpretazione in tal senso offerta dalla prevalente giurisprudenza di legittimità».

In queste scansioni, la Corte sembra schierarsi in favore del filone interpretativo che, già antecedentemente alla riforma, sosteneva l’essenzialità del metodo mafioso ai fini della caratterizzazione dell’accordo. Lo fa sia ribadendo la natura meramente negoziale dell’illecito, sia evidenziando che l’odierno dato lessicale non consentirebbe letture diverse. Sul presupposto che il reato è a struttura contrattuale e che nel nostro ordinamento esistono analoghe figure criminose a tutela della genuinità del consenso elettorale, la sentenza afferma che ciò che caratterizza l’accordo rilevante ai sensi dell’art. 416 ter c.p. rispetto ad altri tipi di pattuizioni è il riferimento all’utilizzo del metodo mafioso quale modalità di procacciamento dei voti, vera e propria causa negoziale. Da questo passaggio in avanti, tuttavia, il percorso argomentativo della decisione procede in una diversa, e più ampia, traiettoria interpretativa. Pur essendo necessario che «l’accordo abbia avuto ad oggetto l’acquisizione del consenso elettorale tramite il metodo mafioso», afferma il supremo Collegio, «tanto non impone che il patto sia necessariamente connotato dalla esplicitazione delle modalità di realizzazione dell’impegno assunto nei confronti del candidato, potendo la stessa desumersi, in via inferenziale, da alcuni indici fattuali sintomatici della natura dell’accordo. Ciò perché, se anche la ratio dell’incriminazione consiste nello specifico rischio di alterazione del processo democratico che si determina quando il voto viene sollecitato da un’organizzazione mafiosa, il suo riflesso sul piano degli elementi di fattispecie si esaurisce nella logica del comportamento di chi, per proprie esigenze elettorali, promette denaro ad una organizzazione criminale siffatta, ovviamente consapevole della sua natura e dei metodi che la connotano».

Questa premessa argomentativa è il necessario passaggio logico che la Corte utilizza per arrivare al punto più denso di significato, vale a dire la vera cifra innovativa della riforma del 2014: se infatti, oggi come ieri, la qualificazione del patto tra politico e promittente voti quale ipotesi di scambio elettorale ai sensi dell’art. 416 ter c.p. deve dipendere dal suo potersi affidare, nelle intenzioni dei contraenti, al metodo mafioso quale modalità esecutiva, «è invece diverso il perimetro soggettivo di riferimento della norma novellata. Grazie al nuovo art. 416 ter c.p., comma due, oltre al candidato o al soggetto che nell’interesse di quest’ultimo si muove per acquisire consenso elettorale mettendo a frutto la forza di intimidazione che promana dall’azione di matrice mafiosa, oggi, senza più incertezze, risponde della condotta anche il soggetto che rende siffatta promessa, incamerando l’impegno all’acquisizione della utilità corrispettiva. Ed il legislatore, adottando un riferimento letterale aperto e quanto più ampio (”chi promette”), non ha delimitato siffatto ruolo soggettivo necessario al solo intraneo che agisce rappresentando l’organizzazione mafiosa: ciò che conta, piuttosto, è che il consenso venga acquisito, nella mera prospettazione negoziale e non necessariamente nel risultato, avvalendosi del metodo mafioso, così che saranno protagonisti attivi dell’illecito anche soggetti che, senza essere intranei, si pongano quali intermediari dell’associazione mafiosa o comunque, sempre dall’esterno, garantiscano al candidato un siffatto metodo d’azione nell’acquisizione del consenso».

Accogliendo in pieno quanto già era stato prospettato da parte di accorta dottrina, già all’indomani della prima pronuncia della Cassazione sul rinnovato art. 416 ter c.p., della quale se ne era sottolineata sicuramente la “tensione garantistica” legata al tentativo di valorizzare la dimensione letterale del testo normativo e la volontà del legislatore storico, ma di cui se ne era segnalata anche una certa «propensione semplificatoria», dovuta propria ad una «lettura atomistica che rischia di generare un risultato ermeneutico inadeguato a comprendere la complessità delle situazioni riportabili al “tipo criminoso” scolpito dalla nuova disposizione».

Se le principali innovazioni nel testo dell’art 416 ter c.p. (senza tener conto dell’allargamento dell’oggetto e del contenuto della premessa del politico, ma solo con riferimento al ruolo del promittente) riguardano da un lato l’ampliamento dei soggetti attivi e dall’altro l’introduzione del ricorso al metodo mafioso quale espresso elemento dell’accordo illecito, allora, anche al fine di poter cogliere, in definitiva, le ragioni della riforma, è necessario riconoscere «una complementarietà teleologico-funzionale tra questi due aspetti dell’incriminazione» poiché l’esplicitazione del metodo mafioso quale oggetto dell’accordo troverebbe «la propria plausibile origine e spiegazione per l’appunto nell’ampliata cerchia dei possibili autori del patto».

Questo ragionamento viene condiviso dalla Corte quando, nel motivare le proprie decisioni, afferma che «il programma negoziale illecito non può prescindere dalla promessa di acquisire il consenso tramite le modalità di cui all’art. 416 bis, comma terzo, c.p. e non occorre che tale previsione sia esplicitata nel definire il dettaglio negoziale del patto potendo essere immanente all’accordo in ragione delle peculiari connotazioni del fatto. Essa può così ritenersi sostanzialmente manifesta laddove il promittente sia un intraneo ed agisca in rappresentanza e nell’interesse dell’associazione: è la fama criminale dell’interlocutore del politico e la sua possibilità di incidere sul territorio di riferimento con i metodi tipici della mafiosità che lo rendono appetibile sul piano elettorale e che spingono il candidato a raggiungere l’accordo. Tanto nella consapevole, implicita ma logica, evidenza delle modalità attraverso la quale verrà veicolato in suo favore il reclutamento elettorale, essendo questa la logica causale della scelta di quello specifico interlocutore».

Tuttavia, oggi, rispetto al passato, possono assumere un ruolo attivo sia soggetti estranei alla consorteria ma che si manifestino in grado di agire con le modalità in questione; sia i membri della stessa che agiscano uti singuli; sia, infine intermediari esterni alla cosca portatori della volontà della stessa. E, sul piano probatorio, il discorso inferenziale afferente la dimostrazione che l’accordo riguardi modalità di procacciamento dei voti nei termini di cui all’art. 416 bis, comma 3, c.p. finisce evidentemente per risentirne. Diversamente dal caso dell’intraneo che agisce nell’interesse della associazione impegnandola a svolgere una campagna in favore del politico committente, in siffatti casi occorre infatti una prova chiara ed immediata della pattuizione delle modalità del procacciamento cui risulta piegato l’illecito patto di scambio elettorale, non potendosene ricavare la presenza dal mero ruolo di interlocuzione riferito in precedenza esclusivamente all’organizzazione criminale. La Corte riconosce apertamente la circostanza per cui oggi è aumentata la schiera dei possibili soggetti attivi a parte promittente, e con essa la stessa intenzione normativa di non punire più semplicemente i patti corruttivo-elettorali stretti con la mafia, ma qualunque patto in cui venga negoziato l’utilizzo della metodologia mafiosa quale modus operativo della futura opera di procacciamento dei voti. Questa più ampia gamma tipologica di patti oggi in astratto previsti dalla norma non può non tenere conto, sia nelle sue note sostanziali, sia, di conseguenza, nelle sue conseguenti logiche probatorie, dello specifico tipo di autore con il quale il politico decide di stringere un tal tipo di accordo: se mafioso, in particolare, non avrebbe nessun senso, anzi sarebbe addirittura controproducente ai fini dell’effettività della disposizione, richiedere l’esplicitazione, in sede di definizione dell’accordo, delle modalità ex art. 416 bis, comma 3, c.p. poiché sono proprio quei paradigmi comportamentali a caratterizzare l’operato di quel soggetto, in quel territorio di riferimento: un soggetto la cui “fama criminale” è sicuramente conosciuta dalla parte politica, che anzi lo ritiene un “appetibile” interlocutore proprio in ragione di ciò. Detto altrimenti, un accordo corruttivo-elettorale con un soggetto (attualmente) mafioso, non potrà che qualificarsi come tipico ai sensi dell’art. 416 ter c.p., poiché è immanente alla comprovata natura mafiosa del soggetto l’utilizzo delle espressioni comportamentali tipiche di quel tipo di consorteria. Fatta salva la possibilità (come nel caso concretamente sottoposto al vaglio della Corte con la decisione in commento) che il soggetto, in passato associato al sodalizio criminale, non sia più, nel momento dell’accordo, riconducibile allo stesso, vuoi perché fuoriuscitone, vuoi perché si è andata a disperdere, nel tempo, la capacità di intimidazione di quel gruppo, magari una volta che ne siano stati decapitati i vertici.

Quando l’interlocutore della parte politica non è invece qualificabile come soggetto partecipe di un sodalizio, perché semplice intermediario, o perché non più accostabile all’associazione, o perché pur facendone ancora parte decide tuttavia di agire in nome e per conto proprio, uti singuli, cambiano di conseguenza anche i termini strutturali dell’accordo: la possibilità di qualificarlo come scambio elettorale politico-mafioso, in questi casi, non potrà più dipendere semplicemente dalla qualità soggettiva del contraente procacciatore di voti, ma dovrà necessariamente dipendere da una dichiarazione di intenti, comunque espressa dal soggetto promittente, che renderà edotta anche la parte politica delle modalità mafiose con le quali si intenderà dare esecuzione alla propria promessa contrattuale.

La soluzione prospettata appare, a questo punto, non solo coerente con il dato letterale, poiché continua a mettere al centro dell’incriminazione l’“informazione” relativa alla natura mafiosa del tipo di accordo che viene stipulato tra politico e promittente voti, ma anche maggiormente in linea con il dato empirico, poiché è evidente che tale informazione non deve necessariamente essere comunicata (e il più delle volte non lo sarà), e sarà in ogni caso conosciuta anche dal politico, ove colui che promette il procacciamento dei voti lo fa in nome e per conto dell’associazione mafiosa; diventa invece un requisito da esplicitare necessariamente, anche ai fini dell’accertamento del dolo del promissario, ove la controparte non sia in grado o non voglia qualificarsi come direttamente afferente al sodalizio criminale, e tuttavia abbia intenzione di avvalersi dei loro tipici metodi di azione, tipizzati dall’art. 416 bis c.p., comma 3, quale modalità esecutiva della promessa di procurare voti in cambio di denaro o altra utilità.

E, a ben vedere, si tratta di una soluzione che riesce a sintetizzare felicemente tutte quelle istanze punitive e legalitarie che i precedenti approcci interpretativi, forzatamente ricondotti ad una logica di reciproca esclusione, non riuscivano, nel complesso, ad assicurare: maggiormente orientata a garantire una lettura della disposizione che fosse il più possibile fedele al dato letterale, il primo approccio, quello seguito dalla sentenza Antinoro, rischiava di limitare eccessivamente ed in maniera sperequativa l’ambito applicativo della fattispecie, lasciando privi di copertura legale tutti quei fatti in cui, a dispetto della caratura criminale del soggetto promittente, avrebbe avuto probabilmente esito negativo l’accertamento della circostanza che i contraenti avessero fatto esplicito riferimento al metodo mafioso, poiché non è difficile pensare che, in simili contesti, i soggetti contraenti non abbiano alcun reale bisogno di indicarlo espressamente quale modalità di procacciamento dei voti contenuto in promessa. Circostanza che avrebbe di fatto negato la possibilità di ritenere compiutamente realizzato il fatto tipico in simili ipotesi, tra l’altro le più temibili dal punto di vista del bene giuridico protetto; il secondo filone (quello che sembra emergere dalla seconda sentenza del 2014, la Polizzi), che invece tale aspetto ha saputo meglio cogliere, aveva tuttavia una visione miope del possibile campionario di accordi astrattamente riconducibile all’ipotesi di scambio elettorale politico-mafioso, riconoscendo nell’associazione mafiosa ed in chi a suo nome agiva il necessario polo contrattuale promittente, soluzione sicuramente più corretta in passato, quando vigeva la precedente versione dell’incriminazione e che coerentemente non attribuiva rilevanza al contenuto delle reciproche promesse contrattuali, nel senso che non riteneva necessario che queste facessero riferimento alle modalità mafiose in chiave qualificante della futura prestazione del promittente voti. Requisito che deve invece essere valorizzato tutte le volte in cui il politico decide di accordarsi non direttamente con l’associazione, ma con un soggetto estraneo a quel tipo di sodalizio, oppure con un suo esponente che agisca in nome e per conto proprio o ancora con un mero intermediario dell’associazione, ipotesi oggi tutte riconducibili al più ampio tipo criminoso tracciato dall’art. 416 ter c.p. Nei primi due casi, in effetti, il soggetto promittente non spendendo il nome dell’associazione, non la impegna, nella prospettazione contrattuale, ad un’opera di accaparramento dei voti. Mentre nel terzo caso non è detto che il candidato, o chi per lui, abbia l’assoluta certezza della veste di intermediario della controparte, che potrebbe non conoscere direttamente o potrebbe non essere stato previamente presentato come tale dagli appartenenti al clan: dunque il riferimento alle modalità mafiose dovrà necessariamente essere esplicitato, in tutte le tre ipotesi delineate, onde poter ricondurre, anche sotto il profilo dell’elemento soggettivo, questo tipo di patto nell’alveo degli accordi, di matrice necessariamente mafiosa, tipizzati dall’art. 416 ter c.p.

Una volta ritenuto ammissibile un accordo tacito sulle modalità di recupero dei voti, la Corte di Cassazione propone alcune rilevanti (e conseguenti) valutazioni sull’elemento soggettivo del dolo del promissario. In particolare, sostiene la Corte, l’ampliamento del novero dei soggetti attivi finisce per avere ripercussioni sul dolo del candidato, con specifico riferimento alla sua posizione al momento della stipula dell’accordo illecito e alla sua consapevolezza delle modalità esecutive della promessa assunta dalla sua controparte.

Nella decisione in commento, i giudici di legittimità affermano che la consapevolezza del promissario deve essere graduata in base alla natura e alla posizione del suo interlocutore. Così, se la controparte è un membro della cosca mafiosa che si presenti quale portavoce della stessa, la parte dell’accordo relativa alle modalità di procacciamento dei voti può darsi, in buona sostanza, presunta: la capacità di controllo del territorio mediante l’intimidazione e la stessa “fama criminale” dell’interlocutore fanno sì che il candidato non possa che rappresentarsi e accettare anche il possibile ricorso al metodo tipico dei soggetti con cui intrattiene rapporti. In altre parole, chi si rivolge ad una associazione mafiosa per ottenerne il sostegno elettorale conosce i metodi operativi della stessa: anzi, di solito, la scelta dell’interlocutore è dovuta esclusivamente agli efficaci metodi di pressione posti in essere dalle cosche.

Diversamente, quando la controparte del politico è uno degli altri possibili soggetti attivi, vale a dire l’intraneus che agisce uti singulus, ovvero l’extraneus rispetto alla consorteria mafiosa, la prova del dolo del promissario diviene più rigorosa: in questi casi i giudici richiedono una dimostrazione “chiara ed immediata” della pattuizione relativa al metodo mafioso di procacciamento del voto. E ciò perché non è affatto scontato che questi promittenti intendano ricorrere a metodi violenti per mantenere fede all’impegno: non essendo parti integranti di una associazione mafiosa, dotata di per sé stessa di una forte carica intimidatoria, questi devono in qualche modo lasciare intendere all’interlocutore la loro disponibilità a ricorrere anche a metodi violenti, pur di garantire il pacchetto di voti richiesto. In altri termini, mancando la “garanzia” di una organizzazione mafiosa solida e strutturata, il patto sul modus operandi deve investire un grado di consapevolezza più elevato nell’animo del promissario.

Nel caso di specie, pertanto, gli stessi giudici di merito riconoscevano che il promittente non era (più) un mafioso. Preso atto di questa conclusione in ordine all’imputazione per il delitto di cui all’art. 416 bis, la Corte di Cassazione ha coerentemente ritenuto non integrato il patto di scambio politico-mafioso, dal momento che, non potendosi qualificare i promittenti quali membri di una associazione mafiosa, bensì quali extranei ovvero membri di una associazione a delinquere semplice, manca la prova di una specifica pattuizione del metodo di procacciamento dei voti. Se, invece, il clan promittente avesse conservato lo specifico requisito della “mafiosità”, intesa nei termini di cui al terzo comma dell’art. 416 bis, ai fini della configurabilità del reato di scambio elettorale politico-mafioso sarebbe stata sufficiente la prova dello scambio delle promesse, potendosi in questo caso ritenere implicita la pattuizione intorno al metodo di recupero dei voti da parte della cosca mafiosa.

Orbene si può affermare che la Corte di cassazione, dopo una fase di rodaggio abbia infine saputo sfruttare al meglio le potenzialità del rinnovato reato di scambio elettorale politico-mafioso, il cui ambito applicativo risulta, da un lato, meglio definito, dall’altro, più ampio rispetto al passato. La Corte, nella sentenza Serino, ha avuto il modo di capire che il “metodo mafioso”, pur costituendo il nucleo centrale e causa tipica del patto di scambio politico-mafioso, non per questo deve necessariamente figurare quale clausola specifica dell’accordo: allo stesso modo di come un contratto tipico non abbisogna di una esplicitazione della sua causa per poter essere valido ed efficace, purché la stessa rimanga la ragione determinante del sinallagma.

L’intraneità mafiosa del soggetto che promette voti al candidato, in particolare, non è più presupposto necessario dell’accordo punibile, dal momento che la novellata disposizione incrimina non più semplicemente l’accordo politico-elettorale con la mafia, quanto l’accordo politico-elettorale “di tipo mafioso”.

Meritoria, in particolare, è stata la capacità di segnalare il possibile “doppio statuto” strutturale e probatorio del requisito del metodo mafioso: dato mai trascurabile, perché segno distintivo di tali tipologie di accordi criminosi, ai quali imprime il maggior disvalore sociale di attività criminosa legata al contesto mafioso, non necessariamente dovrà essere esplicitato nelle concrete dinamiche negoziali con le quali si andrà a definire l’accordo illecito. In particolare non dovrà ritenersi indispensabile la sua espressa indicazione da parte del promittente quando questi, in quanto intraneo all’associazione, ne evocherà implicitamente i relativi metodi comportamentali. Al contrario, tutte le volte in cui il soggetto agirà in nome e per conto proprio, da estraneo o anche da affiliato, ma uti singuli, o si qualificherà ex se come intermediario dell’associazione, il riferimento alle modalità mafiose diventerà tassativo oggetto di pattuizione, in quanto non desumibile altrimenti per facta concludentia, e dunque necessario anche per verificare l’esistenza del dolo della parte politica, consistente nella consapevolezza e volontà di dar vita ad un accordo da attuarsi mediante modalità di tipo mafioso.

Pertanto, è possibile affermare che con l’orientamento affermato nella sentenza Serino, la Suprema Corte abbia trovato un buon punto di incontro tra l’esigenza di dotare l’art. 416 ter c.p. di un minimo di effettività, superando i paradossali risultati scaturenti da una rigida interpretazione letterale; e quella di elaborare uno schema interpretativo compatibile con il principio di legalità. Dando così un rinnovato colore ad una norma che, a causa della discutibile tecnica legislativa impiegata, correva il rischio di rimanere sostanzialmente disapplicata.


Salvis Juribus – Rivista di informazione giuridica
Direttore responsabile Avv. Giacomo Romano
Listed in ROAD, con patrocinio UNESCO
Copyrights © 2015 - ISSN 2464-9775
Ufficio Redazione: redazione@salvisjuribus.it
Ufficio Risorse Umane: recruitment@salvisjuribus.it
Ufficio Commerciale: info@salvisjuribus.it
***
Metti una stella e seguici anche su Google News

Articoli inerenti