Università e P.A.: bilanciamento tra interessi pubblici e competizione privata

Università e P.A.: bilanciamento tra interessi pubblici e competizione privata

Introduzione

Parlare di università statale quale realtà del complesso sistema della Pubblica Amministrazione solleva alcune riflessioni in merito alla peculiare natura di questo particolare Ente rispetto al complesso degli Enti pubblici tra i quali viene annoverato.

Muovendo quindi da una definizione della Scienza dell’amministrazione e da una considerazione sull’opportunità di riferirsi alla stessa quale “disciplina al plurale”, sia poiché beneficia degli apporti di aree disciplinari diverse, sia per la varietà di pubbliche amministrazioni di cui tale scienza si occupa, si vogliono evidenziare i principi in ossequio ai quali l’azione degli atenei si concretizza.

Verrà enfatizzato il concetto secondo cui le realtà accademiche, pur rientrando a pieno titolo nel novero degli Enti pubblici ed essendo pertanto tenute al perseguimento di obiettivi di pubblico interesse e a operare nel rispetto sia di principi generali di amministrazione pubblica, sia di principi propri di un Ente di formazione e pertanto orientati allo sviluppo civile, culturale e scientifico della comunità, nonché alla produzione e trasmissione di conoscenza, sono comunque assoggettate ad alcune regole del libero mercato.

Rilevando quelle che costituiscono le fonti di finanziamento delle università e specificando che in parte sono di provenienza statale (specificando che solo una porzione di tali fondi sono a quota fissa, mentre per il resto vengono erogati in forma premiale) e per il resto dipendono dalla capacità del singolo ateneo di produrre e comunicare alti standard di qualità, elemento di richiamo per potenziali studenti iscritti (e pertanto portatori di introiti sotto forma di tasse universitarie) e potenziali investitori privati, si arriverà alle riflessioni finali sul ruolo che una istituzione formativa dovrebbe oggi avere nel bilanciamento tra interessi pubblici e privati, anche attraverso l’utilizzo di strumenti tipici dell’economia concorrenziale.

Capitolo 1

Scienze dell’amministrazione e Università

Sommario: 1.1 La scienza o le scienze dell’amministrazione? – 1.2 Gli atenei nel quadro delle pubbliche amministrazioni – 1.3 Principi e obiettivi delle università

1.1 La scienza o le scienze dell’amministrazione?

L’enciclopedia TRECCANI riporta la seguente definizione di Scienza dell’amministrazione:

«Parte della scienza politica, la scienza dell’amministrazione studia, con il contributo essenziale delle discipline giuridiche, la pubblica amministrazione in quanto attività di governo, con particolare riferimento alla struttura burocratica, ai suoi ruoli e alle sue funzioni nell’ambito del sistema politico. Il suo campo d’indagine include pertanto le motivazioni e la condotta degli individui preposti all’attività di amministrazione gli aspetti istituzionali e organizzativi degli apparati amministrativi, i rapporti fra il sistema politico e il suo subsistema amministrativo, nonché fra questo e l’ambiente sociale nel suo complesso.»1

Se ne rileva che la Scienza dell’amministrazione riconosce come suo nucleo fondamentale non soltanto la normativa che regola il funzionamento dello Stato e dei suoi apparati, ma più specificamente e più dettagliatamente anche le ragioni che sottendono ai comportamenti di coloro che, in veste politica o più squisitamente amministrativa, sono stati chiamati, dal sistema democratico e concorsuale, a governare il funzionamento della macchina gestionale degli interessi pubblici.

In tale contesto, si ritiene doveroso definire il diritto amministrativo e ricordare sinteticamente la strutturazione delle fonti del diritto nel cui ambito la Scienza dell’amministrazione opera.

Il diritto amministrativo è quel ramo del diritto pubblico che regola i rapporti tra i cittadini e la Pubblica Amministrazione (P.A.), nonché i mezzi e le forme con cui essa persegue i suoi fini. Più in generale, il diritto amministrativo è quella branca del diritto che regola la funzione amministrativa, ossia l’attività che lo Stato e gli altri enti pubblici pongono in essere per provvedere alla realizzazione degli interessi pubblici.

Al vertice della gerarchia delle fonti si collocano la Costituzione e le leggi costituzionali. Immediatamente al di sotto vi sono le leggi ordinarie e gli atti aventi forza di legge, considerati nell’insieme fonti primarie. In ultimo si collocano i regolamenti, le ordinanze, le circolari e le consuetudini, considerati nell’insieme fonti secondarie.

La P.A. si compone di Enti pubblici. Un ente pubblico è una persona giuridica creata secondo norme di diritto pubblico, attraverso cui la pubblica amministrazione svolge la sua funzione amministrativa. Gli enti pubblici si contrappongono, quindi, alle persone giuridiche create secondo norme di diritto privato, che sono per lo più destinate a perseguire interessi di carattere privato ed economico.

Gli enti pubblici nel loro complesso, nello svolgimento dell’attività amministrativa cui sono chiamati, si devono conformare a principi costituzionali, così come a quelli stabiliti dalle leggi ordinarie dello Stato. Si richiamano brevemente il principio di legalità, buon andamento e imparzialità (art. 97 Cost.), di responsabilità (art. 28 Cost.) del decentramento amministrativo e della tutela delle autonomie locali (art. 5 Cost.), di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza (art. 118 Cost.), di azionabilità delle situazioni giuridiche dei cittadini contro la P.A. (art. 24 Cost.), di pubblicità, trasparenza e del diritto all’accesso al procedimento amministrativo (L. 241/1990 e s.m.i.), di sindacabilità degli atti amministrativi (art. 113 Cost.).

Tuttavia, non ritenendo questa la sede ove dettagliare le fonti e i principi del diritto amministrativo e dell’azione della P.A, si vuole proseguire l’analisi con riflessioni che muovono dalla consapevolezza della complessa articolazione della materia amministrativa. Si rileva infatti come tale ampiezza abbia spinto alcuni studiosi a ripensare al concetto di “Scienza dell’amministrazione” come disciplina “al plurale”, che beneficia degli apporti di aree disciplinari diverse, come le scienze giuridiche, le scienze sociologiche, le scienze politologiche, le scienze economiche e aziendali

È il caso dell’opera «La pubblica amministrazione e la sua scienza»2, che enfatizza il concetto secondo cui «l’oggetto della scienza dell’amministrazione non è costituito “dalla” pubblica amministrazione, ma “dalle” pubbliche amministrazioni»3. Tale pluralità delle pubbliche amministrazioni implica anche una loro grande “varietà”, al punto che in alcuni casi le differenze, pur se all’interno del medesimo settore pubblico, possono risultare persino maggiori delle somiglianze. Inoltre, «la vecchia idea di uno scenario costituito da due soli settori, quello pubblico e quello privato, e con esso l’idea della dicotomia stato/imprese, ha lasciato il posto ad uno ‘spazio’ circolare abitato da tantissime organizzazioni complesse con tale varietà e tale ricchezza da risultare oggi del tutto sfumate molte delle differenze che un tempo autorizzavano ad alzare steccati tra pubblico e privato». Questo nuovo scenario rappresenta una «’arena’ dove organizzazioni complesse diverse, fra cui le stesse pubbliche amministrazioni, concorrono e si contendono la permanenza sul mercato in una situazione generale di limitatezza di risorse»4.

1.2 Gli atenei nel quadro delle pubbliche amministrazioni

Sulla base del Sistema europeo dei conti nazionali e regionali (Sec95)5, l’ISTAT (Istituto nazionale di statistica)6 predispone l’elenco delle unità istituzionali che fanno parte del settore delle Amministrazioni Pubbliche (Settore S13), i cui conti concorrono alla costruzione del Conto economico consolidato delle Amministrazioni Pubbliche. Ai sensi dell’art. 1, comma 3 della legge 31 dicembre 2009, n.196 (“Legge di contabilità e di finanza pubblica”) e successive modifiche e integrazioni, l’Istat è tenuto, con proprio provvedimento, a pubblicare annualmente tale lista sulla Gazzetta Ufficiale.

L’elenco di più recente aggiornamento è stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale – Serie Generale n. 229 del 30 settembre 20137. Da esso si evince come il panorama delle pubbliche amministrazioni sia vasto e complesso, passando dalle amministrazioni centrali a quelle locali, fino agli enti nazionali di previdenza e assistenza.

Le Università sono inserite nel computo delle amministrazioni locali, nel medesimo raggruppamento delle Regioni, degli altri enti locali e delle Camere di commercio.

Le realtà accademiche, così come le altre amministrazioni pubbliche, sono tenute a svolgere la propria attività nel rispetto dei principi ricordati al precedente paragrafo, al pari degli Enti ricompresi nel raggruppamento comune, così come negli altri.

La particolarità degli Atenei, però, risiede in un ulteriore particolare principio che li caratterizza, in virtù dell’articolo 33 della Carta Costituzionale, che al primo comma recita che «L’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento» e al successivo sesto comma specifica inoltre che «Le istituzioni di alta cultura, università ed accademie, hanno il diritto di darsi ordinamenti autonomi nei limiti stabiliti dalle leggi dello Stato». Il principio fondante di quella che viene denominata “legislazione universitaria”, pertanto, è rilevabile proprio nell’autonomia.

Ciò si concretizza in primis nell’autonomia regolamentare, funzionale, didattica, scientifica, organizzativa, finanziaria e contabile, che pertanto comportano una potenziale differenziazione di autoregolamentazione tra diversi Atenei, pur se in ossequio ai principi generali e alle leggi dello Stato di cui sopra. Conseguentemente, ogni Ateneo adotta il proprio Statuto e i propri regolamenti interni, i quali presentano elementi di originalità per ogni singola realtà accademica, pertanto con elementi di difformità sul territorio nazionale.

Ne risulta che il comparto dell’Università «è uno di quelli della pubblica amministrazione investito maggiormente dal processo di delegificazione: processo che ha favorito la nascita di un’intensa attività regolamentare da parte dei singoli Atenei e la crescita consequenziale di una fitta rete normativa»8. Tanto che «operare all’interno di un Ateneo, quale che sia il ruolo ricoperto nella relativa organizzazione, significa anzitutto conoscere il fitto tessuto di norme e regole che ai vari livelli delle fonti del diritto ne disciplinano il funzionamento»9.

Va di contro evidenziato che non è sempre stato così, infatti inizialmente si riscontrava un forte indirizzo centralista e statalista del sistema universitario italiano disegnato dalla riforma Gentile10 .

Tale forte indirizzo centralista ha caratterizzato anche l’epoca repubblicana fino alla fine degli anni Ottanta, quando venne in parte mitigato dal progressivo riconoscimento dell’autonomia delle università, già da tempo disposta dall’articolo 33 della Costituzione. L’autonomia fu resa possibile in via legislativa in tre passi successivi: prima con il riconoscimento agli atenei dell’autonomia statutaria e regolamentare (mediante la legge n. 168 del 1989), poi con il riconoscimento dell’autonomia didattica (mediante la legge n. 341 del 1990) e infine con il riconoscimento dell’autonomia finanziaria (mediante la legge n. 537 del 1993).

Negli anni successivi, tuttavia, non poche università hanno “abusato” dei loro diritti di autonomia, ad esempio moltiplicando eccessivamente le sedi universitarie distaccate, attivando un numero sovrabbondante di corsi di laurea, etc. Successivamente il Parlamento ha perciò ritenuto necessario un ulteriore riordino del sistema universitario, attuato con la legge n. 240 del 2010, che tra le altre cose ha introdotto per le università l’obbligo di una governance duale (Consiglio di amministrazione e Rettore) prevedendo inoltre un generale ricorso a procedure di valutazione del funzionamento degli atenei (tramite l’ANVUR) e degli stessi docenti.

Per comprendere gli elementi che hanno portato a tale evoluzione è importante ricordare brevemente che il sistema universitario italiano è andato incontro a dei profondi mutamenti in seguito all’adesione al cosiddetto “Processo di Bologna”11, una riforma internazionale dei sistemi di istruzione superiore dell’Unione Europea che si proponeva di realizzare, entro il 2010, lo Spazio europeo dell’istruzione superiore.
Fondando le sue basi su accordi e trattati precedenti, è iniziato nel 1999, dopo l’incontro di 29 ministri dell’istruzione europei a Bologna e la sottoscrizione di un accordo noto come la dichiarazione di Bologna.

Tali cambiamenti hanno riguardato, essenzialmente, la costituzione di uno spazio europeo dell’istruzione superiore con l’obiettivo di armonizzare, a livello dei vari Stati, sia le architetture dei percorsi formativi dell’alta formazione, sia i principali obiettivi dei diversi cicli di studi. A distanza di alcuni anni dall’avvio di questo processo la situazione europea dell’alta formazione appare variegata e caratterizzata da luci e ombre. In Italia vari provvedimenti legislativi hanno scandito l’applicazione della riforma universitaria. Tali provvedimenti, principalmente rappresentati dal DM 509/99 e dal DM 270/04, hanno inciso profondamente sull’organizzazione e il funzionamento delle strutture didattiche delle Università italiane, sviluppando anche un vivace dibattito all’interno della comunità accademica sull’effettiva validità e sulla portata dei numerosi cambiamenti in atto.

 Il Processo di Bologna costituisce pertanto il punto di avvio del percorso che gli Stati europei hanno intrapreso e stanno continuando a seguire per realizzare uno spazio europeo dell’istruzione superiore che renda l’Europa competitiva a livello mondiale. Convenendo sull’importanza della costruzione di uno spazio europeo dell’istruzione superiore (EHEA, European Higher Education Area) quale «strumento essenziale per favorire la circolazione dei cittadini, la loro occupabilità, lo sviluppo del Continente», i paesi firmatari si sono impegnati a coordinare le proprie politiche al fine di raggiungere entro il 2010 obiettivi di interesse comune. Le principali iniziative intraprese dal processo di Bologna a partire dal 1999 hanno riguardato la strutturazione dei percorsi formativi universitari sotto forma di “cicli”, l’incentivazione della qualità dell’istruzione superiore, il reciproco riconoscimento dei titoli di studio, l’introduzione del sistema dei crediti formativi, lo spostamento dell’attenzione dall’insegnamento all’apprendimento, l’armonizzazione delle attività formative in specifiche aree disciplinari, etc.

In seguito al Processo di Bologna, la riforma della didattica universitaria in Italia è iniziata nello stesso anno con l’emanazione del DM n. 509/1999, “Regolamento recante norme concernenti l’autonomia didattica degli atenei”, che disciplinava le prime modifiche strutturali in linea con il processo di Bologna e le iniziative intraprese a livello europeo. In seguito all’applicazione di questo decreto gli ordinamenti degli studi hanno subito profonde modifiche. I “vecchi” percorsi quadriennali e quinquennali vigenti fino all’inizio del 2000 sono stati progressivamente sostituiti dal primo ciclo degli studi (corso di laurea, comunemente noto come corso di laurea triennale o di I livello) e dal secondo ciclo degli studi (corso di laurea specialistica o di II livello). Venne poi introdotto il sistema dei crediti formativi universitari (CFU) che, in analogia al sistema degli ECTS già adottato in sede europea, intendeva facilitare la mobilità degli studenti e il riconoscimento delle carriere nel contesto formativo europeo. Le Università hanno iniziato a vantare una maggiore autonomia nella definizione degli ordinamenti degli studi, cioè nell’identificazione delle attività formative che concorrono al raggiungimento degli obiettivi formativi dei corsi di laurea di I e di II livello. Al fine di favorire la conoscenza del mondo del lavoro, sono stati previsti durante i percorsi formativi degli stage o tirocini da effettuare al di fuori delle Università. Inoltre, in accordo con le raccomandazioni europee, venne dato nuovo impulso al III livello dell’istruzione superiore, ossia al dottorato di ricerca.

La riforma si proponeva di garantire la libertà a ogni singolo ateneo di costruire percorsi di studio adeguati alle esigenze della locale realtà economica e sociale. In ogni caso, i percorsi di studio progettati delle singole università dovevano rispettare alcuni criteri generali in termini di obiettivi da raggiungere e di aspetti generali delle attività formative, definiti a livello nazionale. Per tal motivo sono state introdotte, con successivi decreti ministeriali, le cosiddette classi. Per ogni classe sono definiti gli obiettivi formativi qualificanti, comuni a tutti i corsi di studio attivati dagli atenei in riferimento alla medesima classe, e i titoli di studio afferenti alla medesima classe hanno identico valore legale.

A distanza di cinque anni, però, una serie di interventi legislativi, il principale dei quali è rappresentato dal DM n. 270/2004, hanno modificato significativamente alcune disposizioni introdotte dal DM 509/99, allo scopo di correggere determinate questioni critiche, implementare le buone prassi instaurate e sviluppare linee di azione in armonia con l’evoluzione del processo europeo di riforma del sistema dell’istruzione superiore. Uno dei cambiamenti più importanti ha riguardato lo sganciamento completo del corso di laurea specialistica dal corso di laurea. Infatti, mentre il DM 509/99 prevedeva un percorso di II livello (corso di laurea specialistica) strettamente legato a quello di I livello (corso di laurea), ora, invece, il percorso di II livello gode di piena autonomia e cambia anche di denominazione. Si chiama, infatti, corso di laurea magistrale, mantenendo la durata biennale come il precedente corso di laurea specialistica. L’obiettivo di questo cambiamento è di incentivare, entro certi limiti, una trasversalità dei saperi, permettendo l’accesso a un determinato corso di laurea magistrale da parte di laureati di diverse tipologie di corsi di I livello.

Si tratta, ovviamente, di un importante cambiamento per le università italiane, che gestiscono, proprio in questo periodo, questa ulteriore profonda trasformazione. In questa nuova fase della riforma, inoltre, gli atenei hanno un’autonomia ancora maggiore nella definizione degli ordinamenti degli studi, in quanto sono stati significativamente ridotti i vincoli ministeriali previsti nella caratterizzazione dei percorsi formativi. Altra novità è l’introduzione dei corsi di studio cosiddetti “interclasse”, che si pongono in posizione bilanciata tra due percorsi formativi tradizionali. Le università possono ora prevedere dei corsi di studio “ibridi”, che preparano figure professionali nuove, auspicabilmente rispondenti alla rapida evoluzione delle necessità della moderna società della conoscenza.

In seguito ulteriori cambiamenti normativi, come ad esempio il DM 50/201012, tendono a correggere delle anomalie manifestatesi nella prima fase di applicazione della riforma, come l’eccessiva frammentazione dei percorsi formativi (molti insegnamenti con pochi CFU e un gran numero di prove di valutazione), gli ostacoli alla mobilità degli studenti (riconoscimento limitato delle carriere degli studenti nei trasferimenti), la scarsa trasparenza nella comunicazione rivolta agli studenti e alle famiglie (percorsi formativi scarsamente comprensibili e difficoltà nel reperimento delle informazioni).

Inoltre, al fine di razionalizzare e qualificare l’offerta formativa complessiva degli Atenei sono stati adottati dei provvedimenti ministeriali ulteriori a garanzia della qualità dei percorsi formativi stessi. A questo scopo sono stati identificati dei requisiti abbastanza stringenti, in termini di risorse strutturali ed umane, per l’attivazione dei corsi di laurea da parte delle Università.

Suddetta politica viene ulteriormente concretizzata con la definizione del sistema AVA (Autovalutazione, Valutazione periodica, Accreditamento), che costituisce l’insieme delle attività dell’ANVUR in attuazione delle disposizioni della succitata legge n. 240 del 2010 e del successivo D.Lgs. n. 19/2012, che prevedono l’introduzione del sistema di accreditamento iniziale e periodico dei corsi di studio e delle sedi universitarie, della valutazione periodica della qualità, dell’efficienza e dei risultati conseguiti dagli atenei e il potenziamento del sistema di autovalutazione della qualità e dell’efficacia delle attività didattiche e di ricerca delle università.

In questo quadro L’ANVUR ha il compito di fissare metodologie, criteri, parametri e indicatori per l’accreditamento e per la valutazione periodica. All’ANVUR spettano inoltre la verifica e il monitoraggio dei parametri e degli indicatori di accreditamento e valutazione periodica anche ai fini della ripartizione della quota premiale delle risorse annualmente assegnate alle università.

Gli elementi portanti del sistema integrato AVA derivano in larga misura, oltre che dalla normativa nazionale, dalle linee guida contenute negli Standards and Guidelines for Quality Assurance in the European Higher Education Area (ESG-ENQA)13 approvati dai ministri europei nella conferenza di Bergen del 2005 e adottati nella Raccomandazione del Parlamento e del Consiglio europeo (2006/143/CE).

Le Università hanno iniziato ad applicare progressivamente il sistema integrato AVA a partire dal 2013, con l’emanazione del DM 47/2013 che ne ha recepito le istanze promosse dall’ANVUR.

Nell’elaborazione e nello sviluppo del sistema AVA, l’ANVUR si ispira al rispetto dei tre principi di autonomia, responsabilità e valutazione che devono, in misura progressiva, indirizzare il comportamento delle università.

Questo breve excursus storico mette in evidenza come il sistema universitario che si è strutturato nel nostro Paese dopo la creazione del Regno d’Italia sia stato in gran parte un sistema basato sullo Stato, in quanto gestito centralmente dal Ministero competente in tutte le sue principali caratteristiche e perché a finanziamento statale nettamente prevalente.

Gli orientamenti più recenti, però, vanno nettamente in controtendenza rispetto a questa impostazione, garantendo sempre più autonomia alle singole Università, pur se all’interno di un quadro normativo generale definito a livello centrale e con crescenti indicatori di performance che vanno a incidere non soltanto sul Fondo di Finanziamento Ordinario – erogato quindi in forma premiale (infra) – ma piuttosto, sul piano della didattica, sull’effettiva sopravvivenza dei Corsi di studio, oggi sottoposti a un sistema di valutazione e accreditamento su base qualitativa.

1.3 Principi e obiettivi delle università

In tema di principi legati al mondo accademico, vanno richiamato in primis quelli espressi in occasione dell’avvio del Processo di Bologna (supra). Il primo momento fondamentale del percorso per arrivare al Processo di Bologna fu l’enunciazione della Magna Charta Universitatum14, avvenuta in occasione del novecentesimo anniversario dalla fondazione dell’Università di Bologna, nel 1988, con la quale vennero enunciati “i valori di fondo della tradizione universitaria” e si volle incoraggiare “il rinsaldarsi dei legami fra le Università europee”. All’interno delle premesse si fa riferimento all’istruzione come l’elemento che più di tutti influenza l’avvenire dell’umanità.

Nella seconda sezione vengono enunciati i “Principi Fondamentali” che esaltano l’autonomia universitaria, soprattutto nei confronti di qualsiasi pressione del potere, l’indissolubilità tra didattica e ricerca, la libertà di insegnamento, che deve essere promossa non solo dagli istituti di istruzione superiore, ma anche dai pubblici poteri, la globalità del sapere che abbatte barriere geografiche e politiche. Infine vengono enunciati una serie di mezzi attraverso cui raggiungere gli obiettivi fissati. Ci sono molte incitazioni ai Governi per l’aiuto che devono apportare affinché tali principi siano mantenuti. Tali Governi devono infatti sostenere la libertà di insegnamento e ricerca a tutti i livelli. La regolamentazione dello status dei docenti deve ispirarsi al principio dell’inscindibilità tra ricerca e didattica. Da parte loro, le Università promettono un’adeguata attenzione alle necessità e agli obiettivi degli studenti e alla libera circolazione delle informazioni e dei soggetti universitari15.

Nel dettaglio, confrontando gli Statuti di alcuni Atenei (tra cui quello maceratese)16, emergono principi nobili e obiettivi che danno fondamento e dignità a un Paese che vuole dedicarsi alla crescita e all’innovazione. Si tratta di principi quali:

  • concorrere, attraverso la pubblicità dei risultati scientifici conseguiti e il libero confronto delle idee, allo sviluppo civile, culturale e scientifico della comunità locale, nazionale e internazionale;

  • favorire il progresso tecnologico e la trasmissione delle conoscenze contribuendo a progettare e costruire le competenze scientifiche e professionali rispondenti alle esigenze dello sviluppo della società;

  • perseguire la qualità più elevata dell’istruzione e la formazione della persona, garantire il diritto degli studenti a un sapere aperto e critico e a una preparazione adeguata al loro inserimento sociale e professionale;

  • promuovere l’accesso ai più alti gradi di studio e il loro completamento per i capaci e meritevoli anche se privi di mezzi, contribuendo a rimuovere ogni ostacolo a una effettiva uguaglianza di opportunità;

  • perseguire tutte le forme di collaborazione atte a favorire la conoscenza e l’arricchimento reciproco fra le culture, la circolazione del sapere e lo scambio di studenti e di personale in ambito internazionale;

  • promuovere il libero svolgimento delle attività di studio, insegnamento e ricerca; la più ampia collaborazione con le altre università, con le istituzioni di alta cultura e con le accademie italiane e straniere; l’apertura alla comunità scientifica nazionale e internazionale; la stabile cooperazione con le amministrazioni pubbliche statali, regionali e locali; il necessario collegamento con le istanze e i bisogni del suo territorio; il fruttuoso rapporto di cooperazione con le imprese, con il mondo del lavoro e delle professioni, con le associazioni di volontariato e le organizzazioni senza fini di lucro, favorendo l’inserimento dei propri studenti nella società e nel mondo del lavoro;

  • essere indipendente da ogni orientamento ideologico, politico o religioso; operare in conformità ai principi costituzionali e alle disposizioni giuridicamente vincolanti; garantire la libertà di studio, insegnamento e ricerca; adottare i principi della Carta europea dei ricercatori e promuovere il merito sulla base dei più elevati standard nazionali e internazionali;

  • favorire la dimensione internazionale delle attività di ricerca e formazione; riconoscere il valore della mobilità come strumento fondamentale di rafforzamento delle conoscenze scientifiche e di sviluppo professionale; adottare i principi dell’accesso pieno e aperto ai dati e ai prodotti della ricerca scientifica, assicurandone la conservazione nell’archivio istituzionale e la comunicazione al pubblico, nel rispetto delle leggi concernenti la proprietà intellettuale, la riservatezza e la protezione dei dati personali, nonché la tutela, l’accesso e la valorizzazione del patrimonio culturale;

  • promuovere le pari opportunità delle donne e degli uomini mediante azioni positive; ripudiare ogni discriminazione nell’accesso all’istruzione universitaria, nello svolgimento delle attività di insegnamento e ricerca, nel reclutamento e nella carriera del personale.

  • elaborare, dandone la massima diffusione e pubblicità, indicatori atti ad assicurare un utilizzo efficace dei fondi destinati alla ricerca e alla didattica, a quantificare l’impiego delle risorse da parte delle proprie strutture organizzative, a valutare il grado della loro utilizzazione e a valutare e verificare la congruenza tra obiettivi prefissati e risultati realizzati.

I principi su elencati non possono, ovviamente, che essere considerati più che condivisibili. Ciò che ogni Ente pubblico e, pertanto, anche l’università si trova a dover affrontare è, tuttavia, una dolorosa opera di selezione quotidiana per definire quali attività pratiche vedranno una effettiva realizzazione rispetto a quelle di cui si era ipotizzata la realizzabilità al fine del raggiungimento degli obiettivi rispondenti ai principi su descritti, sulla base, purtroppo, delle risorse economico-finanziarie disponibili.

Pertanto, in virtù di uno dei principi su elencati che impone che l’università stessa operi secondo criteri di efficienza, efficacia e pubblicità per i quali “elabora, dandone la massima diffusione, indicatori atti ad assicurare un utilizzo efficace dei fondi […] e verificare la congruenza tra obiettivi prefissati e risultati realizzati”, ogni singolo Ateneo si trova nella quotidianità a dover selezionare gli obiettivi cui dare priorità e risonanza, alla luce del fatto che le risorse a disposizione non sono sufficienti a realizzare tutte le attività prefissate e finalizzate a soddisfare l’intero ventaglio degli obiettivi.

L’interrogativo che sorge spontaneo, a questo punto della riflessione, riguarda quindi le fonti di finanziamento delle Università, in modo da indagare la natura dei sostentamenti alla base della realizzazione dei nobili principi e obiettivi su citati, propri di enti pubblici quali gli atenei, allo scopo di comprenderne le potenzialità.

Capitolo 2

Atenei: tra enti pubblici e libero mercato

Sommario: 2.1 Fonti di finanziamento delle università – 2.2 Competizione tra atenei e incremento dei fondi

2.1 Fonti di finanziamento delle università

Bruno Maida17 specifica che le risorse finanziarie per la gestione e il finanziamento del complesso sistema universitario sono sintetizzabili in sei tipologie di entrate:

  • il Fondo di Finanziamento Ordinario (FFO);

  • le entrate finalizzate da parte del MIUR;

  • le entrate finalizzate da parte di altri soggetti;

  • le entrate contributive;

  • le entrate da alienazione dei beni patrimoniali;

  • i prestiti e le entrate diverse.

Il testo evidenzia quanto segue in relazione alle prime quattro fonti di finanziamento, sottintendo che per le ultime due non vi sia necessità di chiarimenti ulteriori.

In particolare, esplicita che il FFO è un finanziamento statale che costituisce la principale fonte di entrata degli Atenei: le università lo utilizzano per pagare i dipendenti, mantenere le strutture e per qualunque esigenza di funzionamento ordinario.

La seconda voce, invece, è quella finalizzata dal MIUR principalmente a investimenti per l’edilizia, a progetti di ricerca di interesse nazionale (PRIN) e al Fondo per gli investimenti della ricerca di base (FIRB), a borse di studio per dottorandi, post-dottorandi e assegnisti di ricerca, oppure a contratti, convenzioni e accordi con il Ministero stesso.

Le entrate finalizzate da altri sono il frutto della “capacità imprenditoriale” dei singoli atenei e derivano da contratti, convenzioni e accordi con Ministeri diversi dal MIUR, con l’Unione europea, con organismi pubblici ed enti internazionali, con regioni, province, comuni, con enti di ricerca, con aziende e soggetti privati.

In ultimo, le entrate contributive sono la parte di finanziamento che l’università riceve dagli studenti come tasse e contributi per l’iscrizione ai corsi.

Ai fini del presente lavoro, particolarmente interessanti appaiono essere il Fondo di Finanziamento Ordinario (FFO), le entrate finalizzate da parte di altri soggetti e le entrate contributive, in quanto per loro natura dipendono in parte (e talvolta per una parte rilevante) dal livello di qualità (così come risultante dagli indicatori individuati dal Ministero) e dalla capacità di attrarre studenti, finanziatori, docenti di elevato profilo e qualificazione, propri di ogni singolo ateneo. Ad ogni modo, Tosi ci ricorda che le fonti di finanziamento non devono costituire l’unica finalità per la quale le università dovrebbero tendere al miglioramento continuo e a performance di eccellenza, in quanto «qualsiasi regola o modello di distribuzione si voglia applicare» (nella distribuzione di fondi, ad esempio, da parte dello Stato – NdR) «deve essere coerente con il fatto che il ‘prodotto’ universitario non può essere assoggettato alla regola, che vale per le merci, del basso costo, perché la qualità del prodotto ne diviene parte costitutiva e la concorrenza fra le università e fra loro e le altre istituzioni si gioca sulla qualità, sulla creazione di aree di eccellenza, sulla risposta alle attese sociali, sulla capacità di innescare processi di miglioramento di lungo periodo. La missione dell’università è la produzione e la trasmissione di conoscenza originale, che è un bene pubblico usufruibile individualmente e da parte di tutti. Il mercato è quindi per l’università un processo di esplorazione delle idee alla ricerca di soluzioni innovative da mettere a disposizione di tutti, e la ricerca è una tensione senza fine verso soluzioni fra idee concorrenti: quindi, nell’architettura del sistema, le università collaborano e competono, ognuna con le peculiarità sviluppate nella loro storia»18.

2.2 Competizione tra atenei e incremento dei fondi

Dalle riflessioni emerse in precedenza si evince come gli atenei siano titolari di una posizione “ibrida” nel contesto pubblico. Difatti le università, pur se inserite nel computo della amministrazioni pubbliche e dovendo quindi sottostare ai principi e alle norme del diritto che regolano la P.A. (supra), a differenza degli altri Enti pubblici hanno la facoltà, nonché la necessità, di attrarre l’utente/studente per consolidare e rafforzare la propria posizione e, a seguito degli ultimi aggiornamenti normativi e dell’introduzione del sistema A.V.A. (supra), anche per mantenere attivi i Corsi di studio erogati. Esattamente come in un regime economico di concorrenza.

Contrariamente, ciò non avviene quando si parla di Enti pubblici territoriali (es: Regioni, Province, Comuni, Camere di Commercio, etc.), i quali hanno, appunto, una competenza territoriale e ai quali si rivolgono gli utenti/cittadini che risiedono e operano all’interno di un contesto locale e per il quale hanno quello specifico Ente come unico interlocutore a seconda del servizio richiesto.

Si ritiene perciò che tale specificità e particolarità doni alle università un particolare status di Ente pubblico, una peculiarità unica che pur ponendole nel novero dei soggetti che compongono la Pubblica Amministrazione, e che pertanto operano nel rispetto dei principi e delle leggi sopra introdotte, le assoggetta contestualmente anche alle regole del mercato libero in regime di concorrenza, poiché la scelta di un ateneo piuttosto che di un altro da parte del potenziale iscritto o del potenziale investitore dipende da una serie coordinata di fattori plurimi legati sia alla disponibilità dei fondi erogati in forma premiale, sia alla capacità di attrarre finanziatori privati, così come dai livelli di qualità reale e percepita che la realtà accademica riesce a comunicare all’esterno.

Di questo quadro fa una lucida analisi Michele Tiraboschi19, comparando la situazione italiana ed europea con quella internazionale:

«Il vero problema è che l’istruzione terziaria europea continua a fare affidamento quasi esclusivamente su fondi pubblici, che sono sempre più limitati, mentre nei Paesi concorrenti uno sviluppo più vigoroso e durevole è consentito da una maggiore varietà di fonti di finanziamento, con contributi molto più elevati da parte delle imprese e dei privati

Il tema è stato affrontato dalla Commissione Europa che ha indicato tre precise linee di intervento per avviare un reale processo di riforma delle Università e delle strutture di alta formazione: 1) innalzare la qualità e renderle più attraenti per giovani e anche per i docenti e ricercatori di ogni parte del mondo; 2) migliorarne la governance e i sistemi di gestione anche attraverso l’utilizzo di pratiche di tipo manageriale; 3) accrescerne e diversificarne i finanziamenti (con o senza un sostanziale contributo degli studenti).

Rispetto a questi obiettivi la posizione dell’Italia non è certo una delle più positive. Se vogliono stare al passo dell’Europa le Università italiane devono bruscamente accelerare i processi volti a rafforzare la coerenza tra formazione erogata e fabbisogni del mercato del lavoro. E questo anche attraverso una rinnovata competizione tra gli Atenei, basata sulla capacità di creare centri di eccellenza e di attrarre i migliori studenti e docenti – anche di altri Paesi – in ragione della qualità del servizio offerto e del prestigio che saprà conquistarsi sul campo il singolo Ateneo. […] Vero è, in ogni caso, che a una migliore capacità di ricerca dei singoli Atenei non può che corrispondere un incremento delle opportunità di attrarre finanziamenti (pubblici ma anche e soprattutto privati) a tutto vantaggio della qualità dell’offerta formativa e della selezione del corpo docente.»20

Va evidenziato che il testo di Tiraboschi è del 2006 e che in seguito parte di questo processo è stato attuato con le più recenti modificazioni normative, a partire dalla legge n. 240 del 2010 e dei decreti che le sono succeduti, ma certamente molto va ancora fatto affinché tali obiettivi possano essere concretamente realizzabili e permeare il sistema universitario fin nel profondo, anziché rimanere – come purtroppo talvolta accade – ottimi propositi apparentemente adempiuti ma dai pochi riscontri concreti.

Ciò può realizzarsi unicamente attraverso il consolidamento del «legame con la responsabilità esterna», che trova attuazione laddove «le università si assumono interamente la responsabilità derivante dal loro impegno a favore della qualità e riconoscono l’importanza dell’integrare una cultura interna della qualità con processi esterni di accountability». Difatti, «i meccanismi esterni per garantire la qualità dovrebbero essere collegati con quelli interni, ma non duplicare questi ultimi, in modo tale da assicurare una loro diffusa accettazione all’interno dell’università, beneficiare delle sinergie e limitare al massimo la burocrazia»21.

Conclusioni

L’approfondimento condotto ha messo in luce come le università statali, pur rientrando a pieno titolo nel novero degli Enti pubblici ed essendo pertanto tenute al perseguimento di obiettivi di pubblico interesse e a operare nel rispetto sia di principi generali di amministrazione pubblica, sia di principi propri di un Ente di formazione e pertanto orientati allo sviluppo civile, culturale e scientifico della comunità, nonché alla produzione e trasmissione di conoscenza, sono comunque assoggettate ad alcune regole del libero mercato.

Ciò alla luce del fatto che, in quanto amministrazioni pubbliche, ricevono fondi di finanziamento dallo Stato (che negli anni, con il modificarsi delle politiche e delle normative, sono sempre più andati nella direzione di fondi erogati in forma premiale in base agli indicatori di qualità della didattica e della ricerca), ma questa tipologia di finanziamento non è la sola di cui le università possono beneficiare. In base al principio di autonomia, infatti, gli atenei possono attuare politiche proprie per il raggiungimento e il continuo miglioramento degli standard di qualità e la conseguente autopromozione sul territorio locale, nazionale e internazionale al fine di creare sempre maggiori elementi di attrattività per studenti (che, attraverso il pagamento delle tasse di iscrizione, costituiscono una ulteriore fonte di introito) e finanziatori privati (organismi interessati allo sviluppo di ricerche dalle specifiche ricadute nel mercato del lavoro). In tale contesto si è andata sempre più ingenerando una sana collaborazione ma contestuale competizione tra realtà accademiche, nella quale ognuna di esse tende al consolidamento (e possibilmente all’ampliamento) della propria posizione e della solidità economico-finanziaria necessaria al conseguimento dei suoi obiettivi.

Difatti, a differenza degli Enti pubblici locali che hanno una competenza territoriale per la quale l’utente/cittadino vi si rivolge, le università hanno la capacità di attrarre utenti/studenti non solo dal contesto limitrofo, bensì dall’intero territorio nazionale e, perché no, internazionale.

La sfida odierna degli atenei, quindi, risiede nel delicato bilanciamento di interessi pubblici e privati, nel tentativo di individuare quel particolare equilibrio che permetta la perfetta armonia tra l’utilizzo di strumenti propri del mercato concorrenziale, nel pieno rispetto del pubblico interesse e con la principale funzione dell’erogazione di un servizio in favore della collettività, favorendo lo sviluppo culturale e intellettuale di quest’ultima nella direzione di una società della conoscenza, in ossequio ai principi da cui muove l’intera ragion d’essere di tutte le realtà educative e formative.

 


Bibliografia

  • Contaldo A., Liakopoulos D., Università e Unione Europea. Il sistema di accreditamento universitario nel diritto comunitario, Libreriauniversitaria.it Edizioni, Padova, 2011.
  • D’Amico R. (a cura di), L’analisi della pubblica amministrazione. Teorie, concetti e metodi, Vol. 1, La Pubblica amministrazione e la sua scienza, Milano, Franco Angeli, 2006.
  • Maida B. (a cura di), Senti che bel rumore. Un anno di lotta per l’università pubblica, Accademia University Press, Torino, 2011.
  • Masia A., Morcellini M., L’Università al futuro. Sistema, progetto, innovazione, Giuffrè Editore, Milano, 2006.
  • Miriello C. (a cura di), Manuale di legislazione universitaria, Maggioli Editore, 2013.
  • Reggiani Gelmini P., Tiraboschi M., Scuola, Università e Mercato del lavoro dopo la Riforma Biagi. Le politiche per la transizione dai percorsi educativi e formativi al mercato del lavoro, Giuffrè Editore, Milano, 2006.

Sitografia

Note

1 http://www.treccani.it/enciclopedia/scienza-dell-amministrazione/

2 D’Amico R. (a cura di), L’analisi della pubblica amministrazione. Teorie, concetti e metodi, Vol. 1, La Pubblica amministrazione e la sua scienza, Milano, Franco Angeli, 2006.

3 Ivi, pag. 183.

4 Ivi, pag. 184.

5 http://it.wikipedia.org/wiki/Sistema_europeo_dei_conti_nazionali_e_regionali

6 www.istat.it

7 http://www.gazzettaufficiale.it/do/gazzetta/serie_generale/3/pdfPaginato?dataPubblicazioneGazzetta=20130930&numeroGazzetta=229&tipoSerie=SG&tipoSupplemento=GU&numeroSupplemento=0&numPagina=1&edizione=0

8 Miriello C. (a cura di), Manuale di legislazione universitaria, Maggioli Editore, 2013, pag. 15.

9 Ivi, pag. 16.

10 Riforma Gentile: serie di atti normativi del Regno d’Italia che costituì la riforma scolastica organica varata in Italia. Essa prese il nome dall’ispiratore, il filosofo neoidealista Giovanni Gentile, Ministro della Pubblica Istruzione del governo Mussolini nel 1923. Dal punto di vista strutturale Gentile individua l’organizzazione della scuola secondo un ordinamento gerarchico e centralistico. Si trattava di un sistema che riprendeva molti aspetti della vecchia legge Casati, anche per quanto riguarda l’accesso alla università: solo i diplomati del liceo classico avrebbero potuto frequentare tutte le facoltà universitarie, mentre ai diplomati del liceo scientifico sarebbe stato possibile accedere alle sole facoltà tecnico-scientifiche (erano quindi precluse le facoltà di giurisprudenza e di lettere e filosofia). Agli altri diplomati era invece impedita l’iscrizione all’università.
Alla base di questa impostazione c’era una concezione aristocratica della cultura e dell’educazione: una scuola superiore riservata a pochi, considerati i migliori, vista come strumento di selezione della futura classe dirigente (cfr. Wikipedia, http://it.wikipedia.org/wiki/Riforma_Gentile).

11 Sul Processo di Bologna: http://www.bolognaprocess.it/.

12 DM 50/2010, Definizione delle linee generali di indirizzo della Programmazione delle Università per il triennio 2010-2012, http://attiministeriali.miur.it/anno-2010/dicembre/dm-23122010.aspx

13 http://www.enqa.eu/index.php/home/esg/

14 http://www.magna-charta.org/

15 Cfr. Wikipedia, http://it.wikipedia.org/wiki/Processo_di_Bologna.

16 – Università degli Studi di Macerata, http://www.unimc.it/it/ateneo/organizzazione-e-regolamenti

– Università Ca’ Foscari di Venezia, http://www.unive.it/nqcontent.cfm?a_id=76

– Università La Sapienza di Roma, http://www.uniroma1.it/en/node/5631

– Università Milano-Bicocca, http://www.unimib.it/go/1961519801/Home/Italiano/Ateneo/Statuto

– Università Parthenope di Napoli, http://www.uniparthenope.it/index.php/it/ateneo/statuto-e-regolamenti

17 Maida B. (a cura di), Senti che bel rumore. Un anno di lotta per l’università pubblica, Accademia University Press, Torino, 2011, pag. 39.

18 Tosi P., Prefazione a Masia A., Morcellini M., L’Università al futuro. Sistema, progetto, innovazione, Giuffrè Editore, Milano, 2006, pag. 2.

19 Reggiani Gelmini P., Tiraboschi M., Scuola, Università e Mercato del lavoro dopo la Riforma Biagi. Le politiche per la transizione dai percorsi educativi e formativi al mercato del lavoro, Giuffrè Editore, Milano, 2006.

20 Ivi, pag. 30.

21 Contaldo A., Liakopoulos D., Università e Unione Europea. Il sistema di accreditamento universitario nel diritto comunitario, Libreriauniversitaria.it Edizioni, Padova, 2011, pag. 48.

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