Usucapione del bene ereditario e onere della prova, le ultime novità dalla Cassazione

Usucapione del bene ereditario e onere della prova, le ultime novità dalla Cassazione

Cass. Civ., Sez. II, Ord. 8 aprile 2021, n. 9359

Qualora una pluralità di soggetti chiamati accettasse l’eredità, sui beni facenti parte del patrimonio relitto si formerebbe una comunione ereditaria alla quale ciascun coerede parteciperà in misura corrispondente alla quota attribuitagli dalla legge o dal testamento.

In mancanza di una disciplina specifica, alla suddetta comunione si applicano, in quanto compatibili, le norme che regolano la comunione ordinaria e pertanto, ai sensi dell’art. 1102 c.c., ciascun coerede può servirsi della cosa comune purché non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri di farne uso secondo il loro diritto.

Inoltre, egli può anche apportare a proprie spese le modifiche necessarie per il miglior godimento della cosa.

Proprio l’applicazione di questa norma sembrerebbe impedire al singolo coerede e comunista la possibilità di invocare l’acquisto per usucapione della proprietà esclusiva di un bene ereditario.

Infatti, se anch’egli è l’unico ad usare la cosa comune, mentre gli altri rimangono inerti, il potere di fatto da lui esercitato sulla cosa medesima, pur avendo le caratteristiche richieste ai fini dell’usucapione, non è sufficiente a consentirgli di usucapire le quote degli altri coeredi.

Questo perché si presume che il suo godimento non sia altro che l’esplicitazione del potere attribuito ad ogni comunista da questa norma così come si presume, sempre in forza di detta norma, che tale godimento sia tollerato da parte degli altri comunisti.

Tuttavia le presunzioni derivanti dalla predetta disposizione hanno carattere del tutto relativo e quindi operano fino a prova contraria.

Ma cosa deve provare l’usucapiente al fine di poter ottenere l’accertamento dell’avvenuta usucapione delle quote di comproprietà spettanti agli altri coeredi sul bene ereditario?

La giurisprudenza di legittimità ha affrontato l’argomento in più occasioni maturando un indirizzo richiamato dalle Sezioni Unite nella sentenza n. 5087 del 5 marzo 2014 e costantemente confermato dalle successive pronunce in materia.

Impossibilità dell’interversio possessionis

In primo luogo gli Ermellini hanno escluso che il coerede sia tenuto a provare un atto di interversione del possesso poiché tale atto può essere compiuto solo da colui che ha la detenzione della cosa.

Infatti, con l’interversio possessionis il detentore – e quindi colui che esercita il potere di fatto sulla cosa nomine alieni ovvero riconoscendo che titolare del diritto sulla stessa è un altro soggetto –  comincia a comportarsi come se egli stesso fosse il titolare del diritto manifestando in maniera esplicita ed inequivocabile la sua volontà di esercitare il possesso nomine proprio.

Tuttavia, nella comunione ereditaria – così come in quella ordinaria di cui costituisce una species – il potere di fatto esercitato sulla cosa da parte di ciascun erede ha natura di possesso in quanto viene esercitato con la consapevolezza di essere titolare iure successionis, seppure pro quota, del diritto di proprietà sullo stesso.

Esclusività del godimento della cosa comune

In secondo luogo, la Corte di Cassazione ha affermato che il singolo coerede può invocare l’acquisto per usucapione delle quote di comproprietà spettanti agli altri eredi solo qualora il suo possesso abbia una caratteristica particolare ed ulteriore rispetto a quelle di norma rilevanti ai fini dell’usucapione: l’esclusività.

Occorre cioè che egli dimostri non solo di aver esercitato sul bene comune – per il tempo necessario ai fini dell’usucapione – un potere di fatto non violento, non clandestino e non equivoco, ma anche di aver esercitato tale potere come se fosse stato l’unico proprietario del bene e quindi in modo tale da escludere il godimento da parte degli altri coeredi.

È necessario dunque che il soggetto sia nelle condizioni di provare che il godimento della cosa comune è stato esclusivo in quanto concretizzatosi in attività del tutto incompatibili con l’uso da parte degli altri coeredi ed in contrasto con gli stessi.

Il singolo coerede potrà quindi ottenere l’accertamento dell’avvenuta usucapione delle quote di comproprietà degli altri coeredi – e conseguentemente dell’acquisto della titolarità esclusiva del diritto di proprietà sul bene ereditario – solo dimostrando di aver posseduto non come comproprietario bensì come proprietario esclusivo.

Ovviamente questa sua volontà di usare il bene in modo esclusivo dovrà essere percepibile all’esterno ovvero risultare da condotte visibili e concretamente apprezzabili dalla generalità dei soggetti anche se non effettivamente conosciute dagli altri coeredi e ciò al precipuo scopo di superare la preclusione sopra ricordata della tolleranza della sua condotta da parte di questi ultimi.

Come noto, l’usucapione è una modalità di acquisto a titolo originario della proprietà mediante il possesso continuativo del bene immobile o mobile per un periodo di tempo determinato dalla legge, istituto molto delicato, se rapportato ad un bene sul quale esista una comunione.

Giusto  nei giorni scorsi la Cassazione ha ribadito i requisiti affinché un coerede, rimasto nel possesso del bene ereditario dopo la morte del de cuius, possa diventarne proprietario usucapendo le altre quote

Usucapione del bene ereditario da parte del coerede: il caso

Una persona riceve in eredità, insieme ai suoi fratelli ed alla madre, una casa di proprietà del padre deceduto. La persona in questione è l’unica ad avere le chiavi dell’immobile, che utilizza per fini personali e sostiene delle spese per la ristrutturazione del bene. Dopo vent’anni anni, il possessore rivendica l’usucapione dell’immobile nei confronti dei suoi familiari.

Il semplice fatto di utilizzare un immobile in comunione con altri coeredi, e di farlo ininterrottamente per più di vent’anni, non implica perciò solo l’acquisizione della proprietà a titolo di usucapione. Affinché si realizzi l’usucapione dell’eredità indivisa sono necessari ulteriori presupposti. A chiarirlo è una recente ordinanza della Cassazione.

Ricordiamo che l’usucapione richiede tre presupposti: a) il possesso ininterrotto del bene per almeno 20 anni; b) l’esercizio, nel corso di questo ventennio, delle facoltà sul bene che solo il proprietario potrebbe esercitare; c) la mancata rivendicazione della proprietà del bene da parte del legittimo titolare.

Ebbene, il coerede è, per legge, autorizzato a possedere l’immobile derivatogli tramite la successione ereditaria e ad esercitare su di esso tutti i poteri spettanti al proprietario; egli infatti è titolare di una quota di proprietà sullo stesso, quota che si estende sull’intero bene. Nessuno degli altri coeredi quindi potrebbe impedirglielo. Questo dunque non può costituire, da solo, il presupposto dell’usucapione.

Il fatto che il coerede abbia continuato ad essere il solo ad avere la disponibilità dell’immobile, disponendo dell’unico mazzo di chiavi, non prova il possesso esclusivo del bene.

Dunque, secondo la Cassazione, il coerede non ha diritto a rivendicare l’usucapione sulla casa ricevuta in eredità dai genitori, insieme ai suoi fratelli, solo perché è l’unico che ha le chiavi dell’immobile. La circostanza che abbia continuato a essere il solo ad avere la disponibilità dell’abitazione non prova infatti il possesso esclusivo del bene.

Inoltre, sempre secondo la Cassazione, l’accollo delle spese relative all’immobile non rappresenta una condizione per usucapire il bene. La prova del pagamento delle tasse sulla casa e degli altri costi relativi alla sua manutenzione, non sono sufficienti a escludere il compossesso dei coeredi.

La pronuncia in commento ricorda che un soggetto già coerede che voglia rivendicare l’usucapione sull’immobile in proprietà indivisa debba provare l’esercizio esclusivo del bene, debba cioè dimostrare di aver escluso tutti gli altri coeredi dal compossesso del bene, impedendo loro di utilizzare l’immobile. 

Nel caso di specie, un uomo, coerede di un immobile ereditato dal padre insieme alla madre e alla sorella, aveva citato in giudizio queste ultime chiedendo che fosse accertato in suo favore l’acquisto per usucapione dell’intera proprietà di un immobile. Le convenute hanno chiesto in via riconvenzionale di accertare l’illegittima occupazione del bene e la condanna al pagamento dell’indennità.

Il tribunale di Trento rigettava la domanda di usucapione. In secondo grado, anche la Corte d’appello di Trento – in linea con i giudici di primo grado – ha ritenuto che le prove orali assunte nel corso del giudizio di primo grado non apparissero sufficienti per ritenere provato un possesso inconciliabile con la possibilità di godimento con gli altri coeredi.

La vertenza è così approdata in Cassazione. La Suprema corte, nell’accogliere il ricorso, ha affermato che la disponibilità esclusiva delle chiavi non poteva essere ritenuta «elemento di per sé sufficiente ad attestare il possesso» necessario per l’acquisto per usucapione della proprietà del bene.

È vero, ha proseguito il Collegio, che il coerede che, a seguito della morte del de cuius, sia rimasto nel possesso del bene ereditario può, prima della divisione, usucapire la quota degli altri, senza necessità di interversione del possesso. Tuttavia è tenuto a estendere tale possesso in termini di esclusività, il che avviene quando il coerede goda del bene con modalità incompatibili con la possibilità di godimento altrui e tali da evidenziare una inequivoca volontà di possedere uti dominus e non più uti condominus. Pertanto, il fatto che l’originario ricorrente, che già abitava con il padre e quindi aveva le chiavi dell’appartamento, abbia continuato a essere il solo ad averne la disponibilità «non indica, di per sé, il possesso esclusivo dell’immobile».

Quanto invece alla tolleranza degli altri coeredi, la Cassazione ha ricordato che la lunga durata dell’uso di un bene può integrare un elemento presuntivo nel senso dell’esclusione della tolleranza qualora non si tratti di rapporti di parentela, ma di rapporti di mera amicizia o buon vicinato, giacché nei secondi, di per sé labili e mutevoli, è più difficile, a differenza dei primi, il mantenimento della tolleranza per un lungo arco di tempo. In ogni caso però, ha concluso la Cassazione, il riferimento alla tolleranza non è conferente nel caso di specie dal momento che l’originario ricorrente, essendo coerede e possessore del bene, era tenuto a dimostrare l’esercizio esclusivo del dominio sull’immobile conteso.

Questo quanto ha chiarito la Corte di Cassazione, seconda sezione civile, nell’ordinanza n. 9359/2021 accogliendo l’impugnazione contro la sentenza che aveva accertato, nei confronti dell’uomo, l’intervenuta usucapione dell’intera proprietà di un appartamento, dapprima appartenuto al padre con cui egli conviveva.

Gli altri coeredi ritenevano infatti che tale decisione fosse erronea sotto plurimi profili e, in particolare, lamentavano che nel riformare la decisione di prima grado, la Corte d’Appello avesse valorizzato ai fini probatori una singola circostanza, ovvero la non disponibilità da parte loro delle chiavi dell’immobile.

Secondo la Cassazione, in effetti, la mancata disponibilità delle chiavi dell’appartamento da parte dei coeredi non poteva essere ritenuta “elemento di per sé sufficiente ad attestare il possesso” necessario per l’acquisto per usucapione della proprietà del bene.

Sul punto, gli Ermellini forniscono importanti chiarimenti evidenziando come, da un lato, la giurisprudenza consenta effettivamente al coerede che, a seguito della morte del de cuius, sia rimasto nel possesso del bene ereditario, prima della divisione, di “usucapire la quota degli altri eredi, senza necessità di interversione del titolo del possesso” (ex multis, Cass. 966/2019).

Tuttavia, a tal fine, “egli, che già possiede animo proprio e a titolo di comproprietà, è tenuto ad estendere tale possesso in termini di esclusività, il che avviene quando il coerede goda del bene con modalità incompatibili con la possibilità di godimento altrui e tali da evidenziare una inequivoca volontà di possedere uti dominus e non più uti condominus” (Cass. 10734/2018, Cass. 7221/2009, Cass. 13921/2002), “non essendo sufficiente l’astensione degli altri partecipanti dall’uso della cosa comune” (Cass. 966/2019).

Pertanto, il fatto che il convenuto già abitasse con il padre nell’appartamento e, quindi, avesse già le chiavi dello stesso, avendo continuato a essere il solo ad averne la disponibilità, per gli Ermellini non indica, di per sé, il possesso esclusivo dell’immobile.

Diverso valore, invece, può avere “la sostituzione della serratura – della quale tutti i coeredi hanno però la chiave – anche se, per tale ipotesi, devesi, comunque, provare che l’azione sia stata voluta e manifestata al fine d’escludere il compossesso dei coeredi e non piuttosto a fini d’ordinaria manutenzione o di migliore preservazione dell’immobile e di quanto in esso contenuto” (Cass. 1370/1999).


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Avv. Eleonora Deborah Iannello

Avvocato, docente di diritto e redattore di articoli giuridici in materi di diritto civile e penale.

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