Tutela antidiscriminatoria e molestie di genere

Tutela antidiscriminatoria e molestie di genere

Il D.Lgs. n. 145/2005 è intervenuto in materia di molestie sul luogo di lavoro,  modificando la Legge del 1991, aggiungendo all’art. 4 i commi 2 bis, 2 ter e 2 quater (oggi novellati con l’ art. 26 Decreto Legislativo n. 198 del 2006).

I predetto decreto  è intervenuta introducendo una tutela antidiscriminatoria anche alle molestie c.d. di genere e alle molestie sessuali nei luoghi di lavoro, oggi riconosciute espressamente come una forma di discriminazione di genere;

Vale la pena evidenziare come in tema di violenza sessuale non viene, in questo caso, tutelata una parità violata, ma la libertà e dignità della persona offesa.

Ai sensi dell’art. 4, comma 2 bis, Legge n. 125 del 1991 (ora art. 26, comma 1, Decreto Legislativo n. 198 del 2006) sono considerate discriminazioni anche le molestie, ovvero quei comportamenti indesiderati, posti in essere per ragioni connesse al sesso, aventi lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una lavoratrice o di un lavoratore e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante o offensivo.

Ai sensi dell’art. 4, comma 2 ter, Legge n. 125 del 1991 (ora art. 26, comma 2, Decreto Legislativo n. 198 del 2006) sono altresì considerate come discriminazioni le molestie sessuali, ovvero “quei comportamenti indesiderati a connotazione sessuale espressi in forma fisica, verbale o non verbale, aventi lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una lavoratrice o di un lavoratore e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante o offensivo”.

Con riguardo alla fattispecie delle molestie sessuali, prima dell’introduzione di una definizione delle stesse come discriminazioni di genere, la stessa Corte di Cassazione li aveva fatti rientrare nella forma di tutela prevista dall’art. 2087 del c.c. tanto che la stessa Suprema Corte si è più volte espressa nel dire che  “le molestie sessuali sul luogo di lavoro, incidendo sulla salute e la serenità (anche professionale) del lavoratore, comportano l’obbligo di tutela a carico del datore di lavoro ai sensi dell’art. 2087 c.c.”[1]

Va altresì evidenziato come la giurisprudenza annoveri, tra i comportamenti molesti a sfondo sessuale nel luogo di lavoro, gli apprezzamenti allusivi, le battute a sfondo sessuale, gli inviti a cena tendenziosi, le telefonate continue con costanti ricadute sul piano sessuale, l’approccio tramite un bacio o proposte di approccio.

La fattispecie, come già sopra accennato, viene collegata sistematicamente all’art. 2087 c.c. tanto che se il datore sapeva o doveva ragionevolmente sapere delle molestie e non è intervenuto per far cessare tali condotte, non può esimersi da responsabilità, da cui deriva il diritto al risarcimento del danno non patrimoniale per il lavoratore, data la natura costituzionale dei beni lesi” .[2]

A sostegno della sopra citata giurisprudenza di legittimità va ricordato l’intervento legislativo di cui all’art. 26, comma 3, del Decreto Legislativo n. 198 del 2006: gli atti, i patti o i provvedimenti concernenti il rapporto di lavoro dei lavoratori o delle lavoratrici vittime dei comportamenti di molestie o di molestie sessuali sono nulli se adottati in conseguenza del rifiuto o della sottomissione ai comportamenti medesimi.

A tal proposito, la legge riconosce altresì quali discriminazioni quei trattamenti sfavorevoli da parte del datore di lavoro che costituiscono una reazione ad un reclamo o ad un’azione volta ad ottenere il rispetto del principio di parità di trattamento tra uomini e donne.

Lo stesso codice, seguendo le direttive promulgate dall’Unione europea, distingue due ipotesi diverse, considerando separatamente le molestie (semplici) e le molestie sessuali (vere e proprie):

  1. le molestie  semplici a norma del comma 1 del codice sono “quei comportamenti indesiderati, posti in essere per ragioni connesse al sesso, aventi lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una lavoratrice o di un lavoratore e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante o offensivo”;

  1. per molestie sessuali, a norma del secondo comma dell’art. 26, invece, si intendono “quei comportamenti indesiderati a connotazione sessuale, espressi in forma fisica, verbale o non verbale, aventi lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una lavoratrice o di un lavoratore e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante o offensivo”.

In ultima istanza si può ricordare l’intervento legislativo di cui al D. Lgs. n. 5 del 2010, che ha aggiunto il comma 2-bis all’art. 26, allargando la definizione di discriminazione anche ai “trattamenti meno favorevoli subiti da una lavoratrice o da un lavoratore per il fatto di aver rifiutato i comportamenti di cui ai commi 1 e 2 o di esservisi sottomessi”.

Ma cosa vuol dire che le molestie e le molestie sessuali sono considerate come discriminazioni? Significa che esse vengono considerate comportamenti discriminatori in quanto è il legislatore stesso a qualificarli come tali.

Le molestie, in realtà, sono vietate dall’ordinamento giuridico in quanto comportamenti lesivi della dignità dei soggetti che ne sono vittime.

Le molestie, peraltro, hanno in comune con le discriminazioni la circostanza che al loro accertamento si procede con un valutazione di tipo oggettivo: non occorre, in altre parole, accertare l’intento del soggetto agente, essendo sufficiente verificare l’effetto (di lesione della dignità della persona) prodotto sul soggetto molestato.

Per quanto attiene alle violenze sessuali, l’intervento del legislatore nazionale e comunitario si è proiettato sostanzialmente nel sanzionare quello che viene definito il c.d. ricatto sessuale , prevedendo che “il rifiuto di, o la sottomissione a, tali comportamenti (molestie e molestie sessuali) da parte di una persona non possono essere utilizzati per prendere una decisione riguardo a detta persona” .[3]

Tale intervento legislativo è in linea con quanto previsto al terzo comma dell’art. 26 del codice delle pari opportunità , il quale precisa che  qualsiasi atto inerente il rapporto di lavoro, che possa riguardare un mutamento di mansioni, un trasferimento, un provvedimento disciplinare e simili, è nullo se adottato “in conseguenza del rifiuto o della sottomissione”.

Tale previsione è di grande importanza: grazie ad essa, solo per fare un esempio, una lavoratrice che, per aver rifiutato di sottostare ad un certo comportamento molesto, sia stata colpita da un trasferimento punitivo potrà rivolgersi al giudice ed ottenere l’annullamento del trasferimento stesso.

È importante sottolineare che la vittima delle molestie potrà avvalersi della procedura d’urgenza prevista dall’art. 38 del Codice delle pari opportunità,  utilizzabile nei confronti di qualsiasi forma di discriminazione al fine di ottenere “il risarcimento del danno anche non patrimoniale”. L’azione in giudizio, naturalmente, come per qualsiasi ipotesi di discriminazione, potrà essere intentata, su delega della persona molestata, dal consigliere/a di parità.

Ma il risarcimento del danno va sempre chiesto nei confronti del datore di lavoro, anche quando non si tratti dell’autore delle molestie, dal momento che sul datore di lavoro grava il generale obbligo, previsto dall’art. 2087 c.c. , di adottare tutte le misure necessarie a preservare, nei luoghi di lavoro, non solo l’integrità fisica ma anche “la personalità morale dei prestatori di lavoro”.

Se poi l’autore materiale dei comportamenti molesti è un superiore gerarchico o un collega di lavoro, resta aperta la possibilità di agire direttamente nei suoi confronti, facendone valere la relativa responsabilità extracontrattuale.

Il riconoscimento giuridico delle molestie è avvenuto, sia da parte del diritto comunitario, sia da parte del diritto nazionale, prima ancora che in relazione al sesso con riguardo ad altri fattori di “rischio”, rispetto ai quali la tutela antidiscriminatoria ha conosciuto importanti sviluppi, seguendo le prescrizioni della Direttiva 2000/43/CE e della Direttiva 2000/78/CE le normative italiane di trasposizione: Decreto legislativo n. 215 del 2003 e, rispettivamente, Decreto legislativo n. 216 del 2003.

Le fonti di responsabilità per il datore di lavoro

Al fine di poter analizzare correttamente le fonti di responsabilità per il datore di lavoro appare d’obbligo richiamare l’art. 2049 c.c., il quale prevede che ove il comportamento del dipendente venga ritenuto riferibile, sia pure marginalmente o indirettamente, alle mansioni in concreto esercitate ed affidategli dal datore di lavoro, questi deve essere chiamato a rispondere per fatti illeciti commessi dal dipendente in danno di terzi.

Qualora, invece, la condotta sia frutto di una iniziativa estemporanea e personale del tutto incoerente rispetto alle mansioni svolte (oltre che affidate), manca quel nesso di occasionalità necessaria che solo può giustificare una attribuzione di responsabilità in capo al datore di lavoro non potendo rientrare in tale concetto un semplice elemento di collegamento di tipo temporale o spaziale.

La Corte di legittimità ha affrontato la questione sottesa ad una sentenza dell’11 novembre 2010 della Corte di Appello di Milano, nella quale, in parziale riforma della sentenza del Tribunale di Milano del 26 febbraio 2010, con la quale un addetto alle pulizie di una banca era stato condannato per i reati di violenza sessuale e di lesioni personali aggravate in danno di una collega insieme con il responsabile civile suo datore di lavoro, veniva revocata la condanna risarcitoria nei riguardi del detto responsabile civile confermando, nel resto, la sentenza di primo grado. [4]

Contro l’avversa sentenza proponeva ricorso la parte civile deducendo la erronea applicazione della legge penale (art. 185 cod. pen. in relazione all’art. 2049 cod. civ.) per avere erroneamente ritenuto inapplicabile la responsabilità del datore di lavoro ai sensi dell’art. 2049 cod. civ., pur in presenza dei presupposti richiesti (esistenza del danno; esistenza del rapporto di preposizione tra committente e ausiliario e sussistenza del rapporto di occasionalità necessaria).[5]

Invero, la questione posta all’attenzione della Suprema Corte nella sentenza in esame riguardava la responsabilità del datore di lavoro in termini civilistici per i danni cagionati dalla condotta penalmente illecita del dipendente – nella specie molestie sessuali sul luogo di lavoro in danno di altra lavoratrice – produttiva di danno a terzi.

Vi è da aggiungere che lo strumento tradizionale di tutela accordato per assicurare protezione alle vittime di molestie sessuali sui luoghi di lavoro è costituito  dall’art. 2087 cod. civ. predisposto a carico del datore di lavoro onde garantire l’obbligatoria sicurezza e protezione del lavoratore; si tratta, come ripetutamente affermato dalla giurisprudenza di legittimità di una forma di tutela non solo dell’integrità fisica, ma anche della “personalità morale” del lavoratore e tale mezzo di tutela si inserisce nel quadro di una obbligazione contrattuale gravante sul datore di lavoro. Pertanto, quest’ultimo, ogniqualvolta si dimostri sia stato a conoscenza o doveva ragionevolmente sapere delle molestie e non è intervenuto per far cessare tali condotte, è tenuto al risarcimento del danno non patrimoniale per il lavoratore, data la natura costituzionale dei beni lesi.

Ma la fonte della responsabilità a carico del datore di lavoro in ipotesi siffatte non si esaurisce con l’istituto in esame, inserendosi in questo ambito anche l’istituto previsto dall’art. 2049 c.c., che disciplina il sistema delle responsabilità dei padroni e dei committenti per fatto del dipendente.

Si tratta di uno strumento di tutela in un certo senso residuale nei limiti in cui non sia possibile accertare la violazione degli obblighi di protezione incombenti sul datore di lavoro e in altro senso alternativo al primo, che vede coinvolto il datore di lavoro per fatto illecito commesso dal proprio dipendente nello svolgimento delle funzioni assegnate e in solido con lo stesso. Unica ipotesi in cui il datore di lavoro va esente da responsabilità è quando il dipendente autore del fatto illecito abbia agito con dolo e al di fuori del cd. “rapporto di occasionalità necessaria” con le proprie mansioni, vale a dire quando l’evento lesivo si sia verificato sul luogo di lavoro solo in via del tutto accidentale e casuale.

Proseguendo in tale analisi esegetica, difficoltà insorgono nel caso in cui la questione della responsabilità datoriale indiretta oggettiva afferisca a condotte illecite rilevanti sui luoghi di lavoro. Invero, muovendo dalla considerazione della sempre maggiore frequenza di episodi di molestie e/o violenze sessuali all’interno dei luoghi di lavoro, non può certo considerarsi inesigibile l’obbligo gravante esclusivamente sul committente di predisporre modelli organizzativi tali da prevenire la commissione di reati da parte dei dipendenti, le cui modalità di svolgimento delle singole attività lavorative potrebbero agevolare la commissione del fatto illecito laddove, per esempio, non siano state adottate tecniche organizzative tali da scongiurare eventi del tipo di quelli all’esame della Corte. Tuttavia, il datore di lavoro non può essere chiamato a rispondere di qualsiasi evento produttivo di danno posto in essere dal dipendente ma solo di quelli commessi nell’ambito dell’incarico affidato al singolo dipendente. D’altra parte tale ragionamento è in linea con quell’orientamento altrettanto consolidato secondo il quale non è sufficiente ai fini della configurabilità della responsabilità il mero dato della coincidenza temporo-spaziale con una attività occasionale o favorita dallo svolgimento delle mansioni. Pertanto, conclude la Suprema Corte, corrette sono le argomentazioni della Corte di merito, avendo essa escluso sulla base di una analisi delle circostanze ambientali che non vi è spazio alcuno per considerare il comportamento dell’autore della condotta illecita rientrante tra le incombenze a lui affidate.

Il punto più critico e difficoltoso è effettuare un bilanciamento tra l’interesse del lavoratore danneggiato e l’interesse dell’imprenditore di introdurre il criterio o regola non discriminatoria.

Una volta assodato che vi sia pregiudizio occorre valutare quale, tra due interessi contrapposti, prevale: quello del datore di lavoro, al quale non può essere precluso introdurre delle modifiche organizzative, o le esigenze del lavoratore che quel pregiudizio lo ha subito?

Per poter valutare l’interesse prevalente occorre distinguere se c’è discriminazione diretta o meno. Nel primo caso, la normativa dell’Unione richiede che il requisito imposto dal datore di lavoro, per essere giustificato, sia determinante ed essenziale rispetto al contesto, che la finalità sia legittima e che il requisito sia proporzionato (cioè deve essere effettivamente e non superficialmente essenziale), introducendo, in questo modo, forti elementi selettivi per l’interesse dell’imprenditore.

Se è indiretta, invece, c’è più spazio per poter dar ascolto alle ragioni dell’imprenditore, sempre però a patto che il fattore di discriminazione sia oggettivamente giustificabile da una finalità legittima e che i mezzi impiegati per il conseguimento di tale finalità siano appropriati e necessari

Vale la pena ricordare anche come il legislatore sia intervenuto in materia di violenza di genere e di licenziamento discrirminatorio, attraverso il jobs act e la legge Fornero, che hanno apportano importanti modifiche relative alla tematica.

Il licenziamento per motivi discriminatori ora non rientra più all’interno del motivo illecito.

Il licenziamento per discriminazione oggi si distingue da quello per motivo illecito e sta rapidamente, come dimostrano le recenti sentenze della Corte di Cassazione, divenendo un mezzo autonomo, con proprie regole, ma uguale al motivo illecito per quanto riguarda la sua sanzione. Infatti, entrambe le fattispecie rendendo nullo il licenziamento, prevedono la reintegrazione del lavoratore licenziato nel posto di lavoro e condannano il datore di lavoro al risarcimento del danno pari all’ultima retribuzione globale di fatto maturata dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione, dedotto quanto percepito, nel periodo di estromissione, per lo svolgimento di altre attività lavorative. In ogni caso la misura del risarcimento non potrà essere inferiore a cinque mensilità della retribuzione globale di fatto.

Per il licenziamento discriminatorio, l’art. 28 comma 4 d.lgs. 150/2011, a differenza di quello per motivo illecito, prevede che quando il ricorrente, lavoratore, fornisce elementi di fatto, desunti anche da dati di carattere statistico, dai quali si può presumere l’esistenza di atti, patti o comportamenti discriminatori, spetta al convenuto, datore di lavoro, l’onere di provare l’insussistenza della discriminazione e non necessità dell’unicità dell’elemento discriminatorio.[6]


[1]Cass. 18\09\2009 n. 20272 in Codice Civile Simone esteso, art. 2087 c.c. p.1423
[2]Ibidem Cass., n. 10752/1996; Cass., n. 9068/2005, Cass., n. 12717/1998
[3] Direttiva 2002/73/CE, art. 1
[4] G. Chinè, manuale di diritto civile, ed. nel diritto, 209, p. 2295
[5] Cass. Sez. Lavoro 13.11.2001 n. 14096; Cass. Sez. 3, Civ. 20.6.2001 n. 8381; Cass. Civ. Sez. 3, 22.5.2001 n. 6970.
[6] E. Reale, U.Carbonem il genere sul lavoro, ed. FrancoAngeli, 2009. p.101

Salvis Juribus – Rivista di informazione giuridica
Direttore responsabile Avv. Giacomo Romano
Listed in ROAD, con patrocinio UNESCO
Copyrights © 2015 - ISSN 2464-9775
Ufficio Redazione: redazione@salvisjuribus.it
Ufficio Risorse Umane: recruitment@salvisjuribus.it
Ufficio Commerciale: info@salvisjuribus.it
***
Metti una stella e seguici anche su Google News

Articoli inerenti