Unioni civili e convivenze di fatto. Analisi del quadro normativo vigente

Unioni civili e convivenze di fatto. Analisi del quadro normativo vigente

Sommario: 1. Introduzione – 2. Disciplina delle Unioni Civili – 2.1 L’atto – 2.2 Il rapporto – 3. Disciplina delle Convivenze di fatto – 3.1 I contratti di convivenza – 4. Conclusioni

 

1. Introduzione

Negli ultimi decenni, il concetto di famiglia si è evoluto. Da univoco e facilmente identificabile nelle caratteristiche della c.d. “famiglia tradizionale”, formata da persone eterosessuali e fondata sul vincolo del coniugio, il concetto di famiglia si è differenziato in una pluralità di forme.

L’evoluzione sociale ha comportato, nel tempo, una ineludibile esigenza di riforma dell’ordinamento, sfociata poi in un arduo dibattito politico-sociale, dinanzi ad un legislatore messo in mora sia dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo che dalla Corte Costituzionale, per il ritardo nell’adeguarsi alle norme europee.

La necessità di una legge che disciplinasse le Unioni fra coppie omosessuali e i legami more uxorio apparve ancor più evidente alla luce della sentenza del 21 luglio 2015 pronunciata dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Sentenza, quest’ultima, con cui l’Italia[1] fu condannata per il non giustificabile ritardo nel legiferare in materia di unioni fra coppie dello stesso sesso.

La Corte Edu, in particolare, contestava la non conformità dell’assetto normativo italiano all’art. 8 della Convenzione Europea, secondo cui “ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita privata e familiare”, all’art. 12, secondo cui “uomini e donne hanno il diritto di sposarsi e fare una famiglia”, e all’art. 14, che proibisce discriminazioni di razza, sesso, colore, lingua, religione, opinioni politiche, nazionalità e origini, ricchezza ed “ogni altra condizione”.

L’Italia, nell’adeguarsi ai principi comunitari, con la legge n.76 del 20 Maggio 2016 (c.d. Legge Cirinnà) recante “Regolamentazione delle Unioni Civili fra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze”, ha fornito una disciplina alle coppie same-sex e ai conviventi more uxorio.

In tale scenario, il riferimento normativo sovranazionale che i singoli Stati dell’unione sono chiamati a realizzare si rinviene negli artt. 12 e 8 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, che si riflettono direttamente nell’ordinamento positivo interno in virtù dell’art. 117 Cost. comma 1. Il riferimento sovraordinato interno, invece, si rinviene negli articoli 2 e 3 Cost.

Nonostante l’entrata in vigore della predetta legge rappresenti una rivoluzione per l’ordinamento giuridico italiano, tanto da aver portato diversi interpreti a sancire il passaggio dal “Diritto di Famiglia” al “Diritto delle Famiglie”, non sono pochi gli aspetti che hanno prestato il fianco a critiche.

2. Disciplina delle Unioni Civili

Il DDL Cirinnà, dal nome della prima firmataria Monica Cirinnà, senatrice del Partito Democratico, è stata la prima proposta sulle Unioni civili che, nel marzo 2015, ha superato lo scoglio del voto della Commissione Giustizia del Senato. Lo scontro politico e sociale intorno ad esso ha portato conseguenze anche in tema di equilibri parlamentari, che hanno trovato il culmine in un maxi-emendamento sul quale il Governo Renzi ha posto un voto di fiducia. Il maxi-emendamento ha, in buona parte, recepito il DDL Cirinnà, stralciando dal testo, però, disposizioni fondamentali come quelle relative alla Stepchild Adoption e all’obbligo di fedeltà. Il testo emendato del DDL è confluito in un unico articolo (Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze), suddiviso in 69 commi, dando vita alla L. n 76/2016.

La L. n. 76/2016, al prima comma, prevede l’introduzione nel nostro ordinamento dell’istituto dell’unione civile tra persone dello stesso sesso “quale specifica formazione sociale, ai sensi dell’art. 2 della Costituzione”, posizionandosi entro i limiti imposti dalla Corte Costituzionale, secondo cui è da escludere un riconoscimento giuridico a mente dell’art. 29 Cost., non consentendo, questo, una estensibilità tanto solida da giungere al superamento del presupposto, per il matrimonio, della eterosessualità dei coniugi[2].

Il legislatore, dunque, ha istituito un nuovo modello familiare assimilandolo al modello del matrimonio, ha individuato un comune genus di famiglia e ne ha poi disegnato più species.

È venuta così a crearsi una dicotomia tra la nozione di rapporto che prescinde dalla eterosessualità dei coniugi e la nozione storica, “tradizionale”, coincidente con il matrimonio, che segna attualmente il confine tra l’unione civile, costruita sulla base degli articoli 2 e 3 Cost., ed il matrimonio, che si fonda sull’art. 29 Cost[3].

L’unione civile è privata, del resto, di quella “capacità espansiva” riconosciuta al matrimonio[4], e spiega i suoi effetti limitatamente a coloro che la costituiscono. Il mancato richiamo da parte della legge all’art. 78 c.c. (Affinità), ad esempio, determina, ai sensi dell’art. 1, comma 20, l. n. 76/2016, l’impossibilità di applicare direttamente tale norma agli uniti civilmente, impedendo il sorgere di rapporti di affinità tra le famiglie di origine dei partner.

In realtà, la mancanza del vincolo di affinità, come altre omissioni, mette in luce la differenza tra gli effetti dell’unione civile e quelli del matrimonio.

2.1 L’atto

Il secondo comma della L. n. 76/2016 disciplina le modalità di costituzione dell’Unione Civile, stabilendo che “Due persone maggiorenni dello stesso sesso   costituiscono un’unione civile mediante dichiarazione resa all’ufficiale di stato civile ed alla presenza di due testimoni“.

Oltre a rilevare che l’Unione civile è un istituto riservato alle coppie composte da persone dello stesso sesso[5], l’interprete non può fare a meno di confrontare le disposizioni ivi contenute con quelle relative all’istituto matrimoniale.

Mentre il vincolo di coniugio si perfeziona con una celebrazione solenne, alla quale segue la formalizzazione dell’atto, l’unione civile si costituisce mediante una mera dichiarazione dinanzi all’ufficiale di stato civile in presenza di due testimoni.

Non compare alcuna altra attività positiva propria e la costituzione si sostanzia nella ricezione della dichiarazione da parte dell’Ufficiale di Stato Civile, con tutti gli accertamenti di legalità, anteriori e coevi.

Dalla struttura del procedimento si desume che la costituzione del vincolo si confonde con la redazione dell’atto, ciò in quanto manca una “celebrazione” e la complessa attività preliminare presente nel matrimonio[6].

Si evince, inoltre, un ulteriore requisito essenziale per la valida manifestazione della dichiarazione, posto a pena di nullità, costituito dalla maggiore età delle parti (come parimenti la stessa legge prevede per i contratti di convivenza, v. comma 57), rispetto alla mera annullabilità che invece ricorre per gli atti negoziali sottoscritti dal soggetto in età minore[7]. La legge ha escluso, infatti, qualsiasi possibilità di rogatoria, di dispensa o di autorizzazione per i minori d’età anche se ultra sedicenni, a differenza di ciò che è previsto per l’istituto matrimoniale (cfr. art 84 c.c). Si è prefigurato, dunque, un maggior rigore nella presunzione di capacità all’espressione del consenso, individuando nella maggiore età una maggior consapevolezza delle responsabilità che si vanno ad assumere.

Ai sensi del quarto comma, rappresentano cause impeditive per la costituzione dell’unione civile tra persone dello stesso sesso: la sussistenza, per una delle parti, di un precedente vincolo matrimoniale o di un’unione civile; l’interdizione di una delle parti per infermità di mente; la sussistenza tra le parti di rapporti di parentela, affinità e adozione; la condanna definitiva per omicidio consumato o tentato nei confronti di chi sia coniugato o unito civilmente con l’altra parte. Se è stato disposto soltanto rinvio a giudizio ovvero sentenza di condanna di primo o secondo grado ovvero una misura cautelare, la costituzione dell’unione civile tra persone dello stesso sesso è sospesa sino a quando non è pronunziata sentenza di proscioglimento.

Ai sensi del comma 10 della summenzionata legge, in mancanza di diversa convenzione patrimoniale, il regime patrimoniale dell’unione civile è costituito dalla comunione dei beni.

Il comma 10 dell’art 1., invece, sottolinea come le due parti possano stabilire di assumere un cognome comune (diversamente da quanto previsto dall’art. 143 bis c.c. ai sensi del quale la moglie assume il cognome del marito), scegliendolo fra i loro cognomi. Possono quindi scegliere uno dei cognomi dei partner e di eleggerlo come cognome comune. La parte può inoltre anteporre o posporre al cognome comune il proprio cognome, se diverso, facendone dichiarazione all’Ufficiale di stato civile.

2.2 Il rapporto

In base al contenuto dei commi 11 e 12 dell’art. 1 della L. 76/2016, con la costituzione dell’unione civile, le parti acquistano gli stessi diritti e assumono i medesimi doveri; dall’unione civile deriva l’obbligo reciproco all’assistenza morale e materiale e alla coabitazione. Entrambe le parti sono tenute, ciascuna in relazione alle proprie sostanze e alla propria capacità di lavoro professionale e casalingo, a contribuire ai bisogni comuni.

Le parti concordano tra loro l’indirizzo della vita familiare e fissano la residenza comune; a ciascuna delle parti spetta il potere di attuare l’indirizzo concordato.

Dal tenore letterale dei commi 11 e 12, emerge il principio di parità, che coniuga la libertà e l’individualità dei componenti dell’unione, la rilevanza pubblicistica dello status e l’autonomia negoziale nella costituzione come nell’organizzazione del rapporto relazionale, sia sotto il profilo personale che patrimoniale.

Questa concezione nasce dall’esperienza tratta dalla disciplina del vincolo di coniugio, che è passato da una rigida dimensione pubblicistica[8], alla dimensione della pari dignità incentrata sui valori di autodeterminazione e negozialità[9] del fenomeno familiare. In questa nuova dimensione il quotidiano vivere familiare viene, infatti, affidato alla regola dell’accordo, quale modalità di attuazione del principio di uguaglianza.

Fonte di numerose critiche è stata l’assenza della previsione normativa dell’obbligo di fedeltà.

Occorre sottolineare che la fedeltà, nella disciplina matrimoniale, è legata alla presunzione di paternità ex art. 231 c.c.12, aspetto che non viene in rilievo nell’unione civile.  Tuttavia, ad una lettura attenta della norma non possono sfuggire alcuni richiami al principio di fedeltà: viene in rilievo, a tal proposito, il comma 4 lett. a) che considera impeditivo per la costituzione di un’unione civile la sussistenza per una delle parti di un precedente vincolo matrimoniale o di un’unione civile.

Va sottolineato, inoltre, che per fedeltà non si intende, certo, soltanto quella sessuale[10], in quanto il significato autentico di tale dovere si rinviene in quella esigenza, ben più ampia e complessa, di reciproca lealtà, condivisione, rispetto e dedizione personale, idealità, intimità. È vero, dunque, che nell’unione civile, non è previsto un obbligo di fedeltà in senso stretto, ma l’obbligo di fedeltà non appare revocabile fino al punto di travalicare i crismi dell’equilibrio del vivere comune.

D’altra parte, la giurisprudenza adeguatrice, nell’ambito della separazione dei coniugi, ha ridimensionato l’efficacia dell’infedeltà laddove sia successiva, a livello temporale, rispetto al già logorato rapporto affettivo, attraverso la regola di giudizio secondo cui una tale evenienza è in realtà ininfluente per la declaratoria di addebito[11].

Diversamente dalla disciplina del matrimonio in cui si fa riferimento ai bisogni della “famiglia”, il comma 11 cita i “bisogni comuni”, si tratta di un dato singolare se si prende in esame il comma successivo: ai sensi del comma 12, che riproduce in parte la formulazione dell’art. 144 c.c.11, le parti concordano tra loro l’indirizzo della vita familiare e fissano la residenza comune. Viene in questo caso utilizzata la parola “familiare”, evitata nel comma precedente, tuttavia non vengono letteralmente riprodotte le parole dell’art. 144 c.c., relativo al matrimonio, nel quale viene evidenziato come i coniugi devono considerare le esigenze preminenti della famiglia stessa. Sembrerebbe quindi che l’Unione civile sia una istituzione che prescinde dagli interessi dei singoli e che non concerne, in nuce, i rapporti di filiazione.

Il comma 20 recita “ Al solo fine di assicurare l’effettività della tutela dei diritti e il pieno adempimento degli ob­blighi derivanti dall’unione civile tra persone dello stesso sesso, le disposizioni che si riferiscono al matrimonio e le disposizioni contenenti le parole «coniuge», «coniugi» o termini equivalenti, ovunque ricorrono nelle leggi, negli atti aventi forza di legge, nei regolamenti nonché negli atti amministrativi e nei contratti collettivi, si applicano anche ad ognuna delle parti dell’unione civile tra persone dello stesso sesso. La disposizione di cui al periodo precedente non si applica alle nor­me del codice civile non richiamate espressamente nella presente legge, nonché alle disposizioni di cui alla legge 4 maggio 1983, n. 184. Resta fermo quanto previsto e consentito in materia di adozione dalle norme vigenti”.

Dalla chiara indicazione contenuta nell’ultima parte del comma 20 si ricava che alle unioni civili non si applicano le disposizioni sull’adozione dei minori contenute nella legge 4 maggio 1983 n. 184, mentre trovano certamente applicazione le norme sull’adozione dei maggiorenni[12] contenute nel codice civile.

L’adozione dei minori nell’iter di formazione della legge ha attirato fortemente l’attenzione dell’opinione pubblica ed è stata al centro di un forte dibattito parlamentare, subendo più di altri temi il condizionamento di convinzioni politiche, ideologiche e culturali. Per tali ragioni, il legislatore ha preferito non contemplare l’applicazione delle norme in materia di adozione, così da poter ottenere l’introduzione delle unioni civili e la disciplina delle convivenze. Allo stesso modo, sono state stralciate dal testo originario del DDL Cirinnà, con il maxiemendamento, le norme relative alla cosiddetta “Stepchild adoption”, ossia l’adozione del figlio del partner. Va rilevato però, che tale ipotesi non resta comunque completamente esclusa, poiché restano applicabili le norme di cui all’art. 44 lett. d) della L. 4 maggio 1983, n. 184, Titolo IV, Capo I (Dell’adozione in casi particolari e dei suoi effetti).

La previsione normativa di cui all’art. 44 lett. d) L. n. 184 del 1983, enuncia un’ipotesi di adozione caratterizzata dall’impossibilità dell’affidamento preadottivo e in deroga alla adozione legittimante, che contempla la rottura del rapporto con la famiglia di origine. L’anzidetta previsione normativa si riferisce sia ai casi in cui il minore non abbia trovato sin dall’origine una coppia disponibile e quindi non abbia mai avuto un affida­mento preadottivo, sia agli altri casi in cui il disposto affidamento sia stato interrotto successivamente, sia ai casi residuali in cui, non essendo stato dichiarato lo stato di adottabilità, si siano instaurati comunque dei rapporti stabili tra il minore e l’aspirante all’adozione di cui il legislatore ha voluto favorire il consolidamento, prevedendo la possibilità di un’adozione idonea ad evitare la rescissione di quel legame che, per il minore, costituirebbe un evento traumatico grave.

L’interesse del minore consentirebbe, quindi, di escludere l’interpretazione letterale della norma. L’art. 44 lett. d) presuppone non una situazione di abbandono dell’adottando, ma solo l’impossibilità di affidamento preadottivo, e costituisce il perno per l’adozione del figlio minore del partner. L’esclusione della stepchild adoption è con­trobilanciata, infatti, dalla giurisprudenza[13] che, guardando all’art. 44 della legge 184 del 1983 (adozione in casi particolari), ha enucleato il principio secondo cui la Stepchild adoption può essere ammessa sempreché, alla luce di una rigorosa indagine di fatto svolta dal giudice, realizzi effettivamente il preminente interesse del minore.

Il comma 13 disciplina il regime patrimoniale dell’unione civile, la sorte successiva, i limiti di deroga abilità dei diritti e dei doveri, nonché gli istituti del fondo patrimoniale, della comunione legale, della comunione convenzionale, della separazione dei beni e dell’impresa familiare. Il modello del regime patrimoniale della famiglia retta del vincolo dell’unione civile, al pari del matrimonio[14], è quello della comunione legale dei beni[15], di cui agli artt. 159 e 177 ss. c.c., che si instaura automaticamente all’atto costitutivo, ma è derogabile attraverso diversa convenzione patrimoniale. Ciò comporta la piena conferma dell’ispirazione legislativa nella famiglia fondata sul matrimonio, risalente al 1975 (nonostante la diffusa deroga al modello legale, da tempo prevalendo statisticamente, tra i coniugi, il regime della separazione dei beni di cui all’art. 215 c.c.), volta a realizzare quella partecipazione egualitaria e solidaristica alle sostanze patrimoniali acquisite in costanza del vincolo familiare, in sintonia con la parità morale e giuridica dei partners.

La Legge 76/2016 non prevede all’art. 1, commi 22, 23, 24, 25 un periodo di separazione, equiparabile a quello di separazione fra coniugi, ma introduce piuttosto la possibilità di addivenire allo scioglimento.

Il comma 24 dell’art. 1 della Legge stabilisce che l’Unione civile si scioglie quando una o due delle parti manifestano il desiderio di cessare, anche disgiuntamente, la loro unione, recandosi allo Stato Civile.

l procedimento di scioglimento giudiziale può iniziare solo dopo che siano decorsi tre mesi dalla comunicazione all’Ufficiale di stato civile della volontà di procedere con lo scioglimento dell’unione.

Trascorso detto termine, è possibile depositare il ricorso e notificarlo all’altra parte così che il Giudice possa decidere sulle domande proposte.

Lo scioglimento giudiziale potrà essere trasformato in congiunto anche dopo l’inizio della causa, nel caso in cui le parti trovino un accordo. In mancanza la causa procederà come un normale processo civile.

Infine, non essendo citato l’art. 3 n. 2, lett. b della L. 1°Dicembre 1970, n.89813, lo stato di separazione di fatto, diversamente dalla disciplina del matrimonio, non costituisce vincolo necessario per lo scioglimento.

Lo scioglimento dell’unione civile comporta il venir meno dei diritti e doveri nascenti dall’unione, compreso l’utilizzo del cognome del partner, nonché la possibilità per le parti di contrarre nuovamente matrimonio o unione civile.

Trova applicazione la disciplina degli artt. 4 e 5 della L., n. 898/1970, pertanto, con la sentenza che pronuncia lo scioglimento, il Tribunale, tenuto conto delle condizioni delle parti, delle ragioni della decisione, del contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune, del reddito di entrambi, e valutati tutti i suddetti elementi anche in rapporto alla durata dell’unione civile, dispone, come nella disciplina del matrimonio, l’obbligo per una parte di somministrare periodicamente a favore dell’altra un assegno, qualora quest’ultima non  disponga mezzi adeguati o comunque non può procurarseli per ragioni oggettive.

Il comma 21 regola i diritti di successione della parte dell’unione civile, cui viene attribuita la veste di erede legittimario, con richiamo della normativa prefigurata sul punto nel codice civile. La garanzia patrimoniale per la parte che sopravvive è solida, anche in assenza di testamento. Infatti, l’integrale richiamo delle disposizioni codicistiche in materia successoria, in sostanza equipara la parte dell’unione civile tra persone dello stesso sesso al coniuge, quanto ai diritti successori.

L’art. 1 comma 20, la legge 76/2016 rinvia alle leggi speciali riferite al rapporto coniugale: “al solo fine di  assicurare  l’effettività  della  tutela  dei diritti e il pieno adempimento degli obblighi  derivanti  dall’unione civile tra  persone  dello  stesso  sesso,  le  disposizioni  che  si riferiscono al matrimonio e  le  disposizioni  contenenti  le  parole «coniuge», «coniugi» o termini equivalenti, ovunque  ricorrono  nelle leggi, negli atti aventi forza  di  legge,  nei  regolamenti  nonché negli atti amministrativi e nei contratti  collettivi,  si  applicano anche ad ognuna delle parti  dell’unione  civile  tra  persone  dello stesso sesso. Inoltre, ai sensi del comma 21, si applicano le disposizioni previste dal capo III e dal capo X del titolo I, dal titolo II e dal capo II e dal capo V-bis del titolo IV del libro secondo del codice civile.”

3. Disciplina delle Convivenze di fatto

Per quanto riguarda le Convivenze di fatto, anche definite convivenze more uxorio, la regolamentazione attualmente vigente è contenuta nell’art. 1 della Legge 76/2016 dal comma 36 al comma 65, che non pongono alcuna differenziazione tra coppie eterosessuali e coppie omosessuali.

La legislazione in materia è stata elaborata molto tardi in Italia, per due ordini di motivi: da un lato le convivenze more uxorio venivano considerate l’esplicazione dell’esercizio del diritto inviolabile di vivere liberamente una condizione di coppia, senza l’ingerenza del legislatore, dall’altro, perché l’introduzione di una disciplina per le coppie conviventi avrebbe determinato un vulnus al modello costituzionale di famiglia tradizionale, dettata dalla disciplina del matrimonio civile.

Gli approdi ermeneutici ai quali sono pervenute dottrina e giurisprudenza consentono oggi di non contestare più a convivenza di fatto il carattere di formazione sociale, come tale rientrante nella sfera di tutela rappresentata dall’art. 2 della nostra carta costituzionale[16].

Ai sensi dell’art. 1, comma 36, della legge 76/2016, i conviventi di fatto sono due persone maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale, non vincolate da rapporti di parentela, affinità o adozione, da matrimonio o da un’unione civile.

Ai fini del riconoscimento di una formazione sociale come convivenza di fatto non è richiesto, quindi, un atto costitutivo, bensì la sussistenza di un legame affettivo di coppia, nonché del requisito della reciproca assistenza morale delle parti.

Il legislatore, con la previsione di tali requisiti, non ha inteso far discendere, dalla nascita di una convivenza, l’obbligo giuridico di cui all’art. 143 c.c.3, bensì ha semplicemente posto i criteri per ricondurre una situazione di fatto alla nozione di convivenza di fatto.

In diverse arresti[17], la Suprema Corte ha sottolineato la differenza ontologica che sussiste tra il rapporto di coniugio e la convivenza more uxorio; quest’ultima, secondo la Suprema Corte, si sostanza in un rapporto di fatto privo dei caratteri di stabilità o certezza e della reciprocità e corrispettività dei diritti e doveri previsti dagli artt. 143 e ss. del codice civile, che nascono soltanto nell’ambito del matrimonio e sono propri solo della famiglia legittima.

Il comma 37 precisa che, ferma restando la sussistenza dei presupposti di cui al comma 36, per l’accertamento della stabile convivenza si fa riferimento alla dichiarazione anagrafica di cui all’art. 13 di cui al decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 1989, n. 223.

Tale norma riconosce la possibilità di formalizzare davanti alla legge la convivenza di fatto, effettuando una dichiarazione all’anagrafe del Comune di residenza.

Tuttavia, va chiarito che tale dichiarazione è strumento di prova e non anche elemento costitutivo della convivenza di fatto[18]. Infatti, le convivenze di fatto non devono essere obbligatoriamente registrate all’anagrafe. In quest’ultimo caso, si parlerà di convivenza di fatto non formalizzata e i due conviventi costituiranno una convivenza di fatto senza la possibilità di godere dei diritti riconosciuti alle coppie formalmente registrate.

La registrazione anagrafica della convivenza risulta comunque un utile strumento al fine di definire giuridicamente il momento in cui la coppia inizia ad essere titolare di alcuni diritti che la L. 76/2016 riconosce, in base alla durata del rapporto.

Il comma 42 dell’art. 1 della medesima Legge, riconosce per esempio, in caso di morte del proprietario della casa di comune residenza, che il convivente di fatto superstite abbia diritto di continuare ad abitare nella stessa per due anni o per un periodo pari alla convivenza se superiore a due anni e, comunque, non oltre i cinque anni. Inoltre, prevede che laddove nella casa di comune residenza coabitino figli minori o figli disabili del convivente superstite, il medesimo abbia il diritto di continuare ad abitarvi per un periodo non inferiore a tre anni.

Il comma 65 sancisce che gli alimenti a favore di chi versa in stato di bisogno, in caso di cessazione della convivenza, di fatto sono assegnati per un periodo proporzionale alla durata della convivenza e nella misura determinata ai sensi dell’art. 438 c.c., secondo comma.

Ai sensi della summenzionata legge, i conviventi di fatto hanno gli stessi diritti spettanti al coniuge nei casi previsti dall’ordinamento penitenziario. Possono, ad esempio, avere colloqui con il detenuto.

In caso di malattia o di ricovero, i conviventi di fatto  hanno diritto reciproco di visita, di assistenza, nonché di accesso  alle informazioni sanitarie; ciascuno, di fatto, può designare, con atto scritto e autografo, l’altro convivente quale suo rappresentante con poteri pieni o limitati, sia in caso di malattia che comporta incapacità di intendere e di volere – per le decisioni in materia di salute – sia in caso di morte – per la donazione di organi – le modalità di trattamento del corpo e le celebrazioni funerarie.

3.1 I contratti di convivenza

I conviventi more uxorio possono anche sottoscrivere un contratto di convivenza e disciplinare così i loro rapporti patrimoniali (art. 1, comma 50, L. 76/2016). Il contratto non ha efficacia costitutiva della convivenza di fatto, ma rappresenta una facoltà dei conviventi.

Secondo l’art. 1, comma 54, L. 76/2016, il contratto, le sue modifiche e la sua eventuale risoluzione, pena la nullità, devono essere redatti in forma scritta, con atto pubblico o scrittura privata autenticata da un notaio o da un avvocato, che ne attestino la conformità alle norme imperative e all’ordine pubblico.

Ai fini dell’opponibilità ai terzi, il notaio o l’avvocato che ha ricevuto l’atto deve trasmetterne copia, entro i successivi 10 giorni, al comune di residenza dei conviventi per l’iscrizione all’anagrafe (art. 1, comma 52, L. 76/2016), conformemente al regolamento anagrafico della popolazione residente e ai sensi degli articoli 5 e 75 del regolamento di cui al DPR n. 223/1989.

Il comma 53 descrive il potenziale contenuto del contratto di convivenza stabilendo che, nel contratto di convivenza, le parti, oltre ad indicare la residenza, possono individuare le modalità di contribuzione alle necessità della vita in comune, in relazione alle sostanze di ciascuno e alla capacità di lavoro professionale o casalingo, nonché individuare il regime patrimoniale della comunione dei beni, che può essere modificato in qualunque momento nel corso della convivenza.

Ai sensi dell’art. 1, comma 56, L. 76/2016, il contratto di convivenza non può essere sottoposto a termine o condizione e può sciogliersi, per accordo delle parti, per volontà unilaterale, matrimonio o unione civile tra i conviventi, o tra un convivente ed altra persona, infine, può sciogliersi per morte di uno dei contraenti (art. 1, comma 59, L. 76/2016)

La Legge Cirinnà non contempla una disciplina successoria delle coppie more uxorio.  Per i conviventi non sono previsti diritti successori e i conviventi posso ovviare al vuoto normativo ricorrendo al testamento, sempre nel rispetto della quota di legittima degli eredi.

La Legge 76/2017 prevede come una forma di tutela per il convivente superstite, stabilendo all’art. 1, comma 42, che in caso di morte del proprietario della casa di comune residenza, il convivente di fatto superstite ha il diritto di continuare ad abitare nella stessa per due anni o per un periodo pari alla convivenza se superiore a due anni e comunque non oltre i cinque anni. Qualora nella stessa coabitino figli minori o figli disabili del convivente superstite, il medesimo ha diritto di continuare ad abitare nella casa di comune residenza per un periodo non inferiore a tre anni e, decorso tale lasso di tempo, l’immobile deve essere restituito all’erede.

I diritti del convivente superstite cessano nel caso in cui smetta di abitare stabilmente nella casa di comune residenza o in caso di matrimonio, di unione civile o di nuova convivenza di fatto.

4. Conclusioni

Come può evincersi dal quadro normativo sopra esposto, la L. 76/2016 costituisce una sintesi nata dal compromesso tra diversi orientamenti di tipo politico, etico e giuridico.

Tuttavia, compito dello Stato, di fronte alla continua evoluzione sociale, è quello di adeguare la normativa alle esigenze della popolazione, guardando ai principi riconosciuti dalla Costituzione.

Durante i lavori dell’assemblea costituente, acceso fu il confronto sull’art 29 Cost[19], che diede vita all’espressione “società naturale”[20], per la qualificazione dell’istituto del matrimonio.

L’accordo a cui si giunse evidenziò la preesistenza della famiglia rispetto allo Stato, ma non portò ad una pacifica definizione di famiglia. Successivamente, infatti, venne rilevata una contraddizione tra le formulazioni “società naturale” e “fondata sul matrimonio”. Un accostamento che vacillava dal punto di vista logico, poiché venne posto alla base dell’idea di società naturale, proveniente dal diritto naturale, il matrimonio, che è un istituto di diritto positivo. Parlare di una società naturale che sorge da un negozio giuridico è, effettivamente, una contraddizione in termini.

Nonostante ciò, è grazie alla formulazione “società naturale” che, attualmente, si è giunti in dottrina ad un concetto di “famiglia” svincolato dal matrimonio. Del resto, attraverso un’interpretazione giusnaturalistica, la famiglia è fondata su valori e principi posti al di sopra dell’ordinamento statale. Si può dunque affermare che la famiglia, in quanto tale, non è un concetto cristallizzato, ma anzi evolve di pari passo con la società e con il modificarsi, nel tempo, delle concezioni che di essa si riscontrano[21].

 

 

 

 

 


[1] Corte Edu Sent.  21-07-2015 (ricorsi nn. 18766/11 36030/11).
[2] Corte Cost. Sent. n. 138/2010.
[3]FERNANDO G., Il matrimonio, in Trattato dir. civ. comm. CICU-MESSINEO-SHELESINGER, Milano, 2015, p. 194 ss.;
[4]R RENDA A., Il matrimonio civile. Una teoria neo-istituzionale, Milano, 2013, p. 311 ss;
[5]VITALI R., Il matrimonio civile, in Trattato BONILINI-CATTANEO, Famiglia e matrimonio, Torino, 2007, I, p. 119.
[6] Cfr. GIACOBBE E., cit, p.138 ss.
[7] BUSNELLI F. D. Capacità ed incapacità di agire del minore, in Dir.fam.pers., 1982, p.64; DI SABATO F., Il contratto del minore tra incapacità di contrarre e capacità di consumare, in Riv. Dir. Impr., 2011, p. 75; SCAGLIONE F., Ascolto, capacità e legittimazione del minore, in La parificazione degli status di filiazione, Atti del convegno di Assisi 24-25 maggio 2013, a cura di CIPPITANI R.-STEFANELLI S., Roma-Perugia, 2013, p.276
[8] CICU A., Il diritto di famiglia. Teoria generale, ristampa con lettura di SESTA M., Bologna, 1978, p. 239.
[9] ZOPPINI A., L’autonomia privata nel diritto di famiglia, sessant’anni dopo, in Riv. dir. civ., 2002, p.226; RUSCELLO F., Accordi sulla crisi della famiglia e autonomia negoziale, Padova, 2006, p. 17. ss; ANDRINI M. C., L’autonomia privata dei coniugi tra status e contratto, Torino, 2006, p. 5 ss; TOMMASEO F., La gestione dei conflitti coniugali tra autonomia privata e giurisdizione, in Fam. dir., 2015, p. 1053. Cfr., tuttavia, DONISI C., Limiti all’autoregolazione degli interessi nel diritto di famiglia, in Rass. dir. civ., 1997, p.494.
[10] Vi è un’ampia bibliografia in merito a questo primo dovere coniugale; tra i recenti contributi, v., PARADISO M., I rapporti personali tra i coniugi, cit., p. 59, GIACOBE E., Il matrimonio. L’atto e il rapporto, cit., p. 695; RUSCELLO F., I diritti e doveri nascenti dal matrimonio, in Trattato dir. fam. ZATTI, Milano, 20011, I, p. 1028; SESTA M., Codice della famiglia, Milano, 2009, I, p.416. FERRARI M., Gli accordi relativi ai diritti e doveri reciproci dei coniugi, in Rass. dir. civ., 1994, p.776. LAGOMARISANO G., L’esclusione della fedeltà coniugale prima e dopo la riforma del diritto di famiglia, con riferimento all’esclusione canonica della fedeltà nel nostro ordinamento, in Dir. fam. pers., 2015, p.719.
[11] Cass., 14 Febbraio 2012 n. 2059, in Corr. giur., 2012, p. 645, con nota di DE MARZO G., Domanda di addebito e distribuzione degli oneri probatori; ma cfr. anche, Cass., 5 febbraio 2008 n.2740, in Nuov. giur. civ. comm., 2008, n. 1220, con nota di OLIVERO L., Riparazioni in casa, separazione di fatto di addebito.
[12] DOGLIOTTI M., Adozione di maggiorenni e minori, artt. 291-314, in Commentario cod.civ., SCHLESINGER-BUSNELLI, Milano, 2002.
[13] Cass. n. 12962 del 26 maggio 2016
[14] A differenza della convivenza di fatto ove l’opzione è invece rimessa l’autonomia negoziale: v. comma 53, lett. c).
[15] OBERTO G., La comunione legale tra coniugi, in Trattato dir. Civ. comm. CICU-MESSINEO-MENGONI-SCHLESINGER, Milano, 2010, p. 365.
[16] BARBERA A., Sub art. 2. Cost., in Comm. Cost. Branca, Bologna-Roma, 1975, p. 80 ss. ;  DOGLIOTTI M, Sulla unificazione giuridica della famiglia di fatto. Spunti, questioni, prospettive, In Giur.it, 1980, I, p. 345 ss.  Per  la giurisprudenza costituzionale, invece, Corte Cost., 18 Novembre 1986, n. 237, in Giur.it, 1987, l, p. 1960; Corte Cost., 26 Maggio 1989, n. 310, in Giust civ., 1989,  p. 1782 I, e più di recente, Corte Cost., 30 Luglio 2008, n. 308, in Nuova giur. civ. comm., 2008, I., p. 1411.
[17] Tra cui ricordiamo, Cass. nn. 310/ 1989, 8/1996, 127/1997 e 2/1998, rinvenibili in Giur.it.
[18] Trib. Milano, sez. IX civ, ordinanza 31 maggio 2016, in Rivistafamilia.it
[19] Art. 29 Cost.: La Costituzione riconosce i diritti della famiglia quale società naturale fondata sul matrimonio “
[20] ASPREA S., La famiglia di fatto, Milano, 2009, p.11 “L’attuale art 29 è stato il frutto di un forte contrasto tra forze cattoliche tra i cui esponenti possiamo ricordare Aldo Moro, e forze social-comuniste alle quali prese parte Piero Calamandrei. Per Calamandrei non potrebbe essere concepita una società naturale che esiste grazie al consenso di due soggetti privati e alla celebrazione di un rito religioso. Sostanzialmente non ha niente di naturale una società tra un uomo e una donna che nasce da un atto formale, da un negozio. La definizione contenuta nell’art 29 è stata quindi condizionata dall’orientamento dei costituenti cattolici come Moro che non solo avrebbero posto alla base dell’unione familiare il matrimonio come istituto giuridico, ma anche la legge divina.”
[21] CASABURI G., GRIMALDI I. AA. VV., Unioni civili e convivenze, Pisa, 2016, p.14 “È pertanto possibile sostenere che la Costituzione ponga una norma “in bianco”, che perciò stesso rimanda al costume e alla coscienza sociale, che il legislatore dovrà dunque rispettare e alla cui evoluzione dovrà conformarsi. In definitiva la famiglia è perciò “naturale”, in quanto peculiare aggregazione affettivo-solidale di due persone ed espressione di un’esigenza oltremodo diffusa e connaturata alla volontà di realizzazione personale dei suoi componenti

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