Un breve excursus storico sulla tortura: da metodo d’indagine diffuso al divieto della modernità

Un breve excursus storico sulla tortura: da metodo d’indagine diffuso al divieto della modernità

Sommario: 1. La tortura come metodo per l’acquisizione di prove e confessioni: un veloce sguardo ai popoli dell’antichità – 2. L’inquisizione medioevale e la diffusione della tortura – 3. Le prime voci di protesta contro la tortura – 4. La tortura nell’epoca contemporanea – 5. Spunti di riflessioni sul divieto di tortura

 

1. La tortura come metodo per l’acquisizione di prove e confessioni: un veloce sguardo ai popoli dell’antichità

Attualmente, la tortura è considerata uno dei più odiosi crimini e come tale è vietata. Eppure, per almeno tre mila anni, essa era legale e parte integrante di moltissimi ordinamenti del passato.
Vi sono, infatti, diverse prove che i popoli dell’antichità ne facessero ricorso, sebbene con modalità e per finalità tra loro differenti.

Secondo una parte della dottrina, la più antica testimonianza è la descrizione, di un poeta egiziano, del modo in cui il faraone Ramsete II, verso il 1300 a.C., torturò i prigionieri durante l’invasione ittita dell’Egitto[1].  In seguito, come rileva la dottrina[2], fu ritrovato anche un papiro risalente al 1200 a.C., al tempo di Ramses IX della XX Dinastia, ove si narrava che in un’occasione vennero torturati i profanatori di una tomba. Occorre, però, una precisazione: sin dalle prime dinastie, gli Egiziani dimostrarono un alto senso di civiltà e di considerazione per l’uomo inquisito dalla giustizia. Tanto per fare un esempio: nei processi egiziani, erano ammesse solo deposizioni scritte per evitare che i giudici potessero essere influenzati dalla dialettica, dalla voce e dall’eloquenza del pervenuto. In questo contesto, la tortura era vista più come una punizione fine a sé stessa che come un mezzo inquisitorio ufficiale[3].

Ben diversa la situazione nelle altre popolazioni antiche. Dinnanzi ai giudici delle corti Assire, dei Medi e dei Persiani, la tortura era all’ordine del giorno e il carnefice aveva una importanza fondamentale. In questi sistemi, la ragione basilare della tortura è sempre l’urgenza e la necessità di raccogliere una prova ai fini della giustizia. Non una prova qualsiasi, ma la prova per eccellenza, cioè la confessione. Il possibile reo doveva essere costretto, con la forza, a confessare. La ricerca della verità era assoluta e finiva per giustificare anche la pratica della tortura[4].

Soltanto con i Greci, la tortura entrò nella vita quotidiana, accolta dal diritto e giustificata dalla filosofia[5]. Essi la definivano Basanos, termine che in origine indicava la “pietra di paragone” usata per testare l’oro e che, successivamente, venne usato per indicare qualunque strumento o procedimento utile per mettere alla prova una persona, tra cui anche la suddetta pratica. Peraltro, come sottolinea la dottrina[6], essa non veniva applicata a tutti ma solo agli schiavi e agli stranieri con esclusione, quindi, degli uomini liberi e dei liberti.Parte della dottrina sostiene, inoltre, che i Greci usavano la tortura sia in funzione “punitiva” sia in funzione “giudiziaria”, al fine di estorcere dichiarazioni considerate utili per l’accertamento della verità.

In primo luogo, la tortura punitiva veniva inflitta nello spazio privato dell’oikos, cioè in famiglia, da parte del capo del gruppo familiare. Questa circostanza, però, rendeva difficile stabilire i comportamenti così puniti e i tipi di tortura previsti, perché tutto dipendeva dalla volontà del capo famiglia. Si ritiene, dunque, che qualunque violazione delle regole domestiche, qualsiasi comportamento ritenuto non rispettoso poteva comportare pene come la fustigazione, la mutilazione, la condanna a lavori estenuanti. La tortura punitiva veniva, inoltre, inflitta nello spazio pubblico della polis. Ad Atene, un decreto detto “Scamandrio” (risalente presumibilmente al tardo VI secolo a.C.) vietava di sottoporre a tortura i cittadini per cui, ad essa, venivano sottoposti gli schiavi pubblici e le persone di stato libero che non godevano della cittadinanza ateniese, cioè gli stranieri, i meteci e gli stranieri residenti nella città. Per quanto riguarda i modi e le forme di questa tortura, ad Atene l’esecuzione capitale più crudele era l’apotympanismos: questa consisteva nel legare strettamente il condannato a un palo abbandonandolo alla sua sorte, in genere, dinnanzi alle porte della città affinché fosse di esempio a tutta la polis; ma c’è di più: il condannato non veniva solo incatenato ma era avvinto in ceppi regolabili e con il collo serrato da anelli, totalmente impossibilitato a muoversi.

Accanto a quella punitiva, vi era anche la tortura “giudiziaria”. Essa trovava il suo fondamento nel fatto che nei processi, gli schiavi figuravano spesso come testimoni ma le loro deposizioni erano considerate credibili solo dopo la sottoposizione alla tortura. Si creava una situazione in base alla quale le parti avverse offrivano al giudice i propri schiavi affinché fossero torturati. La parte interessata a utilizzare le dichiarazioni del proprio schiavo presentava al giudice una domanda, che avviava un procedimento che avrebbe permesso allo schiavo di entrare nel processo come testimone. L’atto iniziale di questo procedimento era detto proklesis e doveva indicare chiaramente il luogo della tortura, le domande da sottoporre al torturato e le parti che potevano assistere. Dalle deposizioni dei torturati, il giudice traeva le sue conclusioni [7].

Nonostante l’apparente chiarezza di queste regole, tuttavia, al giorno d’oggi non vi sono fonti che parlano di schiavi effettivamente torturati: nelle orazioni, che fanno riferimento alla proklesis, questa non risulta mai essere stata accettata. Per questo motivo, alcuni autori avevano ipotizzato che la basanos fosse un’ordalia e che la sua accettazione risolvesse stragiudizialmente la controversia: questo sarebbe il motivo per cui nelle orazioni si parla di proklesis rifiutate[8]. Secondo un’altra opinione[9], dal momento che le fonti nulla dicono su schiavi torturati in giudizio e non contengono neppure accenni a queste pratiche, le proklesis sarebbero una mera fictio in quanto formulate in modo tale che la controparte non avrebbe potuto che rifiutare[10].

L’assenza di fonti non ci permette, però, di preferire una tesi rispetto all’altra: per certo si può solo dire che si parlava della tortura come uno strumento in uso, efficiente e più che legalmente apprezzato. Le voci contrarie alla tortura erano molto rare. Esse, inoltre, criticavano non la tortura in sé ma il modo in cui veniva praticata, per timore che essa perdesse la sua caratteristica principale: l’infallibilità.

I sistemi tecnici più utilizzati, per favorire questo genere di deposizioni, erano la ruota, la scala, il pettine con i denti, i mattoni roventi, iniezioni di aceto nelle narici. All’esito della procedura, il soccombente era tenuto a rifondere il vincitore della causa per il danno patito dal proprio schiavo torturato: in caso di morte, il soccombente era tenuto a procurarne uno di pari forza; in caso di lesioni irreparabili, che comportavano un deprezzamento, il danno veniva stabilito dallo stesso giudice[11]. Parte della dottrina, infine, ricorda come nel mondo greco tale pratica era giustificata da profonde ragioni filosofiche[12]. Aristotele, ad esempio, nella Retorica considerava la tortura un’autentica prova estrinseca, una specie di “testimonianza obbligata”: gli schiavi vi erano costretti con la forza proprio a causa della loro condizione.

Tra i romani, la tortura veniva definita “questio per tormenta; venivano usati anche termini come “tormenta o crociatus per indicare le vere e proprie affezioni corporali. La “questio” era l’interrogatorio giudiziario condotto, in questo caso, attraverso la tortura per arrivare alla verità. Come la proklesis presso gli antichi greci, anche per i romani la tortura veniva, dunque, considerata una tecnica di indagine: essa serviva per ottenere una confessione e quindi per provare i reati. Come per i greci, almeno nei primi secoli della storia del popolo romano, la tortura riguardò solo gli schiavi: ne erano esclusi i cittadini liberi. Questa regola, tuttavia, fu ben presto derogata: fu estesa a chiunque avesse commesso un “crimen maiestatis[13]. Si riteneva, infatti, che chiunque complottasse in un delitto di lesa maestà diventasse un nemico e il nemico, una volta catturato, diventava schiavo: la tortura fu, così, estesa anche agli uomini liberi. La pratica della tortura, oltre a tutto, non era limitata solo ai giudizi penali ma era estesa anche alle cause civili, in quanto l’organizzazione schiavistica dei romani occupava tutti i settori della vita, sia pubblica sia privata. Ai cittadini veniva consentito torturare i debitori, rinchiudendoli in prigioni private o pubbliche, fino a quando non avessero saldato il proprio debito[14].

La tecnica della tortura venne regolarmente codificata secondo un protocollo piuttosto rigido: il giudice, qualora vi fossero più sospettati, interrogava l’indiziato che appariva più debole e solo quando l’interrogatorio era negativo passava al successivo indiziato. Se l’inquisito, una volta sottoposto a tortura, risultava innocente l’accusatore veniva sottoposto allo stesso supplizio in virtù della lex talionis, cioè la legge del taglione. La tortura era ordinata formalmente dagli ufficiali del tribunale ma materialmente inflitta dal tortor, che percepiva un’indennità per ogni torturato. Tipici strumenti di tortura erano il flagellum, una frusta con strisce di cuoio bovino talvolta appesantite da piombo, che lasciava profondi solchi sulla schiena e l’equuleus, cioè la ruota[15].

In epoca imperiale venne allargato il novero di soggetti e di condotte sottoposte alla tortura: le donne che si macchiavano di adulterio (tipico esempio Messalina, moglie di Claudio); coloro che praticavano la magia e la stregoneria, in quanto si temeva che si potessero utilizzare queste arti contro l’imperatore; i cristiani che, accusati di eresia, venivano costretti a rinnegare Cristo e a riconoscere la sovranità dell’imperatore considerato come un essere divino.

In seguito, con la diffusione del cristianesimo, si cercò di temperare l’uso della tortura: l’imperatore Antonino Pilo stabilì che ne fossero esenti alcuni soggetti: i minori di 14 anni, le donne incinte, gli anziani. Anche in questo contesto, la tortura trovava una giustificazione filosofica non dissimile da quella che legittimava la pratica tra i greci: lo stesso Seneca rimproverò Caligola per aver messo alla tortura Sestio Papinio e il pretore Betilio Basso per gusto personale, ma non criticò la tortura in sé per sé. Da quest’ultimo rilievo si deduce che, nell’universo romano, accanto a questa forma di tortura “giudiziale” ne esistesse un’altra tipologia: la tortura “ludica”.

Si tratta di un’ipotesi confermata anche da altri autori[16], che ritengono che alcuni imperatori come Tiberio e Caligola ne facevano largo uso, anche per motivi non inerenti alla pratica giudiziaria e con modalità tali da catturare l’attenzione del pubblico; veniva considerata tale anche la lotta tra gladiatori. Nessuno, infatti, combatteva per scelta: i gladiatori non erano altro che prigionieri o criminali sottoposti ad una forma di tortura alternativa, molto più appariscente rispetto a quella giudiziale.

2. L’inquisizione medioevale e la diffusione della tortura

Con la caduta dell’impero romano d’occidente, il diritto romano era entrato a far parte della tradizione giuridica dei popoli conquistatori[17]. Gran parte dei popoli definiti “barbari”, tuttavia, sconoscevano la tortura giudiziale e quella punitiva: Merovingi e Carolingi prevedevano, solo per gli schiavi e in alcuni casi eccezionali, la possibilità di infliggere centoventi colpi di frusta o di verga e per lungo tempo mantennero intatta la loro tradizione contraria alla tortura. I Goti e i Visigoti erano stati i primi a inglobare la tortura nel loro sistema punitivo. Inizialmente la tortura era prevista solo per alcuni tipologie di reati: stregoneria, magia, incesto[18].

Alcuni autori[19] ritengono che la fusione del diritto romano e dei diritti particolari delle popolazioni conquistatrici aveva permesso di abbandonare temporaneamente la pratica della tortura come strumento per l’amministrazione della giustizia.

A ciò contribuirono anche i primi pensatori cristiani.

Inizialmente la Chiesa, infatti, organizzata come mera entità spirituale, condannava severamente l’uso della tortura: ciò è evidente in particolare nella lettera scritta da Papa Niccolò I (858 – 867 d.C.) al popolo dei Bulgari, una delle poche popolazioni che ne ammetteva l’utilizzo come mezzo per estorcere confessioni dai presunti colpevoli[20]. Una delle motivazioni per cui ci si opponeva con così tanta energia all’uso della tortura – almeno nel mondo cristiano degli albori – era dovuto al fatto che tra i greci e romani, essa era ammessa soprattutto nei confronti degli schiavi.

Per la dottrina cristiana, però, era inammissibile ridurre un fedele allo stato di schiavitù. Ciò contribuì anche a modificare la configurazione dei processi: essi si basavano sull’audizione dell’accusato e dell’accusatore da parte di un giudice imparziale il cui compito era quello di fungere da arbitro. Le parti giuravano solennemente di dire la verità: lo spergiuro era considerato come un peccato che Dio avrebbe immediatamente punito.  La dottrina del tempo si era accorta, però, che con il tempo questo sistema aveva provocato un vuoto nella giustizia, in quanto in caso di spergiuro raramente la collera dell’Onnipotente puniva immediatamente il reo. Proprio a causa di questo vuoto, secondo alcuni autori, era stata introdotta l’ordalia[21].

L’ordalia, secondo la ricostruzione offerta da parte della dottrina, era una specie di giudizio divino, fondato sulla convinzione che la ragione conferiva la forza necessaria a vincere sull’altra parte[22].

È possibile distinguere due diverse tipologie di ordalia. La prima coinvolgeva entrambe le parti e poteva rivelarsi relativamente mite: ad esempio, i contendenti dovevano restare in ginocchio o con le braccia alzate davanti al Crocifisso per tutto il tempo della Santa Messa, e colui che resisteva sarebbe stato giudicato nel giusto. La seconda tipologia coinvolgeva solo l’accusato e serviva a stabilirne la colpevolezza. Essa era prevista per i reati più gravi, come la stregoneria, il tradimento e l’adulterio, ma successivamente venne estesa anche per provare la legittimità o la paternità di un figlio e per decidere le liti.  Anche in questo caso, esistevano dei soggetti che non potevano essere sottoposti con la forza al giudizio divino: i liberi, i nobili, i degni di fede. Questi, tuttavia, potevano offrire persone dipendenti (come schiavi o parenti diseredati) per la prova[23].

Quanto alle modalità attraverso cui veniva realizzata l’ordalia, esse erano molteplici: basti pensare alla prova dell’acqua bollente o dell’acqua gelida, con le quali o si costringeva il sospettato a ripescare un oggetto immerso nell’acqua bollente oppure veniva gettato nell’acqua gelida in attesa di verificare che il corpo galleggiasse o meno; alla prova del fuoco; alla prova del ferro rovente, con la quale il sospettato doveva camminare per qualche metro su ferri roventi; alla prova del cibo consacrato, con la quale il sospettato doveva inghiottire una certa quantità di cibo pubblicamente consacrato; alla prova della croce; alla prova del sorteggio[24].

Dal IX al XII secolo non vi erano tormenti giudiziari veri e propri: nessuna fonte li cita né come sistema né come pratica quotidiana. Ogni problema di natura criminale veniva risolto attraverso l’ordalia.

Da ciò emerge che, in fin dei conti, nemmeno il Cristianesimo era riuscito a estirpare totalmente le pratiche che comportavano una punizione corporale, ma aveva cercato di temperarle, spogliandole della loro tradizione pagana e circondandole di un significato spirituale e liturgico[25].

Nel corso del XII secolo il processo per ordalia finì per essere preso – sempre più spesso- di mira da parte di giuristi e teologi. Figura di spicco tra i critici fu l’ecclesiastico Pietro il Corista: egli riteneva che, attraverso l’ordalia, si violava un precetto biblico di grande importanza per la Chiesa, cioè quel precetto che imponeva di “non sfidare Dio, Signore tuo”. Camminare sui ferri ardenti o immergersi in acque gelide equivaleva a ricercare un miracolo “a comando dell’uomo”, pratica che condannava a morte certe persone innocenti. Per questo motivo, nel 1215, la pratica dell’ordalia fu vietata da papa Innocenzo III[26].

Intorno al 1200, la tortura non solo fu riammessa in Italia, ma acquistò un fondamento giuridico e teologico del tutto nuovo[27]. Presupposto di questo ritrovato vigore, era stato il ruolo di potenza assunto dalla Chiesa, nella sua duplice veste di autorità spirituale e temporale. I Pontefici iniziarono a utilizzare le pene corporali e la pratica della tortura contro le eresie. Nel medioevo, infatti, la fede cattolica aveva assunto un ruolo centrale.

Si credeva, difatti, che il mondo e i rapporti fossero fondati sull’amore di Dio, sul rispetto per le leggi della Chiesa e dei suoi diritti. Chi attentava alla fede e ai suoi dogmi fondamentali, minacciava la struttura, l’organizzazione e il potere della Chiesa, o meglio esponeva a pericolo equilibri su cui si basava tutta la società. Per questo, le dottrine rivoluzionarie, ben presto definite eretiche, erano di estrema pericolosità: dinnanzi al loro diffondersi, la Chiesa reagì con ogni mezzo possibile. La tortura, in questo contesto, era un mezzo di prova legalmente riconosciuto e utilizzato dall’Inquisizione per realizzare i propri obiettivi.

Così, tale pratica aveva trovato le prime giustificazioni anche da parte dei “Dottori della Chiesa”.   Si riporta l’esempio di Sant’ Agostino che ammetteva l’uso di una temperata severitas sugli eretici e di San Bernardo, il quale affermò che era preferibile l’uso della spada piuttosto che lasciar diffondere il contagio, a condizione che essa venisse impugnata da un rappresentante legittimo[28].

alla luce di queste riflessioni, nel 1252, con la bolla Ad extirpandam, Innocenzo IV aveva permesso e ufficializzato l’uso della tortura nei processi per eresia, precisandone i casi e le modalità di impiego. Si era stabilito che vescovi ed ecclesiastici avrebbero dovuto servirsi dei giudici laici per applicarla e che non avrebbero potuto assistere per non ledere il principio che vietava ai chierici spargimenti di sangue. In seguito, Papa Urbano IV, nel 1262, aveva stabilito che gli inquisitori potevano assistere e dirigere la tortura in modo da raccogliere direttamente le confessioni, a patto che venissero rispettate l’integrità personale e la vita dell’imputato. Quest’ultimo principio fu di grande importanza: si legittimava la “tortura giudiziale” in modo tale da non contrastare con i principi supremi della dottrina cristiana.

Proprio per questa ragione, furono numerose le inchieste sollevate contro gli stessi inquisitori per eccessiva crudeltà, per corruzione, per aver cagionato la morte di coloro che erano sottoposti alla tortura[29]. La svolta decisiva era stata realizzata nel 1317, quando Clemente V aveva disciplinato l’uso della tortura disponendo che, a garanzia dell’imputato, essa poteva essere applicata solo in seguito all’accordo tra vescovo e inquisizione. Essa veniva disposta mediante una sentenza soggetta a notificazione e a gravame[30]. Vi erano due tipi di tortura: la tortura in caput proprium, volta ad ottenere una confessione da parte dell’imputato o i nomi di eventuali complici e la tortura in caput alienum, applicata ai testimoni per ottenere la verità in caso di reticenza. In ogni caso, la tortura era considerata come extrema ratio: poteva essere utilizzata quando fossero esauriti gli altri mezzi di prova ed era impossibile giungere diversamente alla verità[31].

Non c’era distinzione tra i soggetti a cui veniva applicata: era una pratica “diffusa” che riguardava ricchi, poveri, chierici, laici. Gli uomini di buona reputazione erano torturabili solo se a loro carico vi fossero almeno due prove gravi, come la testimonianza di un terzo che fosse attendibile e il tentativo di fuga; per gli uomini di cattiva fama era sufficiente che un solo testimone attendibile dichiarasse contro di loro. Ne erano esclusi solo i bambini e le donne incinte.

A seconda dell’intensità con cui venivano inflitti i supplizi, si parlava di tortura ordinaria e straordinaria: di regola, però, essa non poteva durare più di un quarto d’ora e non poteva essere ripetuta, a meno che dalle indagini non emergessero fatti nuovi[32].

Sebbene questo fosse il quadro generale, tuttavia, non era garantita l’osservanza delle regole così introdotte: non era, infatti, prescritta alcuna sanzione in caso di violazione. Dette regole furono, così, progressivamente eluse tramite gli accorgimenti della dottrina o dei glossatori o dei giudici. Ad esempio, le regole introdotte da Clemente V prevedevano l’uso della tortura solo nei confronti degli eretici ma non dei testimoni. Nei confronti di questi ultimi, la tortura veniva lasciata alla discrezionalità del giudice; inoltre, spesso, dopo una prima applicazione della tortura rivelatasi inefficace, si ordinava che essa fosse protratta anche per molto tempo. Si interpretava, infatti, il divieto di rinnovare la tortura nel senso che essa non poteva essere più applicata quando tutti gli strumenti erano stati impiegati.   Tra i metodi più utilizzati, vi era la questio dell’acqua, la questio del fuoco, la strappata, la ruota[33].

Per quanto riguarda l’iter giudiziario che permetteva la pratica della tortura, prima di sottoporre il sospettato alla tortura, egli doveva giurare di dire la verità. In seguito, la pratica iniziava con la descrizione dello strumento utilizzato, per effettuare una pressione a livello psicologico, per incutere timore; poi si incitava il sospettato a confessare, e solo in caso di risposta negativa si dava il via ai tormenti. Se, però, il sospettato dichiarava di voler confessare, si sospendeva l’operazione e il boia lo conduceva dinnanzi al cancelliere ad tormenta, che raccoglieva e documentava la dichiarazione. Qualora il sospettato fosse reticente, o sopportasse coraggiosamente, si passava all’uso di altri strumenti. Le confessioni così ottenute dovevano, infine, essere confermate da un giuramento. Nel processo verbale delle operazioni svolte, il cancelliere affermava, spesso che le dichiarazioni erano ottenute senza l’uso della forza: ciò allo scopo di costringere ulteriormente il sospettato a confermare le deposizioni, per timore di essere sottoposto nuovamente ai supplizi[34].

 Era stato così introdotto il supplicium veritatis, che trovava il suo fondamento giuridico e teologico nella pratica delle ordalie: con essa si invocava l’intervento di Dio nel processo. Il giudice assumeva le vesti di tutore della giustizia divina a favore dell’interesse pubblico ecclesiale, dell’accertamento della giustizia, della repressione dei reati. Il reo che confessava rivestiva il ruolo di verità vivente[35]. Questo sistema, a tratti così articolato, si spiega con il fatto che la teologia, nel medioevo, dirigeva e controllava lo spirito e le attività umane.

Si è già accennato al fatto che i sommi Pontefici, inizialmente, utilizzavano la tortura solo nei confronti degli eretici, nel momento in cui ci si accorgeva che l’uso delle armi spirituali – come la scomunica – non era sufficiente a limitare la diffusione del fenomeno eretico. Gli stati e i sovrani temporali, che subivano l’influenza della Chiesa in maniera sempre più profonda e incisiva, con il passare del tempo, spesso, si erano uniti a questa lotta[36]. La tortura veniva, così, giustificata non dalla gravità oggettiva della colpa ma dalla estimazione soggettiva del danno che il reo, con il proprio comportamento criminoso, arrecava ad un certo gruppo sociale.

Una dottrina radicale, diversa da quelle ufficiale minava non solo la stabilità dell’organizzazione ecclesiastica ma anche dell’organizzazione temporale e la gerarchia esistente in questo contesto e poteva essere fonte di disordini sociali, ribellioni, tentativi di sovvertimento del potere[37].

Per questo motivo, l’eresia era considerata di estrema pericolosità sociale tale da giustificare giuridicamente la pratica della tortura. Dal punto di vista teologico il dolore era considerato come un metodo di purificazione: i patimenti subiti dagli eretici rappresentavano una modalità di espiazione delle colpe e di ricongiungimento con Dio. La tortura, così, assumeva il significato di sconfitta sul male[38].

Già prima che l’Inquisizione venisse imposta giuridicamente e canonicamente da Papa Gregorio IX, la tortura era riapparsa nei sistemi di procedura penale di diversi Paesi. Se ne hanno notizie a Gerusalemme, dove colui che fosse sospettato di assassinio e avesse avuto contro di sé la testimonianza di almeno due persone veniva condannato a morte[1].

Verso la metà del 1200, tuttavia, il sistema giudiziario prevalente, quello di stampo accusatorio che aveva caratterizzato i secoli passati, cominciava a mostrare segni di declino[2]. Diverse le ragioni: la corruzione dilagante, l’inefficienza delle ordalie e, soprattutto, la diffusione del sistema introdotto da Carlo Magno nel IX secolo. Questo sistema era definito “per inquisizione”, dal latino “inchiesta”, e permetteva ai commissari regi di viaggiare tra i domini imperiali, fare indagini ed emettere sentenze in materia di ingiustizie e criminalità; tali commissari assumevano -così- la veste di accusatori e di giudici. Si gettavano le basi per una nuova forma di processo, definito appunto Inquisizione[3].

Lo sviluppo e la diffusione della corruzione, anche tra gli ecclesiastici, le eresie, e la criminalità richiesero una risposta forte e decisiva da parte delle istituzioni. Per questo motivo, nel 1231, Papa Gregorio IX aveva annunciato che l’arresto e i giudizi sugli eretici sarebbero ricaduti sotto la responsabilità dell’Inquisizione papale controllata da Roma. Essa era un’istituzione stabilita nel Concilio che si tenne a Verona nel 1184, avente come scopo la repressione del movimento cataro.

In origine, gli inquisitori erano itineranti e appartenevano all’ordine dei domenicani e dei francescani. Essi venivano scelti per la loro cultura, la religiosità ma anche per la loro umanità: alcuni di essi furono addirittura canonizzati e santificati, come “San Pietro il martire”, che nel 1234 divenne l’Inquisitore per la l’Italia settentrionale[4]. L’inquisizione viene qui chiamata in causa in quanto aveva svolto un ruolo determinante per la diffusione della tortura: essa contribuì a creare un vero e proprio corpus di regole riguardanti l’uso della tortura, che in seguito verranno codificate da Nicolas Eymeric, inquisitore papale nel regno d’Aragona nella seconda metà del XIV secolo.

Inizialmente, la tortura era impiegata nei confronti di chi compiva dichiarazioni contraddittorie nel corso di un interrogatorio; nei confronti degli eretici, qualora vi fossero testimoni o forti sospetti di eresia; nei confronti di chi avesse la fama di eretico, qualora manifestasse un atteggiamento “eretico”, pur in assenza di testimoni o indizi. I metodi di tortura cambiavano da paese in paese. In Italia, ad esempio, era particolarmente diffusa la corda[5].

Non sempre i principi dell’Inquisizione, tuttavia, erano stati ben accolti dai regnanti e dagli stati[6]. Difatti, nel Sacro Romano Impero, nel 1532, sotto Carlo V, era stata emanata la “Carolina” o meglio l’“Ordinanza di Carlo V e del Sacro Impero, riguardante la giustizia penale”. Si trattava di un atto di grande rilievo, che dedicava 57 articoli alla disciplina della tortura[7].

In realtà, essa non era stata unanimemente condivisa: difatti,  numerosi Stati avevano aggiunto una clausola, la faceva salvi gli usi antichi, giusti ed equi, presenti negli stati stessi. Nonostante ciò, la Carolina si era comunque diffusa tra tutti gli stati tedeschi grazie all’azione dei giuristi. Essa precisava i limiti della tattica tormentatoria: quest’ultima poteva essere inflitta ai responsabili di omicidi, di venefici, di rapina, di infanticidio, di magia, e a chi commetteva crimini equiparati[8].

Si stabiliva, inoltre, che la tortura doveva essere inflitta dagli inquisitori secondo un criterio proporzionale: doveva essere proporzionata all’età, al sesso, alla robustezza fisica, e non poteva provocare né danni irreparabili, né cagionare la morte del soggetto. Il giudice che avviava la procedura senza una giusta ragione doveva personalmente risarcire il torturato e, in casi di superficialità o leggerezza, subiva la legge del taglione.

Da ciò, possiamo osservare due dati molto importanti per la nostra trattazione: in primis, con la Carolina si è ampliato il novero di soggetti, e quindi, anche di fattispecie, per cui era previsto l’uso della tortura; in secundis, vengono inizialmente riprese quelle regole previste per le ordalie dei primi secoli del medioevo, che consideravano la tortura come extrema ratio.

Si trattava di principi nettamente in contrasto con i dogmi sulla base dei quali operava l’Inquisizione. Secondo gli inquisitori, infatti, il presunto reo di magia o di eresia perdeva la sua qualità di essere civile, nel momento stesso in cui iniziava ad essere sospettato. Diventava un nemico mortale, che doveva essere immediatamente distrutto e non poteva godere di alcuna garanzia[9].

Ciò aveva portato, nel 1300, alla creazione di un nuovo sistema giudiziale ad hoc[10]: il sospettato non poteva conoscere né l’andamento delle indagini né quello processuale; non poteva richiedere un avvocato difensore; non si poteva tralasciare alcun mezzo per giungere alla confessione.

Si giungeva, così, ad una vera e propria codificazione del tormento: giudici e carnefici spesso si servivano di testi in cui però era difficile distinguere tra le pratiche lecite e quelle illecite. Ciò contribuì a creare molta confusione nell’individuazione dei suoi limiti: in assenza di certezza giuridica, essa divenne ben presto il principale metodo di indagine[11].

Diversi giuristi dell’epoca avevano iniziato, dunque, a cercare di dare un ordine sistematico alle norme e ai metodi utilizzati.  Avevano elaborato dei testi che non avevano solo un valore documentale ma che, a quel tempo, fungevano spesso da veri e propri manuali, spesso utilizzati anche dai carnefici.

Si cita, tanto per fare alcuni esempi, il giurista fiorentino Paulo Grillando che, nel 1584, aveva enumerato in uno scritto cinque diversi gradi di tortura, sempre più severi in base al reato commesso; il giurista Hyppolytus de Marsiliis, che sempre nel XVI secolo, aveva descritto alcuni metodi non considerati legali, ma comunque utilizzati: versare nelle narici un misto di acqua e calce, inserire insetti nelle cavità umane, inserire pezzi di legno tra le mani per poi legarle[12].

Da un punto di vista squisitamente procedurale, affinché l’imputato fosse consegnato nelle mani del carnefice, era necessaria l’esistenza di alcuni indizi. In caso di omicidio, era necessaria la presenza di macchie di sangue sui vestiti, minacce alla vittima, l’essere colto sul luogo del delitto, la fuga o il tentativo di fuga, la cattiva fama[13]. In Germania e in Francia esisteva, addirittura, una graduatoria degli indizi più importanti, ognuno dei quali era di per sé sufficiente per la sottoposizione alla tortura: la confessione extragiudiziale, un testimone visivo al momento del delitto, e così via. La presenza di due testimoni visivi, invece, comportava il sorgere di una prova piena[14].

Se vi erano più indiziati, si applicavano quelle regole già sviluppatasi per le ordalie, o comunque nei primi secoli dall’epoca medioevale: si procedeva alla tortura di coloro che sembravano più disposti a cedere. Era stato, così, creato un vero e proprio ordine: i figli prima dei padri, le donne, i timidi, gli anziani e poi gli uomini più robusti. Finivano immediatamente sotto tortura coloro che avevano connotati fisici poco piacevoli, coloro che avevano nomignoli sospetti, e i malati di mente (per questi ultimi l’accusa tipica era di stregoneria o di essere posseduti)[15].

La tortura era la protagonista del procedimento per l’accertamento della verità. Una volta che il sospettato veniva arrestato, il magistrato lo osservava con attenzione registrando tutti i gesti, frasi e atteggiamenti che confermassero gli indizi.

In seguito, l’imputato veniva citato e, a questa, seguiva una fase “istruttoria” in cui i testimoni venivano riesaminati. Già in questa fase, era possibile una prima applicazione della suddetta pratica, proprio nei confronti dei testimoni, qualora essi compissero dichiarazioni contraddittorie o illogiche. Gli indizi così raccolti venivano pubblicati e l’indiziato doveva confessare per dimostrare la propria innocenza: la confessione veniva estorta tramite la tortura. Tuttavia, prima che la confessione fosse valida, doveva essere ratificata davanti al giudice e ai testimoni[16].

Per quanto riguarda le regole circa il momento in cui applicare la tortura, si riteneva che essa non poteva essere eseguita tutti i giorni, per cui vi era un calendario ben preciso da rispettare. Si dovevano rispettare il giorno della domenica, i giorni di Quaresima, le ferie d’estate e d’autunno, le festività di Natale, Capodanno e la Pasqua. Anche in questi casi, però, vi erano delle eccezioni nei confronti dei falsari, avvelenatori, dei maghi e dei rapinatori: nei loro confronti la tortura era ammessa anche nei giorni festivi e nei periodi consacrati.

Sebbene le regole pontificie affermavano che la tortura andasse applicata nei locali giudiziari o comunque ben lontani dagli occhi indiscreti, ben presto, invece, essa veniva eseguita pubblicamente: aveva assunto anche la funzione esemplare e preventiva, in quanto avrebbe distolto i membri della comunità dalla commissione di comportamenti analoghi a quello punito[17].

Queste regole generali avevano uno scopo ben preciso: erano previste per far sì che la tortura non fosse considerata una pratica abnorme ma una consuetudine giudiziaria, che ubbidiva al calendario e si inseriva al normale svolgimento del procedimento penale dell’Inquisizione[18].

L’istituzione che aveva fatto proprio l’uso – e a volte l’abuso – della tortura era stata proprio l’Inquisizione Spagnola, ricordata soprattutto per la sua efferatezza e perché aveva creato un vero e proprio clima di terrore[19]. Uno dei suoi maggiori esponenti fu Tomàs de Torquemada, nominato, nel 1483, Grande Inquisitore. Sotto la sua influenza era stato esteso il novero di soggetti a cui poteva essere applicata la tortura: non solo agli eretici, agli stregoni, ai colpevoli di lesa maestà, a coloro che si macchiavano di reati particolarmente gravi, ma anche ai bigami, ai bestemmiatori, agli usurai, agli ebrei convertiti qualora sospettati di praticare segretamente la loro religione d’origine, a coloro che si opponevano alle autorità civili e religiose[20].

Il procedimento inquisitorio terminava, in caso di confessione, con il tristemente conosciuto “auto da fè”, una cerimonia coreografica alla quale partecipavano tutti i penitenti di una certa regione, che terminava solitamente con il rogo o l’inflizione di altre tipologie di torture, come il murus strictus, cioè una forma di prigionia in locali sotterrati, senza aria e luce e spesso senza viveri, alla mercé di topi, insetti e delle sevizie dei carcerieri[21].

Sconfitte le eresie, divennero vittime predilette dell’Inquisizione prima le cosiddette “streghe” e poi gli untori. Papa Innocenzo VIII con la bolla “Summis desiderantes affectibus” del 1484 e il “Malleus Maleficarum” del 1490 di Sprenger, aveva dato il via alla lotta contro la stregoneria[22]. Così, se nei primi secoli del medioevo la donna era stata esente dalla pratica della tortura, ne diventava ora il bersaglio prediletto[23]. Questo cambiamento trovava la propria giustificazione nella particolare visione della donna, considerata più fragile, più suggestionabile e più facilmente manovrabile tramite la tortura. Il dolore da essa causato distruggeva la sua coscienza morale, tanto che spesso finiva per assecondare la volontà dei suoi aguzzini.

La caccia ai maghi e alle streghe veniva condotta da una speciale commissione dell’Inquisizione, che aveva il compito di raccogliere gli indizi e presentarli. Ai sospettati furono applicate torture efferate, giustificate dal fatto che la stregoneria veniva condannata sia dal tribunale ecclesiastico sia da quello secolare. Essa, infatti, da un punto di vista teleologico era considerata come un delitto contro la fede; dal punto di vista giuridico era parificata ai giudizi di lesa maestà, di alto tradimento, di falsificazione, cioè tutti delitti straordinari che imponevano l’uso di procedimenti straordinari.

A differenza di quanto affermato per secoli, il Malleus suggeriva di praticare la tortura gradualmente in giorni diversi: poiché la stregoneria era considerata un crimine eccezionale, era possibile ripetere e prolungare i tormenti. La tecnica degli interrogatori in camera di tortura veniva spesso suggerita dai giuristi dell’epoca, che individuavano e selezionavano le pratiche più crudeli e inumane[24].

Oltre alle donne, erano diventati vittima dell’Inquisizione anche gli untori. La caccia agli untori era iniziata a Milano intorno al 1630 quando erano stati torturati alcuni uomini, accusati di aver diffuso dei veleni e le epidemie che avevano colpito l’Italia settentrionale, provocando la morte di centinaia di persone. L’untore era equiparato alla strega: egli andava individuato, torturato per ottenere una confessione e poi distrutto per salvaguardare l’intera società.

Si trattava di deroghe molto evidenti alla prassi giuridica che si era formata nel tempo e all’originale disciplina, introdotta dai Pontefici nel 1200, circa l’uso della tortura. Deroghe che trovavano il loro fondamento nella concezione religiosa e giuridica del tempo, a discapito di qualsiasi diritto dell’uomo[25].

3. Le prime voci contro la tortura

Per secoli, dunque, la tortura era stata considerata un “normale” metodo di indagine nel processo penale, col tempo accettato anche dai vari Sovrani. Poche erano le voci di protesta che si erano sollevate e che avevano offerto un sostegno ai torturati; tra queste, senza dubbio, la Confraternita di San Giovanni delle Case Rotte[1].

Essa era stata l’unica in Europa a svolgere, per secoli, un’attività di assistenza a coloro che venivano torturati. I frati, infatti, assistevano i condannati dal momento della tortura fino al momento della morte. Tale Confraternita, inoltre, era stata l’unica ad attivarsi per far ottenere la grazia a coloro che dimostravano un effettivo pentimento, nel pieno rispetto della dottrina cristiana e del valore della vita umana. Occorre, tuttavia, attendere il 1700 affinché vi sia un vero e proprio mutamento di pensiero[2].

Il primo che si era scagliato contro la tortura fu Montesquieu, nella sua celebre opera “Lo spirito delle Leggi” (1748): egli vi dedicava ben poco spazio, il capitolo 17 del libro VI. In ogni caso egli era fermamente convinto che la tortura fosse l’istituto tipico del dispotismo e ne parlava con orrore e ripugnanza, ma lasciandosi pervadere dal suo “sentimento”[3].

Più razionale appare, invece, la riflessione di Cesare Beccaria, nel suo scritto “Dei delitti e delle pene” del 1764 e, in particolare, nel capitolo XVI , ove si occupava del problema, non solo da un punto di vista prettamente giuridico ma anche etico[4]. Beccaria aveva elaborato, così, tre argomentazioni contro la tortura.

In primis, egli affermava che – da un punto di vista giuridico – se il delitto era certo, allora la tortura si rivelava inutile, poiché la confessione del reo è superflua; se il delitto era incerto la tortura era indebita, perché sarebbe applicata ad un innocente. Presupposto di questo ragionamento era, infatti, la presunzione di innocenza: nessuno poteva essere chiamato reo ed essere ritenuto colpevole fino alla prova decisiva e inoppugnabile della sua colpevolezza. In secondo luogo, riteneva “ridicolo” il fine che per secoli ha giustificato l’uso della tortura: la purgazione dall’infamia, in quanto il dolore -che è un fenomeno fisico- non può purificare ciò che riguarda l’aspetto morale, come l’infamia. La stessa tortura, anzi, cagionava infamia a chi ne era la vittima, come in un circolo vizioso. In terzo luogo, la tortura giudiziale – usata per secoli in caso di dichiarazioni contraddittorie o ritenute false come metodo di indagine della verità – non sarebbe dissimile dai giudizi divini dei primi secoli medievali: l’unica differenza era che l’esito della prima sembrava dipendere dalla volontà del reo (egli metterebbe fine ai supplizi tramite la confessione); nei secondi, l’esito dipenderebbe da un fatto fisico ed estrinseco.

A ben vedere, dunque, secondo Beccaria, questa distinzione sarebbe solo apparente perché in realtà l’individuo non sarebbe mai libero tra spasmi e strazi, tanto quanto non lo era di impedire, senza frode, le prove ordaliche dell’acqua bollente o del fuoco. La resistenza ai supplizi dipendeva da fattori fisici, che potevano variare in ogni individuo: la sensibilità, la presenza di patologie, la robustezza. L’esito della tortura era, dunque, un affare di temperamento: sarebbe stato necessario individuare la soglia di dolore che il soggetto non riuscirebbe a tollerare e nonostante ciò, si avrebbe comunque un certo grado di soggettività e incertezza, che la giustizia non può tollerare.

Pertanto, riteneva come una totale assurdità la tortura:  il giudice, con essa, cesserebbe di essere terzo e imparziale, colui che ricerca la verità, ma diventerebbe un “nemico del reo”, che cercherebbe nel prigioniero il delitto attraverso la tortura. Alla fine, Beccaria sembra quasi voler elaborare una propria teoria del processo penale, distinguendo tra un processo penale “offensivo” – per essere dichiarati innocenti, bisogna prima essere sottoposti alla tortura in quanto ritenuti rei, – e un processo penale “informativo” – prevale la ricerca del fatto penalmente rilevante, chiunque commesso. Da un punto di vista etico, Beccaria criticava la tortura in quanto si finirebbe per confondere due diversi piani: quello morale e quello fisico. La giustizia potrebbe e dovrebbe riguardare solo i fatti materiali, mentre il giuramento non potrebbe mai spingere l’accusato a dichiararsi colpevole, sia che questi lo sia, sia che non lo sia[5].

Un’altra voce di grande importanza, era stata quella di Voltaire[6]. Nell’opera “Premio della Giustizia e dell’Umanità”, il filosofo francese riteneva che la tortura non servirebbe a scoprire la verità, ma solo ad infliggere la morte in maniera lenta e dolorosa e screditava, così, l’utilità della tortura come mezzo per produrre confessioni veritiere, e quindi giuste condanne; proprio per questo, finiva per criticare la disumana irrazionalità di quel fanatismo che per secoli aveva creato confessioni di stregoneria e aveva permesso di verificare, solo ex post, la realtà di un fatto attraverso la tortura[7].

L’unico caso in cui il filosofo francese ammetteva la tortura era nel tentativo di riparazione di un crimine perpetrato contro lo Stato, cioè l’omicidio del re Enrico IV: in questo caso eccezionale la tortura, volta a individuare i complici dell’assassino, era servita a soddisfare un’esigenza di verità, necessaria politicamente, per ristabilire l’ordine e gli equilibri nelle province francesi e negli Stati circostanti. Ma a ben vedere, si trattava di una giustificazione piuttosto illogica rispetto alla sua idea fondamentale [8].

Queste idee, così rivoluzionarie e pienamente aderenti allo spirito illuminista del tempo, avevano iniziato a dilagare anche nel mondo politico[9].

Ne è prova Caterina II di Russia che nel redigere di suo pugno il codice russo nel 1767, aveva ripreso le idee di Beccaria e aveva bandito la tortura nel suo territorio. Prendeva, così, vita la cosiddetta “teoria abolizionista” che porterà in breve tempo all’abolizione della tortura in quasi tutta l’Europa continentale[10].

Tale idea è stata anche abbracciata dal regime napoleonico e dalla Restaurazione. Gli unici territori in cui si avevano ancora delle resistenze erano la Sicilia, la Sardegna e gli altri territori dell’Italia meridionale sotto il controllo borbonico. Occorreva attendere l’800, affinché l’abolizionismo potesse dare i suoi frutti: nel 1827, il codice di Carlo Felice aveva già ripudiato la tortura come metodo di ricerca della verità; nel 1831 il Pontefice Gregorio XVI aveva promulgato un regolamento di procedura criminale in cui si vietava l’uso della tortura. Si gettavano, così, le basi per una nuova tipologia di processo penale, di stampo accusatorio, con caratteristiche antitetiche a quello inquisitorio, che trovava il suo fondamento nel rispetto dei diritti umani, dei diritti processuali, e della presunzione di innocenza. Si tratta di una rivoluzione, filosofica e morale prima e giuridica poi, che caratterizza tutto il XIX secolo[11].

4. La tortura nell’epoca contemporanea

 Il pensiero illuministico aveva permesso, dunque, di compiere un passo in avanti nella tutela dei diritti umani, ma gli avvenimenti del 1900 avevano -in parte- cancellato queste conquiste.

Come è tristemente noto, la tortura era stata ampiamente praticata al tempo della seconda guerra mondiale dalla Gestapo, la polizia segreta di Hitler[1]. L’attizzatoio ardente, le pinze di acciaio per l’estrazione dell’unghia erano pratiche ben conosciute, attraverso cui la Gestapo ricercava informazioni utili e compiva interrogatori senza, tra l’altro, dimenticare le atrocità compiute nei campi di concentramento. In questa tetra parentesi della storia del novecento, la tortura fuoriusciva dal sistema giudiziale (sua sede tipica durante il medioevo) per divenire una vera e propria pratica di sterminio di intere popolazioni, come gli ebrei e gli zingari, e degli oppositori politici.

I metodi con cui essa veniva inflitta non erano solo quelli tradizionali (mutilazioni di arti, dei genitali, pestaggi, schiacciamenti) ma si aggiungevano anche le condizioni in cui questi soggetti erano rinchiusi. Ne sono prova i campi di concentramento: i prigionieri erano ammassati come animali, senza privacy, senza libertà di movimenti, in condizioni igieniche precarie o addirittura assenti, costretti a ritmi e a lavori estenuanti che spesso provocano una morte progressiva e lenta.

La fine della guerra non ha segnato la fine di questa pratica. Se ne hanno notizie, ancora, durante la Battaglia D’Algeri combattuta tra il 1957 e i 1959 tra Algeria e Francia[2]. Nonostante nel diritto francese la tortura fosse stata già ufficialmente abolita nel 1759, nella pratica era ancora molto diffusa come metodo d’indagine. Anzi, nel 1955 il rapporto Wuillaume, redatto da un alto funzionario statale, aveva tentato addirittura di legalizzarne la pratica, asserendo che sia la polizia sia l’esercito ne avessero fatto ampio uso in Algeria.[3]

Tra le pratiche utilizzate, vi era il “gegene”, tortura di tipo elettrico eseguita attraverso un magnete segnalatore fissato al corpo dell’inquisito attraverso degli elettrodi, e la tortura dell’acqua.

Anche nell’URSS, durante tutto il ‘900, la tortura aveva rappresentato un sistema di Stato: lo stesso Stalin -più volte- aveva ordinato ai giudici che fosse applicata in modo scientifico agli inquisiti[4].

Così, anche in Albania, la tortura era stata praticata presso le Sezioni di sicurezza. Si trattava di pratiche crudeli che comprendevano la seppellitura da vivi, la rottura e l’estrazione di denti sani, la scorticazione della pelle, l’introduzione di insetti o animali vivi nelle parti intime delle donne, l’uso della corrente elettrica, delle pinze, e degli aghi.

Il metodo utilizzato consisteva in due fasi: la prima, volta all’annullamento della personalità dell’individuo; la seconda, volta a indurre l’inquisito alla confessione. Quest’ultimo veniva rinchiuso per giorni in una stanza buia, senza cibo e acqua, tenuto costantemente sveglio. Se ciò non bastava, si usavano lampade abbaglianti, spille o mollette per tenere a forza le palpebre aperte, l’acqua gelida, l’actedron cioè uno stimolante nervoso. In alcuni casi, veniva usata anche la lobectomia celebrale: attraverso un’operazione chirurgica realizzata a livello celebrale, si privava l’inquisito di nove decimi della volontà e del potere critico[5].

La situazione non era diversa nel nostro paese, in particolare durante il regime fascista.

Ciò si evince soprattutto nell’articolo 16 del Codice di procedura penale del 1930 dove si assicurava l’impunità agli agenti di pubblica sicurezza “per i fatti compiuti in servizio e relativi all’uso delle armi o di altro mezzo di coazione fisica”: norma che sembrava quasi legalizzare la tortura da parte dei funzionari statali[6]. Sotto il regime fascista, vittime delle violenze fisiche degli agenti dell’Ovra – polizia segreta dell’Italia fascista – erano principalmente i dissidenti politici. Violenze fisiche efferate venivano compiute su operai e contadini; quelle psicologiche sugli intellettuali.

L’istruttoria era caratterizzata da interrogatori realizzati mediante percosse e se, in aula, l’indagato faceva cenno alle violenze subite poteva subire anche un’accusa di falso e diffamazione. Le violenze perpetrate, spesso, comportavano l’internamento nei manicomi: un esempio è l’internamento di Rolando Sarti, arrestato per associazione comunista e propaganda sovversiva, successivamente internato per ordine del Tribunale bolognese.

Vi sarebbero anche due fonti letterarie che confermano l’uso della tortura in Italia durante il regime fascista.

La prima è l’autobiografia di Luciano BolisIl mio Granello di Sabbia”, che racconta del suo arresto e della tortura subita in quanto organizzatore della Resistenza ligure; la seconda è l’opera “Piccoli Maestri” di Luigi Meneghello, che racconta la violenza subita dal compagno di ideali Marietto dopo l’arresto.

Anche dopo la fine del fascismo, la tortura era rimasta pur sempre una pratica diffusa.  Ne è prova la rivista “Ponte”, diretta da Calamandrei – che nel marzo 1949 ha svolto un’inchiesta sulle carceri e sull’uso della tortura: l’inchiesta rivelava come essa era ancora lo strumento ordinario per estorcere confessioni, largamente utilizzata nelle caserme nel caso di presunti omicidi e nelle carceri[7]. Notoriamente, le carceri diventano luoghi di violenza e di sofferenza: anche in passato non vi era alcuna garanzia per i condannati, reclusi in situazioni ambientali deplorevoli. Alcuni prigionieri contraevano malattie, anche a causa di insetti e animali, che non curate, provocavano la morte. In questo diverso contesto, la tortura assumeva, così, anche un rilievo politico: essa non veniva inflitta solo per reprimere i crimini, specialmente quelli più efferati, ma anche per punire chi si opponeva all’ideologia prevalente, i dissidenti politici.

Per questo se ne faceva ampio uso soprattutto nei “processi contro la Resistenza”. Un caso emblematico si era verificato nel processo contro l’ex-maresciallo dei Carabinieri di Castelfranco Emilia, Silvestro Cau, accusato di aver inflitto sevizie per estorcere confessioni a due partigiani. I testimoni dell’accusa, quasi unanimemente, hanno dipinto il Cau come un sadico torturatore: egli avrebbe usato il metodo della maschera, volto a indurre una sensazione di soffocamento. In questo modo, sembra quasi che la tortura avesse assunto oltre alla funzione giudiziale anche una funzione punitiva[8].

5. Spunti di riflessione sul divieto di tortura

Tramite questo breve excursus storico, si è cercato di mettere in rilievo un percorso evolutivo, avvenuto all’interno del contesto sociale e giuridico. Si parte da una forma di tortura che non figura nel diritto penale come una macchia o una colpa, in quanto essa ha un suo posto preciso e rigoroso in un meccanismo penale complesso: è una procedura definita e codificata[9].

Parte della dottrina ritiene, infatti, che la tortura non attiene solo al campo giuridico, come conseguenza dell’applicazione di un diritto, ma è anche un elemento pienamente politico, laddove l’economia del castigo appartiene al vasto campo delle procedure di potere. I sistemi punitivi si collocano all’interno di una certa “economia politica” del corpo: i rapporti di potere operano sul corpo in modo diretto e la tortura lo evidenzia in modo inequivocabile[10].

La tortura del passato, dunque, veniva considerata un supplizio, cioè una pena corporale, dolorosa, generalmente atroce, che doveva rispondere a tre regole:

  • doveva produrre una quantità di sofferenza misurabile, comparabile, gerarchizzata, in quanto la pena non si abbatte a caso sul corpo ma è calcolata secondo regole dettagliate; traccia sul corpo del condannato segni che non devono cancellarsi;

  • era manifestazione del cerimoniale della giustizia in tutta la sua forza poiché l’eccesso stesso della violenza esercitata testimonia il trionfo della giustizia;

  • era un rituale organizzato per il marchio delle vittime e la manifestazione di potere di chi punisce[11].

Il punto di arrivo di questa evoluzione è il divieto diffuso e generalizzato della pratica della tortura: è la consapevolezza che essa rappresenta un crimine, una condotta da condannare e non più giustificare. La tortura, però, non è una pratica lontana nel tempo, un fenomeno che non ci riguarda più.

Al giorno d’oggi e in un nuovo contesto che viene definito da alcuni “cultura della guerra” [12], la tortura non viene più praticata solo per ottenere informazioni ma diventa spesso uno strumento per violare l’altro, per distruggere ciò che esso rappresenta.  Diventa uno strumento per uccidere l’anima di una civiltà e dei valori su cui essa si fonda. Ciò che occorre, quindi, al giorno d’oggi è prendere coscienza che ancora la tortura esiste e che il divieto diventa, così, non il punto di arrivo, il grande successo del processo abolizionista, ma la base per nuove riflessioni che tengano conto dei nuovi scenari politici, delle nuove forme di criminalità e della nuova sensibilità maturata dopo secoli di atrocità.


[1] B. INNES, La storia della tortura. Strumenti e protagonisti di una tragica epopea dall’antichità ai giorni nostri, Gremese Editore Roma, 2009, p. 163 -164, cui si rinvia per i rilievi che seguono nel testo.

[2] B. INNES, La storia della tortura. Strumenti e protagonisti di una tragica epopea dall’antichità ai giorni nostri, Gremese Editore Roma, 2009, p. 163 -164.

[3] Ibidem.

[4] Ibidem.

[5] B. INNES, La storia della tortura. Strumenti e protagonisti di una tragica epopea dall’antichità ai giorni nostri, Gremese Editore Roma, 2009, p. 163 -164.

[6] M. FRANZINELLI, La tortura tra fascismo e anni ’50 della guerra fredda, in Critica del Diritto, Napoli, 2016, pp. 289 – 298, a cui si rinvia per le considerazioni che seguono nel testo.

[7] M. FRANZINELLI, La tortura tra fascismo e anni ’50 della guerra fredda, in Critica del Diritto, Napoli, 2016, pp. 289 – 298.

[8] Ibidem.
[9] M. FAUCAULT, Sorvegliare e punire, Giulio Einaudi editore, Torino, 2014, p. 12 – 25.
[10] Ibidem.
[11] Ibidem.
[12]M. TOSCHI, Tortura e cultura della guerra, in La tortura oggi nel mondo a cura di L. Bimbi, G. Tognoni, Roma,  EdUP, 2006, p. 39 – 46.

[1] Ibidem.
[2]  B. INNES, La storia della tortura. Strumenti e protagonisti di una tragica epopea dall’antichità ai giorni nostri, Gremese Editore, Roma, 2009, p. 70 – 75.
[3] Ibidem.
[4] V. VINCENZO, commento al testo Dei Delitti e delle Pene di Cesare Beccaria. La tortura questo infame metodo di indagine, in www.ristretti.org, a cui si rimandano anche le considerazioni presenti nel testo.
[5] V. VINCENZO, commento al testo Dei Delitti e delle Pene di Cesare Beccaria. La tortura questo infame metodo di indagine, in www.ristretti.org, a cui si rimandano anche le considerazioni presenti nel testo.
[6] V. PORTACCI, L’umanismo penale di Voltaire. A proposito del suo scritto Premio della giustizia e dell’umanità (1777), in montesquieu.unibo.it, p 7- 9.
[7] Ibidem.
[8] V. PORTACCI, L’umanismo penale di Voltaire. A proposito del suo scritto Premio della giustizia e dell’umanità (1777), in montesquieu.unibo.it, p 7- 9.
[9]  F. DI BELLA, Storia della tortura, Sugar, Milano, 1961, p 227 – 228.
[10] Ibidem.
[11] Ibidem.

[1] F. DI BELLA, Storia della tortura, Sugar, Milano, 1961, p. 95- 96.
[2] B. INNES, La storia della tortura. Strumenti e protagonisti di una tragica epopea dall’antichità ai giorni nostri, Gremese Editore, Roma, 2009, p. 32.
[3]  Ibidem.
[4] Ibidem.
[5] B. INNES, La storia della tortura. Strumenti e protagonisti di una tragica epopea dall’antichità ai giorni nostri, Gremese Editore, Roma, 2009, p. 39- 40.
[6] F. DI BELLA, Storia della tortura, Sugar, Milano, 1961, p. 115 – 119.
[7] Ibidem.
[8] Ibidem.
[9] Ibidem.
[10] B. INNES, La storia della tortura. Strumenti e protagonisti di una tragica epopea dall’antichità ai giorni nostri, Gremese Editore, Roma, 2009, p. 41- 43.
[11] Ibidem.
[12] B. INNES, La storia della tortura. Strumenti e protagonisti di una tragica epopea dall’antichità ai giorni nostri, Gremese Editore, Roma, 2009, p. 41- 43.
[13] F. DI BELLA, Storia della tortura, Sugar, Milano, 1961, p. 119 – 134.
[14] Ibidem.
[15] Ibidem.
[16] F. DI BELLA, Storia della tortura, Sugar, Milano, 1961, p. 119 – 134.
[17] Ibidem.
[18] Ibidem.
[19] B. INNES, La storia della tortura. Strumenti e protagonisti di una tragica epopea dall’antichità ai giorni nostri, Gremese Editore, Roma, 2009, p. 67 – 69.
[20] Ibidem.
[21] F. DI BELLA, Storia della tortura, Sugar, Milano, 1961, p. 154 – 170.
[22] Il malleus malleficarum, detto anche “martello delle streghe” era il testo ecclesiastico ufficiale contro cui era praticata la persecuzione delle streghe. Esso spiega la procedura da seguire in ciascun caso, come effettuare la ricerca del mostro eversivo, e contiene un lungo elenco di donne mandate al rogo perché ritenute streghe, ovvero serve del demonio.
[23] F. DI BELLA, Storia della tortura, Sugar, Milano, 1961, p. 154 – 170.
[24]Ibidem.
[25] Ibidem.

[1] B. INNES, La storia della tortura. Strumenti e protagonisti di una tragica epopea dall’antichità ai giorni nostri, Gremese Editore, Roma, 2009, p. 13.
[2] F. DI BELLA, Storia della tortura, Sugar, Milano, 1961, p. 58.
[3] Ibidem, F. DI BELLA, Storia della tortura, Sugar, Milano, 1961, p. 58.
[4] Per questi rilievi cfr: F. DI BELLA, Storia della tortura, Sugar, Milano, 1961, p. 58.
[5] E. CANTARELLA, La chiamavano Basanos. La tortura nell’antica Grecia, in Criminalia, Pisa, 2012, p. 19.
[6] F. DI BELLA, Storia della tortura, Sugar, Milano, 1961, p. 60.
[7] E. CANTARELLA, La chiamavano Basanos. La tortura nell’antica Grecia, in riv. Criminalia, Pisa, 2012, p. 20 – 22.
[8] E. CANTARELLA, La chiamavano Basanos. La tortura nell’antica Grecia, in  Criminalia, Pisa, 2012, p. 23
[9] Ivi, pp. 24.
[10] Ivi, p. 23.
[11] Ibidem.
[12] F. DI BELLA, Storia della tortura, Sugar, Milano, 1961, p. 60 – 61.
[13] F. DI BELLA, Storia della tortura, Sugar, Milano, 1961, p. 59 – 64.
[14] Ibidem.
[15] Ibidem, F. DI BELLA, Storia della tortura, Sugar, Milano, 1961, p. 59 – 64.
[16]B. INNES, La storia della tortura. Strumenti e protagonisti di una tragica epopea dall’antichità ai giorni nostri, Gremese Editore, Roma,  2009, p. 20 -21.
[17] F. DI BELLA, Storia della tortura, Sugar, Milano, 1961, p. 66- 71.
[18] F. DI BELLA, Storia della tortura, Sugar, Milano, 1961, p. 66- 71.
[19] C. TAMARRO, Fondamento teologico – giuridico della tortura istituita dal decretale Ad Extirpandam di Innocenzo IV (A.D. 1252) nell’ambito del processo inquisitorio medievale, in Angelicum, Roma, 2014, p 203 -321.
[20] Ibidem.
[21] F. DI BELLA, Storia della tortura, Sugar, Milano, 1961, p. 66- 71.
[22] B. INNES, La storia della tortura. Strumenti e protagonisti di una tragica epopea dall’antichità ai giorni nostri, Gremese Editore, Roma, 2009, p. 31 – 32.
[23] Ibidem.  
[24] F. DI BELLA, Storia della tortura, Sugar Milano, 1961, p. 71 – 90.
[25] Ibidem.
[26] Ibidem, F. DI BELLA, Storia della tortura, Sugar Milano, 1961, p. 71 – 90.
[27] C. TAMARRO, Fondamento teologico – giuridico della tortura istituita dal decretale Ad Extirpandam di Innocenzo IV (A.D. 1252) nell’ambito del processo inquisitorio medievale, in Angelicum, Roma, 2014, p. 303 – 321.
[28] C. TAMARRO, Fondamento teologico – giuridico della tortura istituita dal decretale Ad Extirpandam di Innocenzo IV (A.D. 1252) nell’ambito del processo inquisitorio medievale, in Angelicum, Roma, 2014, p. 303 – 321.
[29] Ibidem.
[30] C. TAMARRO, Fondamento teologico – giuridico della tortura istituita dal decretale Ad Extirpandam di Innocenzo IV (A.D. 1252) nell’ambito del processo inquisitorio medievale, in Angelicum, Roma, 2014, p. 303 – 321.
[31] Ibidem.
[32] Ibidem.
[33] C. TAMARRO, Fondamento teologico – giuridico della tortura istituita dal decretale Ad Extirpandam di Innocenzo IV (A.D. 1252) nell’ambito del processo inquisitorio medievale, in Angelicum, Roma, 2014, p. 303 – 321.
[34] C. TAMARRO, Fondamento teologico – giuridico della tortura istituita dal decretale Ad Extirpandam di Innocenzo IV (A.D. 1252) nell’ambito del processo inquisitorio medievale, in Angelicum, Roma, 2014, p. 303 – 321.
[35] Ibidem.
[36] Ibidem.
[37] Ibidem.
[38] C. TAMARRO, Fondamento teologico – giuridico della tortura istituita dal decretale Ad Extirpandam di Innocenzo IV (A.D. 1252) nell’ambito del processo inquisitorio medievale, in  Angelicum, Roma, 2014, p. 303 – 321.

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Veronica Schirripa

Dott.ssa Veronica Schirripa Laureata presso l'Università degli studi di Catania nel 2018 con Tesi sperimentale in diritto penale “Il reato di Tortura tra fonti sovrannazionali e diritto interno" (relatrice: Prof. Rosaria Sicurella). Durante il percorso accademico, la grande passione per i diritti umani e il diritto internazionale l'ha spinta a partecipare ad uno stage al palazzo delle Nazioni Unite (New York) in occasione del CWMUN 2016, organizzato dall'associazione Diplomatici, nella qualità di delegate as Namibia; ad assistere nel 2017 alle discussioni del Parlamento Europeo sul tema della lotta alla criminalità e agli hate speeches. Ha frequentato la Scuola di Specializzazione per le Professioni Legali e Forensi di Catania “A. Galati", conseguendo il Diploma nel 2020 con tesi di Diritto Civile “Gli obblighi del sanitario" (Relatore: prof Giovanni Di Rosa). Durante il percorso post-accademico ha svolto un periodo di stage presso la Procura Generale della Repubblica, presso la sede di Catania. Abilitata all'esercizio della professione forense.

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