Usura, interessi moratori: se eccessivi sono dovuti nella misura dei corrispettivi

Usura, interessi moratori: se eccessivi sono dovuti nella misura dei corrispettivi

Nota a Arbitro Bancario Finanziario, decisione 24/06/2014 n° 3955

di Avv. Giacomo Romano

Sommario: I. Il casus decisus e l’ordinanza del Collegio di Roma. II. La quaestio iuris. III. Il caso Banco Español de Crédito SA contro Joaquin Calderón Camino. IV. La posizione della Corte di Giustizia. V. Rilievi critici. VI. La decisione del Collegio di Coordinamento. VII. Conclusioni.

I. Il casus decisus e l’ordinanza del Collegio di Roma.

Due contratti di finanziamento prevedevano dei tassi di interesse corrispettivi e moratori, la cui somma superava il tasso soglia dell’usura. Il ricorrente chiedeva l’accertamento della nullità dei contratti stipulati e la condanna della banca alla restituzione degli interessi usurari già percepiti.

Nel risolvere la controversia, l’ordinanza emessa dal Collegio di Roma in data 06.03.2012 si è adeguata a due recenti orientamenti del Collegio di coordinamento dell’Arbitro bancario e finanziario (cfr. 1875 del 18 marzo 2014 e 3412 del 23 maggio 2014), i quali sotto vari profili si sono discostati dagli indirizzi espressi sul tema dalla Cassazione.

In primo luogo, si è affermato che per verificare se sia stato superato il limite, posto dall’art. 644, comma 3, c.p.c dall’art. 2, comma 4, della l. n. 108/1996, il tasso degli interessi moratori non deve essere sommato a quello degli interessi corrispettivi.

In secondo luogo, mettendo in luce il carattere di «liquidazione preventiva e forfetaria del danno risarcibile in caso di inadempimento di obbligazione pecuniaria», la pattuizione relativa agli interessi moratori è stata qualificata come clausola penale. Ne è derivato – ancora, secondo l’indirizzo del Collegio di coordinamento – l’applicabilità della disciplina sulle clausole vessatorie prevista dagli artt. 33, comma 2, lett. f) e 36, comma 1, del codice del consumo (sul punto, già Collegio di coordinamento n. 1875 del 18 marzo 2014 cit).

Nel caso di specie, in seguito a un confronto tra il tasso degli interessi moratori e quello degli interessi corrispettivi, l’ABF romano ha dichiarato che la misura degli interessi moratori era da considerarsi manifestamente eccessiva. La clausola sugli interessi moratori è stata, dunque, considerata vessatoria ex art. 33, comma 2, lett. f) c. cons. e – conseguentemente – nulla, ai sensi dell’art. 36, comma 1, c. cons.

L’ordinanza del Collegio di Roma dell’Arbitro bancario finanziario ha, infatti, affermato che, in seguito alla declaratoria di nullità di una clausola sugli interessi moratori, la banca non ha diritto alla corresponsione da parte del consumatore degli interessi determinati ai sensi dell’art. 1224, comma 1, c.c. La soluzione si basa su recenti sentenze della Corte di giustizia volte a riconoscere un’accentuata efficacia deterrente alla normativa della direttiva 93/13/CEE, concernente le clausole abusive nei contratti stipulati con i consumatori. La questione esaminata dai giudici di Lussemburgo, che negli ultimi tempi ha suscitato un vivace dibattito dottrinale, attiene alle conseguenze derivanti dalla pronuncia di vessatorietà di una clausola: all’impostazione tradizionale secondo cui la lacuna (sopravvenuta) deve essere colmata mediante il diritto dispositivo, si contrappone una tesi maggiormente “funzionalista” (fatta propria dall’ordinanza in commento) che, escludendo l’applicazione del diritto dispositivo, favorisce la posizione del consumatore.

In definitiva, ad avviso dell’ABF, l’accertamento della natura vessatoria della clausola determina soltanto la nullità della clausola, e dunque la sua caducazione, mentre la sopravvenuta lacuna contrattuale non deve essere integrata dal diritto dispositivo (ossia dall’art. 1224, comma 1, c.c.).

Tuttavia, posto che l’interpretazione prospettata non può dirsi sicura, in virtù del complesso quadro normativo di riferimento, l’ordinanza ha rimesso la questione al Collegio di coordinamento.

II. La quaestio iuris.

Ciò premesso, l’ordinanza in commento è chiamata a risolvere un problema, a quanto consta, mai affrontato dalla giurisprudenza italiana: accertata la nullità della clausola che determina in misura manifestamente eccessiva il tasso degli interessi moratori, è necessario stabilire se questi ultimi siano pur sempre dovuti ex art. 1224, comma 1, c.c., oppure non debbano essere pagati. In termini più generali, occorre verificare se, in seguito alla declaratoria di nullità della singola clausola, il contratto debba o meno essere integrato mediante il diritto dispositivo.

Nella nostra dottrina, il problema della c.d. “integrazione cogente”, facente seguito a fattispecie di nullità parziale, è stato affrontato soprattutto con riferimento all’art. 1339 c.c. che disciplina l’inserzione automatica di clausole in sostituzione di una pattuizione che viola una norma imperativa. La novità del caso in esame risiede nella circostanza che la nullità di protezione ex art. 36 c. cons. è idonea a colpire altresì clausole in deroga a norme dispositive, di talché si è posto il problema di rinvenire una diversa base normativa per l’integrazione mediante diritto dispositivo. Prima dell’avvento della disciplina di derivazione europea non si profilavano ipotesi di nullità conseguenti a deroghe al diritto dispositivo, in quanto lo stesso diritto dispositivo era considerato derogabile tout court in virtù dell’autonomia contrattuale delle parti: mancando il presupposto per ipotizzare l’operare del meccanismo sostitutivo, non era logicamente configurabile una integrazione del contratto mediante diritto dispositivo.

III. Il caso Banco Español de Crédito SA contro Joaquin Calderón Camino.

Tra le sentenze maggiormente rappresentative della teoria c.d. funzionalista che escludono l’applicazione del diritto dispositivo vi è certamente quella della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, Sez. I, n. 618 del 14 giugno 2012 la quale ha affrontato la questione degli effetti della nullità della clausola abusiva, contemplata in un contratto tra professionisti e consumatori, proprio dall’angolo visuale in discorso.

La suddetta sentenza, interpretando il diritto comunitario (l’art. 6 della direttiva 93/13) con riguardo agli effetti della nullità di un patto contemplante interessi in misura “abusiva” ha dato risposta al seguente interrogativo: se il giudice possa rideterminare gli interessi corrispettivi secondo un ammontare non abusivo. Ovvero se la nullità della pattuizione assorba ogni regolamento sugli interessi, che non sarebbero così in radice dovuti dal consumatore/debitore.

Si tratta di capire quali siano gli effetti della “disapplicazione” della clausola abusiva: se si identifichi con la mera caducazione ovvero si determini l’integrazione della lacuna mediante il ricorso alla disciplina dispositiva abusivamente derogata, ovvero ad altra regola di costruzione giudiziale.

L’orientamento della Corte è stato nel primo senso: sarebbe infatti incompatibile con l’art. 6 della direttiva 93/13 la disciplina spagnola di cui all’art. 83 del Real decreto Legislativo 1/2007 (Texto refundido de la Ley Generale para la defensa de los Consimidores y Usurarios) che consente la sostituzione della clausola nulla con regole ricostruite dal giudice attingendo, magari, proprio al diritto dispositivo.

Un tale esito in prima battuta sembrerebbe compatibile con l’idea ordinaria di caducazione parziale (o di “non apposizione”, secondo il citato art. 83 del Real decreto Legislativo 1/2007) di una clausola e sarebbe preferibile anche perché più idonea ad assicurare le finalità protettive della disciplina dei contratti con i consumatori.

Tuttavia, siffatto ragionamento tradisce tuttavia ambiguità ed incongruenze perché il problema degli effetti della caducazione della clausola abusiva vessatoria è, evidentemente, più complesso di quel che è apparso alla Corte.

E non appare neppure chiuso nella sola alternativa tra pura caducazione del patto e sua correzione giudiziale.

IV. La posizione della Corte di Giustizia.

La fattispecie sottoposta al giudice nazionale remittente – l’Audiencia provincial de Barcelona – riguardava la pattuizione abusiva di interessi moratori (pari al 29%) di circa venti punti superiori rispetto al tasso legale d’interesse.

Ebbene, accertata la nullità del patto, si possono ipotizzare diverse soluzioni: una “pura” obliterazione della clausola, con il corollario della esclusione di qualsivoglia diritto agli interessi; l’operatività, in sostituzione del patto nullo, della disciplina dispositiva derogata (abusivamente) dal patto sugli interessi, reputando a tale stregua dovuti interessi nella misura legale; infine, si può affidare al giudice il compito di ricostruire un regolamento alternativo non abusivo – ma non necessariamente modulato sulla disciplina legale dispositiva – correggendo il contratto.

Occorre, dunque, analizzare i rapporti tra nuda caducazione, integrazione dispositiva e correzione giudiziale, che non sembrano ben messi a fuoco nella pronuncia in esame.

Invero, per la Corte, solo la pura obliterazione del patto sarebbe realmente idonea a privare di “forza vincolante” la clausola vessatoria; sicché il contratto depurato della clausola abusiva dovrebbe conservarsi «in linea di principio, senz’altra modifica che non sia quella risultante dalla soppressione delle clausole abusive».

Sembra, nella prospettiva della Corte, che anche la mera integrazione dispositiva si ponga in conflitto con le scelte europee – indicazioni in questo senso si possono inferire dalla nettezza della affermazioni con cui si esclude qualsiasi modifica «che non sia quella risultante dalla soppressione della clausola abusiva».

Oggetto delle censure è stato, in particolare, l’art. 83 del menzionato Real decreto legislativo 1/2007 che, per un verso ed in linea con le indicazioni comunitarie, considera come “non apposte” le clausole abusive. Per altro verso regola espressamente gli effetti di una siffatta “non apposizione”; evocando, peraltro, non solo l’integrazione della lacuna con le norme dispositive – scelta certo non rivoluzionaria e che si assumerebbe legittimata già dall’art. 1258 codigo civil corrispondente nella seconda parte al nostro art. 1374 c.c. – ma altresì con regole create dal giudice; al quale la disciplina spagnola accorda «poteri di moderazioni rispetto ai diritti e obblighi delle parti, nel caso di sopravvivenza del contratto» improntati ai canoni della buona fede oggettiva. Salvo che, conclude la disposizione, un tale riequilibrio non sia possibile: nel qual caso il giudice potrebbe anche dichiarare l’inefficacia dell’intero contratto.

Se, allora, ad essere vietata è qualsivoglia operazione di “integrazione” di clausole contrattuali dichiarate abusive non sarebbe la sola disciplina spagnola a meritare le censure formulate dalla Corte atteso che, nella disciplina italiana, la sostituzione in via dispositiva delle lacune susseguenti alla caducazione, anche fuori dall’ipotesi di lacuna originaria, appare già legittimata dall’art. 1374 c.c.

Secondo la pronuncia in esame la pura obliterazione del patto, per un verso, sarebbe l’effetto naturale della non apposizione; per l’altro produrrebbe un effetto gravemente penalizzate per il professionista, così dispiegando effetti deterrenti all’inserzione del patto abusivo.

Sicché, l’integrazione c.d. dispositiva sarebbe contrastante con il diritto europeo, e segnatamente con l’art. 6, paragrafo 1, e con l’art. 7, paragrafo 1, della direttiva 93/13/CEE del Consiglio, del 5 aprile 1993, concernente le clausole abusive nei contratti stipulati con i consumatori.

Giova, allora, analizzare la normativa europea posta a base delle sentenze della Corte di Giustizia che sostengono la non integrazione della clausola abusiva con il diritto dispositivo.

L’art. 6, paragrafo 1, della suddetta direttiva statuisce che: «Gli Stati membri prevedono che le clausole abusive contenute in un contratto stipulato fra un consumatore ed un professionista non vincolano il consumatore, alle condizioni stabilite dalle loro legislazioni nazionali, e che il contratto resti vincolante per le parti secondo i medesimi termini, sempre che esso possa sussistere senza le clausole abusive».

L’art. 7, paragrafo 1, della suddetta direttiva, a sua volta, statuisce che: «Gli Stati membri, nell’interesse dei consumatori e dei concorrenti professionali, provvedono a fornire mezzi adeguati ed efficaci per far cessare l’inserzione di clausole abusive nei contratti stipulati tra un professionista e dei consumatori».

Infatti, la sentenza Banco Español de Crédito SA contro Joaquin Calderón Camino afferma che l’art. 6, paragrafo 1, della direttiva 93/13/CEE osta a una normativa di uno Stato membro «che consente al giudice nazionale, qualora accerti la nullità della clausola abusiva in un contratto stipulato tra un professionista e un consumatore, di integrare detto contratto rivedendo il contenuto di tale clausola».

Tale principio di diritto è stato ribadito dalla Corte di giustizia nella causa C-488/11 (Dirk Frederik Asbeek Brusse e Katarina de Man Garabito contro Jahani BV), con la precisazione che «l’art. 6, paragrafo 1, della direttiva [93/13/CEE] non può essere interpretato nel senso che consente al giudice nazionale, qualora quest’ultimo accerti il carattere abusivo di una clausola penale in un contratto stipulato tra un professionista e un consumatore, di ridurre l’importo della penale imposta a carico del consumatore anziché disapplicare integralmente la clausola in esame nei confronti di quest’ultimo» (sentenza del 30 maggio 2013).

Le suddette sentenze della Corte di giustizia sembrano ritenere che, nei contratti con i consumatori, sia vietato al legislatore di uno Stato membro dell’Unione europea non solo di attribuire al giudice nazionale il potere di ridurre a equità gli interessi moratori manifestamente eccessivi (secondo il modello dell’art. 1384 c.c.), ma anche di prevedere che, laddove sia nulla la relativa clausola contrattuale, essi siano dovuti nella stessa misura di quelli corrispettivi (secondo il modello dell’art. 1224, 1° comma, c.c.).

In primo luogo, si deve infatti rilevare che l’art. 1224, comma 1, c.c. non sembra «fornire mezzi adeguati ed efficaci per far cessare l’inserzione di clausole abusive nei contratti stipulati tra un professionista e dei consumatori», com’è invece imposto agli Stati membri dall’art. 7, paragrafo 1, della direttiva 93/13/CEE. Infatti, laddove gli interessi moratori decorressero comunque al tasso di quelli corrispettivi, il finanziatore si troverebbe, per quanto qui rileva, nella stessa situazione giuridica in cui si sarebbe trovato laddove la clausola abusiva non fosse stata apposta al contratto, senza tuttavia subire alcuna conseguenza giuridica ulteriore che sia economicamente svantaggiosa.

Si deve inoltre rilevare che il ripristino della norma dispositiva che fa decorrere gli interessi moratori allo stesso tasso di quelli corrispettivi (secondo il modello dell’art. 1224, comma 1, c.c.) coinciderebbe sostanzialmente con la loro riduzione a equità da parte del giudice (secondo il modello dell’art. 1384 c.c.). In definitiva, si giungerebbe così alla stessa soluzione che è generalmente preveduta dal diritto italiano, come se la direttiva 93/13/CEE non fosse entrata in vigore. Verrebbe allora meno, tra l’altro, la differenziazione tra i consumatori e i non consumatori, i quali sarebbero tutelati in modo sostanzialmente omogeneo: sarebbero così inevitabilmente frustrate le finalità di tutela dei consumatori che caratterizzano la già menzionata direttiva 93/13/CEE.

Infatti, che sia discrezionalmente disposta dal giudice ovvero risulti automaticamente dall’applicazione del diritto dispositivo, la riduzione a equità della penale manifestamente eccessiva «contribuirebbe a eliminare l’effetto dissuasivo esercitato sui professionisti dalla pura e semplice non applicazione nei confronti del consumatore di siffatte clausole abusive […], dal momento che essi rimarrebbero tentati di utilizzare tali clausole, consapevoli che, quand’anche esse fossero invalidate, il contratto potrebbe nondimeno essere integrato, per quanto necessario, dal giudice nazionale in modo tale, quindi, da garantire l’interesse di detti professionisti» (cfr. sentenza della Corte di giustizia UE, 14 giugno 2012, punto 69).

Nella causa C-565/12 (LCL Le Crédit Lyonnais SA contro Fesih Kalhan), la Corte di giustizia dell’Unione europea ha affermato che: «Se la sanzione della decadenza degli interessi venisse mitigata, ovvero puramente e semplicemente eliminata, a causa del fatto che l’applicazione degli interessi al tasso legale maggiorato può compensare gli effetti di una siffatta sanzione [di nullità della clausola contrattuale che determina il tasso degli interessi corrispettivi, nel caso di specie] ne discenderebbe necessariamente che essa non presenta un carattere realmente dissuasivo» (sentenza del 27 marzo 2014, punto 53).

Si deve pertanto concludere nel senso che, accertata la nullità della clausola che determina in modo manifestamente eccessivo gli interessi moratori, perché abusiva ai sensi dell’art. 33, 3° comma, lett. f), cod. cons., essi non siano dovuti affatto. Nella parte che qui rileva, la norma dettata dall’art. 1224, comma 1, c.c. deve essere infatti disapplicata, poiché incompatibile con gli artt. 6, paragrafo 1, e 7, paragrafo 1, della direttiva 93/13/CEE.

Resta peraltro fermo che «le conseguenze della manifesta eccessività del tasso convenuto vengono a incidere solo sugli interessi moratori (art. 1224 c.c.) e non anche su quelli corrispettivi». Fermo restando che è dovuto il pagamento delle quote di interessi corrispettivi che sono inglobati nelle rate già scadute, essi continuano altresì a decorrere sulla quote di capitale ivi inglobate, fino a quando non è adempiuta dal soggetto finanziato l’obbligazione di restituirle. Resta altresì fermo che, secondo la disciplina generale della responsabilità contrattuale (art. 1218 c.c.), il finanziatore ha il diritto di essere risarcito del danno che costituisca la conseguenza immediata e diretta dell’inadempimento del soggetto finanziato (art. 1223 c.c.), purché ne provi l’esistenza (an debeatur) e l’ammontare (quantum debeatur).

V. Rilievi critici.

La questione appare mal posta.

Non può, invero, revocarsi in dubbio che la correzione di un regolamento negoziale può avvenire anche mediante “sottrazione”.

In altri termini, dietro l’apparentemente meccanica “conservazione per il resto” si annida una vera e propria sostituzione della disciplina pattizia con regole imperative – dai chiari connotati sanzionatori – che, nel nostro caso, prevedono che “nessun interesse sia dovuto”.

Pare, infatti, evidente che la nullità parziale necessaria comporta sempre, di per sé, una correzione del regolamento negoziale che non è più identico a quello voluto dalle parti; quindi, non non si può ragionevolmente assorbire in una logica di naturalità una tecnica – quella propria della mera “non apposizione” della clausola – che certo neutra non appare.

Resta l’argomento della Corte per cui la previsione espressa (art. 7 della direttiva 93/13) della finalità di prevenire, nel medio periodo, l’inserzione di clausole abusive nei contratti dei consumatori legittimerebbe in modo generalizzato tecniche sanzionatorie quali quelle descritte.

Ma l’argomento non convince, e prova troppo. Perché se è innegabile che rimedi nitidamente orientati in senso punitivo dispiegano un sicuro effetto preventivo, una siffatta descrittiva premessa nulla dice – se non si vuole restare prigionieri di un’argomentazione circolare – delle scelte operate dal legislatore per correggere il contratto abusivo; invece, si tratta proprio di intendere se davvero l’evocato obiettivo “di lungo periodo” debba essere attinto con qualsiasi mezzo anche quello che – rivelandosi nettamente sbilanciato a protezione di uno dei due contraenti – comporta la più radicale interferenza sulle scelte dei contraenti.

Il guadagno di una maggiore chiarezza quanto alle tecniche di integrazione mette peraltro in luce come non sia nemmeno sicuro che la “nuda caducazione” produca sempre effetti più favorevoli per il consumatore rispetto alla riduzione del patto abusivo. Si pensi proprio all’ipotesi della clausola penale nulla, perché manifestamente eccessiva, ai sensi dell’art. 33 lett. f) cod. cons.: in tale caso la radicale nullità della clausola comporta l’applicazione delle regole ordinarie della responsabilità per inadempimento e i consueti canoni risarcitori. Che potrebbero anche rivelarsi più gravosi per il debitore consumatore di quelli ordinari, tenuto conto che la clausola penale, se certo favorisce il creditore sotto il profilo probatorio, ha per effetto altresì di limitare il danno risarcibile, mentre la riduzione della penale abusiva entro limiti non vessatori potrebbe avere in molti casi effetti maggiormente favorevoli.

VI. La decisione del Collegio di Coordinamento.

Investito della questione, il Collegio di Coordinamento ha “sciolto la matassa” con la decisione n. 3955 del 24 giugno 2014.

Dopo aver puntualmente richiamato la giurisprudenza della Corte di Giustizia secondo cui a seguito della dichiarazione di abusività della clausola penale occorre solamente procedere alla sua disapplicazione evitando qualsivoglia intervento integrativo e/o correttivo sul contratto onde evitare di compromettere il carattere dissuasivo risultante dalla dichiarazione di nullità della clausola abusiva, il Collegio di Coordinamento riferisce di altro orientamento europeo favorevole – in casi particolari – alla integrazione c.d. dispositiva.

Trattasi della sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione europea pubblicata il 30 aprile 2014 (causa C-26/13, Árpad Kásler e Hajnalka Káslerné Rábai contro OTP Jelzálogbank Zrt), la quale ha affermato il seguente principio di diritto: «L’articolo 6, paragrafo 1, della direttiva 93/13 deve essere interpretato nel senso che, in una situazione come quella di cui al procedimento principale, ove un contratto concluso tra un professionista e un consumatore non può sussistere dopo l’eliminazione di una clausola abusiva, tale disposizione non osta a una regola di diritto nazionale che permette al giudice nazionale di ovviare alla nullità della suddetta clausola sostituendo a quest’ultima una disposizione di diritto nazionale di natura suppletiva».

La ratio decidendi del principio di diritto enunciato dalla Corte di Giustizia si riferisce dichiaratamente all’ipotesi in cui il contratto di finanziamento non possa sussistere dopo l’eliminazione di una clausola abusiva (nel caso di specie, quest’ultima atteneva alla determinazione degli interessi corrispettivi e alla conseguente quantificazione dell’importo delle rate dovute dal soggetto finanziato). In tale fattispecie, «se […] non fosse consentito sostituire a una clausola abusiva una disposizione di natura suppletiva, obbligando il giudice ad annullare il contratto nel suo insieme, il consumatore potrebbe essere esposto a conseguenze particolarmente dannose talché il carattere dissuasivo risultante dall’annullamento del contratto rischierebbe di essere compromesso» (sentenza del 30 aprile 2014, punto 83). «Infatti, un annullamento del genere ha in via di principio per conseguenza di rendere immediatamente esigibile l’importo del residuo prestito dovuto in proporzioni che potrebbero eccedere le capacità finanziarie del consumatore e, pertanto, tende a penalizzare quest’ultimo piuttosto che il mutuante il quale non sarebbe di conseguenza dissuaso dall’inserire siffatte clausole nei contratti da esso proposti» (sentenza del 30 aprile 2014, punto 84).

È evidente che tali considerazioni non valgono invece nel caso in cui la clausola abusiva (e pertanto nulla) sia quella che determina il tasso degli interessi moratori, perché il contratto è allora perfettamente suscettibile di sussistere senza tale clausola, restando vincolante per il resto (come preveduto dall’art. 6, paragrafo 1, della direttiva 93/13/CEE).

Occorre considerare che le alternative all’ applicazione della norma supplettiva di cui all’ art. 1224 c.c. sono rappresentate in sostanza dal ricorso al modello sanzionatorio di cui all’art. 1815, comma 2, c.c., seguendo il quale si dovrebbero considerare come non dovuti dal consumatore tutti gli interessi pattuiti, o alternativamente una applicazione adattata del disposto dell’art. 1224 c.c. pervenendo a considerare, sempre nella ipotesi in cui sia dichiarato nulla perché comportante una penalità eccessiva la clausola relativa alla misura degli interessi moratori, come non dovuti gli interessi moratori, con loro sostituzione non mediante il riferimento agli interessi corrispettivi pattuiti nel contratto, ma con la misura degli interessi legali, secondo il modello previsto, ad altri fini, dall’art. 125-bis, comma 7, TUB.

Entrambe queste soluzioni urtano, però, a parere del Collegio di Coordinamento, contro obiezioni immediate e robuste. Infatti, «in riferimento alla prima si deve rilevare che l’applicazione del modello sanzionatorio di cui all’ art. 1815, 2° comma comporterebbe il dar corso alla applicazione analogica di norma speciale, e, più ancora, di norma speciale il cui presupposto è la commissione di un illecito penale. Circa la seconda si rileva che la applicazione di uno spezzone della norma suppletiva di cui all’art. 1224 c.c. comporterebbe una diversa, ma non meno grave scorrettezza ermeneutica, posto che è elementare che le norme di applicano nella loro interezza e non già selettivamente».

A parere del massimo organo di vigilanza, spetta al giudice nazionale valutare il carattere effettivamente dissuassivo della sanzione della nullità della clausola abusiva, raffrontando nelle circostanze della causa di cui è investito, gli importi che il creditore avrebbe riscosso come remunerazione del prestito secondo il programma contrattuale originario con quelli che egli percepirebbe in applicazione della regola di diritto che sostituisce la clausola annullata. Solo nel caso in cui il giudice nazionale si avvedesse che la sostituzione degli effetti della clausola originaria con quelli derivanti dalla applicazione di una norma suppletiva, priva la sanzione stessa di un carattere realmente dissuasivo, dovrebbe ritenere che l’art. l’articolo 6, paragrafo 1, della direttiva 93/13, osti alla sostituzione della clausola pattizia con la regola di diritto dispositivo come regola del rapporto in questione (cfr. Corte di Giustizia, C-565/12, LCL Le Crédit Lyonnais SA).

Ebbene, il Collegio ha evidenziato che l’applicazione dell’art. 1224 c.c. conduce però ad una situazione diversa da quella che si creerebbe a seguito dell’applicazione dell’art. 1384 c.c..

In quest’ultimo caso, infatti, a seguito della riduzione dell’ammontare eccessivo della clausola penale sugli interessi moratori gli stessi continuano ad essere dovuti sebbene in maniera inferiore a quanto pattuito; con l’applicazione dell’art. 1224 c.c., invece, si ottiene l’effetto pratico di estendere al periodo di mora il tasso degli interessi corrispettivi stabiliti contrattualmente ove quest’ultimo tasso sia, come quasi sempre accade, superiore al tasso legale.

In altri termini, applicando l’art. 1384 c.c. effettivamente si priverebbe la clausola penale abusiva della sanzione deterrente della nullità protettiva poiché gli interessi moratori in quanto tali continuano ad essere dovuti sebbene in misura inferiore a quella pattuita.

Nel secondo caso, invece, il professionista che inserisca nel contratto tassi di interessi moratori sproporzionati resta sempre esposto al rischio di perdere per tutta la durata dell’inadempimento del debitore il diritto a percepire l’intera differenza – che non può essere piccola – tra il tasso degli interessi corrispettivi ed il tasso degli interessi moratori che è di regola superiore al primo.

Il Collegio ha inoltre acutamente evidenziato che l’applicazione dell’art. 33, comma 2, lett. f) del codice del consumo, con gli effetti previsti al successivo art. 36, comma 1, non comporta formalmente alcuna sostituzione (vietata dalla direttiva 93/13 che prevede come conseguenza la  «non vincolatività») di clausole contrattuali, come diversamente avviene nell’ipotesi di cui all’art. 1384 c.c..

Infatti, la possibilità della banca di esigere dopo la mora il pagamento di interessi moratori nella misura concordata per gli interessi corrispettivi, derivante dall’art. 1224 c.c. non solo non ha fondamento nel contratto, essendo evidentemente una obbligazione ex lege, ma non ha la propria causa nella volontà delle parti di predeterminare la misura del risarcimento che deve compensare il sacrifico imposto al creditore dall’inadempimento del debitore – essendo l’effetto giuridico di tale manifestazione di volontà completamente eliminato – ma ha la propria causa sostanziale nella considerazione che il sacrificio imposto al creditore deluso non può essere riparato in misura inferiore a quella che lo stesso ha accettato per il periodo di fisiologica esecuzione del negozio creditorio.

Venendo, poi, all’esame del carattere dissuasivo di tale ragionamento il Collegio ha rilevato che cancellare totalmente l’obbligo di pagamento degli interessi moratori nel caso in cui risultino eccessivi e sproporzionati creerebbe un incentivo assai elevato all’inadempimento nelle obbligazioni pecuniarie con conseguente sconvolgimento del sistema del credito, portando non ad una modifica conformativa del rapporto di credito, ma ad un capovolgimento del sistema degli incentivi e disincentivi che regolano un sistema creditizio. Osservano gli arbitri che «Se si può pensare di sanzionare le previsioni di interessi moratori esagerati con la perdita degli stessi e se parimenti è ammissibile sanzionare con la perdita di tutti gli interessi la violazione di regole attinenti la formazione di un contratto di credito con il consumatore, non pare ammissibile istituire congegni sanzionatori che facciano pernio su un premio all’inadempimento».

VII. Conclusioni.

Pertanto, l’obbligo del debitore inadempiente di continuare a pagare gli interessi convenuti, rappresenta la massima sanzione civilistica che si possa prevedere e che quindi è apparsa al Collegio di Coordinamento indubitabilmente adeguata atteso che la stessa giurisprudenza della Corte di Giustizia non sembra affatto orientata a contraddire né il principio fondamentale di conservazione del contratto, né la superiore esigenza che i rapporti economici nascenti dal contratto rimangano equilibrati (cfr. Corte di Giustizia, C-26/13 Árpád Kásler, Hajnalka Káslerné Rábaidel 30 aprile 2014, punti 80-83).

In conclusione, fermo restando che nell’ipotesi di contratti con i consumatori, le clausole non negoziate che comportano la previsione di interessi moratori manifestamente eccessivi sono nulle e che non è consentito al giudicante evitare o attenuare la invalidità diminuendone equamente l’ammontare, non vi sono ostacoli all’applicazione al caso in esame delle regole di cui all’art. 1224 c.c..


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Avv. Giacomo Romano

Ideatore e Coordinatore at Salvis Juribus
Nato a Napoli nel 1989, ha conseguito la laurea in giurisprudenza nell’ottobre 2012 con pieni voti e lode, presso l'Università degli Studi di Napoli Federico II, discutendo una tesi in diritto amministrativo dal titolo "Le c.d. clausole esorbitanti nell’esecuzione dell’appalto di opere pubbliche", relatore Prof. Fiorenzo Liguori. Nel luglio 2014 ha conseguito il diploma presso la Scuola di specializzazione per le professioni legali dell'Università degli Studi di Napoli Federico II. Subito dopo, ha collaborato per un anno con l’Avvocatura Distrettuale dello Stato di Napoli occupandosi, prevalentemente, del contenzioso amministrativo. Nell’anno successivo, ha collaborato con uno studio legale napoletano operante nel settore amministrativo. Successivamente, si è occupato del contenzioso bancario e amministrativo presso studi legali con sede in Napoli e Verona. La passione per l’editoria gli ha permesso di intrattenere una collaborazione professionale con una nota casa editrice italiana. È autore di innumerevoli pubblicazioni sulla rivista “Gazzetta Forense” con la quale collabora assiduamente da giugno 2013. Ad oggi, intrattiene collaborazioni professionali con svariate riviste di settore e studi professionali. È titolare di “Salvis Juribus Law Firm”, studio legale presso cui, insieme ai suoi collaboratori, svolge quotidianamente l’attività professionale avendo modo di occuparsi, in particolare, di problematiche giuridiche relative ai Concorsi Pubblici, Esami di Stato, Esami d’Abilitazione, Urbanistica ed Edilizia, Contratti Pubblici ed Appalti.

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