Utilizzazione in altri procedimenti dei risultati delle intercettazioni. Art. 270 c. 1 c.p.p.: questioni interpretative e prospettive di riforma

Utilizzazione in altri procedimenti dei risultati delle intercettazioni. Art. 270 c. 1 c.p.p.: questioni interpretative e prospettive di riforma

Sommario: 1. Cenni introduttivi – 2. Dall’abrogato art. 226-quater c. 6 c.p.p. all’attuale art. 270 c.p.p. – 3. Ratio del divieto previsto dall’art. 270 c. 1 c.p. – 4. L’interpretazione della locuzione “procedimenti diversi” – 5. Considerazioni conclusive

 

1. Cenni introduttivi

La disciplina sull’utilizzazione dei risultati delle intercettazioni in altri procedimenti penali di cui all’art. 270 c.p.p. – modificato dal d.l. n. 161/2019, convertito in L. n. 7/2020 – è frutto di scelte legislative volte a bilanciare diversi interessi: da un lato, l’accertamento e la repressione dei reati; dall’altro, la libertà e la segretezza di ogni forma di comunicazione, la cui inviolabilità è sancita dall’art. 15 Cost.

Nei paragrafi che seguono, dopo avere ripercorso le tappe che hanno segnato la disciplina oggetto della nostra trattazione, si procederà all’analisi delle principali questioni ermeneutiche relative all’art. 270 c. 1 c.p.p.

In particolare, si soffermerà l’attenzione sulla ratio della norma e sulla vexata quaestio concernente il significato della locuzione “procedimenti diversi”.

Verranno messi in evidenza, altresì, i profili critici della modifica apportata con la riforma del 2020, tentando, in una prospettiva de iure condendo, di elaborare una diversa disposizione che consenta di superare i dubbi interpretativi e che tenga conto degli interventi giurisprudenziali degli ultimi anni.

2. Dall’abrogato art. 226-quater c. 6 c.p.p. all’attuale art. 270 c.p.p.

Nell’abrogato codice di procedura penale era contenuta una disposizione relativa alla circolazione dei risultati delle intercettazioni. Si trattava dell’art. 226-quater, introdotto dalla L. n. 98/1974 – recante norme a tutela della riservatezza e della libertà e segretezza delle comunicazioni – sulla scia della sentenza n. 34 del 1973 della Corte costituzionale, la quale aveva affermato che nel processo potesse essere utilizzato solo il materiale rilevante per l’imputazione di cui si discuteva e auspicava che la legge predisponesse un compiuto sistema, anche a garanzia di tutte le parti in causa, per l’eliminazione del materiale non pertinente[1].

La norma, originariamente, prevedeva che le notizie contenute nei verbali e nelle registrazioni di comunicazioni e conversazioni non potessero essere utilizzate quali prove in procedimenti diversi da quelli per i quali erano state raccolte. Il fondamento del divieto era costituito dall’art. 15 Cost., il quale dispone che la libertà e la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione sono inviolabili e la loro limitazione può avvenire solo per atto motivato dell’autorità giudiziaria con le garanzie stabilite dalla legge.

La norma era stata profondamente criticata soprattutto perché era da ostacolo alla repressione di gravi delitti. Come sostenuto in dottrina, «l’interesse alla prevenzione e all’accertamento processuale di manifestazioni criminose particolarmente aggressive» può essere considerato un limite esegetico al principio sancito dalla norma costituzionale[2].

Il d.l. n. 59/1978, conv. in L. n. 191/1978 – con cui il legislatore è intervenuto al fine della prevenzione e della repressione di gravi reati – ha apportato una modifica all’art. 226-quater, prevedendo l’utilizzabilità quali prove in procedimenti diversi delle notizie contenute nei verbali e nelle registrazioni di comunicazioni e conversazioni, purché si riferissero a reati per i quali il mandato di cattura fosse obbligatorio anche per taluno soltanto degli imputati[3].

La L. n. 81/1987, che conteneva la delega al Governo per l’emanazione del nuovo codice di procedura penale, imponeva, come criterio direttivo che il legislatore delegato avrebbe dovuto seguire, la predeterminazione dei reati per i quali fossero ammesse le intercettazioni e di quelli per i quali fossero utilizzabili le intercettazioni effettuate in un diverso processo (art. 2, numero 41 lett. a). Il legislatore del 1988 ha così prescritto, con l’art. 270 c.p.p., che i risultati delle intercettazioni non potevano essere utilizzati in procedimenti diversi da quelli nei quali erano stati disposti, salvo che risultassero indispensabili per l’accertamento di delitti per i quali era obbligatorio l’arresto in flagranza (c. 1).

L’art. 4 del d.lgs. n. 216/2017 aveva aggiunto il c. 1-bis, ai sensi del quale i risultati delle intercettazioni tra presenti operate con captatore informatico su dispositivo elettronico portatile non potevano essere utilizzati per la prova di reati diversi da quelli per i quali fosse stato emesso il decreto di autorizzazione, salvo che fossero indispensabili per l’accertamento di delitti per i quali era obbligatorio l’arresto in flagranza.

Sempre nel 2017 era stato modificato il c. 2 dell’art. 270, ai sensi del quale, ai fini dell’utilizzazione, i verbali e le registrazioni delle intercettazioni dovevano essere depositati presso l’autorità competente per il diverso procedimento e dovevano essere applicati gli artt. 268-bis, 268-ter e 268-quater.

Il legislatore è nuovamente intervenuto con il d.l. n. 161/2019, sostituendo, in sede di conversione in L. n. 7/2020, il c. 1 dell’art. 270 con il seguente: «I risultati delle intercettazioni non possono essere utilizzati in procedimenti diversi da quelli nei quali sono stati disposti, salvo che risultino rilevanti e indispensabili per l’accertamento di delitti per i quali è obbligatorio l’arresto in flagranza e dei reati di cui all’articolo 266, comma 1».

Il c. 1-bis è stato così modificato: «Fermo restando quanto previsto dal comma 1, i risultati delle intercettazioni tra presenti operate con captatore informatico su dispositivo elettronico portatile possono essere utilizzati anche per la prova di reati diversi da quelli per i quali è stato emesso il decreto di autorizzazione qualora risultino indispensabili per l’accertamento dei delitti indicati dall’articolo 266, comma 2-bis».

La riforma del 2020 ha ritoccato anche il c. 2 dell’art. 270, nel quale le parole «degli articoli 268-bis, 268-ter e 268-quater» sono state sostituite dalle seguenti: «dell’articolo 268, commi 6, 7 e 8».

Infine, l’art. 270 c. 3 c.p.p., che non è stato oggetto di modifica, prevede che il P.m. e i difensori delle parti hanno facoltà di esaminare i verbali e le registrazioni in precedenza depositati nel procedimento in cui le intercettazioni furono autorizzate.

In questo primo paragrafo ci si è limitati a ripercorrere l’evoluzione normativa sull’utilizzabilità dei risultati delle intercettazioni in procedimenti penali diversi da quelli in cui sono state disposte. Nei paragrafi che seguono, come sopra anticipato, si soffermerà l’attenzione sulle complesse questioni ermeneutiche poste dall’art. 270 c. 1 c.p.p.

3. Ratio del divieto previsto dall’art. 270 c. 1 c.p.

Uno dei temi relativi all’art. 270 c. 1 c.p.p. che merita un’attenta riflessione è quello concernente la ratio del divieto ivi previsto. Diverse sono le posizioni della dottrina a riguardo.

Secondo un primo orientamento, la norma è attuazione del principio sancito dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 34 del 1973, per la quale «in sede processuale può essere utilizzato solo il materiale rilevante per l’imputazione di cui si discute»[4].

È stato osservato, tuttavia, che la Consulta «stava affrontando il problema di un’effettiva tutela della privacy, che sarebbe arbitrariamente violata qualora in dibattimento filtrassero registrazioni irrilevanti; nemmeno sfiorato, invece, il tema dell’utilizzazione in altri procedimenti»[5].

Un diverso orientamento sostiene che l’utilizzazione delle intercettazioni in un altro procedimento inciderebbe sulla garanzia della motivazione di cui all’art. 15 Cost., poiché la verifica della sussistenza dei presupposti per il rilascio del decreto autorizzativo verrebbe effettuata «con riferimento ad un diverso contesto d’indagine senza avere riguardo alla posizione dell’imputato nel procedimento ad quem»[6]. L’art. 270, dunque, limitando a specifiche ipotesi la possibilità di utilizzare i risultati delle intercettazioni in diversi procedimenti, presenta una «formula di compromesso», in quanto «accetta la realtà di una motivazione ormai “disgregata”, ma solo per esigenze di giustizia in ordine a reati presuntivamente capaci di destare particolare allarme sociale»[7].   

In altri termini, la norma evita il rischio che il provvedimento autorizzativo con cui le operazioni sono state disposte nel procedimento a quo costituisca una “inammissibile autorizzazione in bianco” a eseguire le intercettazioni[8], come anche asserito dalla Consulta nella sentenza n. 366 del 1991.

In particolare, la Corte afferma che «l’art. 270 c.p.p. costituisce l’attuazione del bilanciamento di due valori costituzionali fra loro contrastanti: il diritto dei singoli individui alla libertà e alla segretezza delle loro comunicazioni e l’interesse pubblico a reprimere i reati e a perseguire in giudizio coloro che delinquono»[9]. Aggiunge, inoltre: «[…] in base all’art. 2 della Costituzione, il diritto a una comunicazione libera e segreta è inviolabile, nel senso generale che il suo contenuto essenziale non può essere oggetto di revisione costituzionale, in quanto incorpora un valore della personalità avente un carattere fondante rispetto al sistema democratico voluto dal Costituente. […] in base all’art. 15 della Costituzione, lo stesso diritto è inviolabile nel senso che il suo contenuto di valore non può subire restrizioni o limitazioni da alcuno dei poteri costituiti se non in ragione dell’inderogabile soddisfacimento di un interesse pubblico primario costituzionalmente rilevante, sempreché l’intervento limitativo posto in essere sia strettamente necessario alla tutela di quell’interesse e sia rispettata la duplice garanzia che la disciplina prevista risponda ai requisiti propri della riserva assoluta di legge e la misura limitativa sia disposta con atto motivato dell’autorità giudiziaria».

La Corte precisa che, senza alcun dubbio, l’esigenza di amministrare la giustizia e, in particolare, quella di reprimere i reati, corrisponde a un interesse pubblico primario, costituzionalmente rilevante.

La Consulta ha confermato questo orientamento con la sentenza n. 63 del 1994, affermando che, «nell’ambito di un contesto sociale caratterizzato dalla seria minaccia alla convivenza sociale e all’ordine pubblico rappresentata dalla criminalità organizzata, la norma che eccezionalmente consente, in casi tassativamente indicati dalla legge, l’utilizzazione delle intercettazioni telefoniche in procedimenti diversi, limitatamente all’accertamento di una categoria predeterminata di reati presuntivamente capaci di destare particolare allarme sociale, costituisce indubbiamente un non irragionevole bilanciamento operato discrezionalmente dal legislatore fra il valore costituzionale rappresentato dal diritto inviolabile dei singoli individui alla libertà e alla segretezza delle loro comunicazioni   e   quello   rappresentato   dall’interesse   pubblico primario alla repressione dei reati e al perseguimento in giudizio di coloro che delinquono»[10].

4. L’interpretazione della locuzione “procedimenti diversi”

La questione ermeneutica maggiormente dibattuta è quella relativa alla locuzione “procedimenti diversi”.

Preliminarmente, occorre chiarire il significato che il legislatore ha voluto attribuire alla parola “procedimento”, cioè se ha inteso fare riferimento anche alla fase delle indagini preliminari ovvero circoscrivere il divieto di cui all’art. 270 c. 1 c.p.p. alla fase successiva all’esercizio dell’azione penale da parte del P.m., vale a dire al processo.

È evidente che nella seconda ipotesi i risultati delle intercettazioni potrebbero comunque essere utilizzati nella fase delle indagini preliminari al fine della ricostruzione dei fatti da parte del P.m. Tale esito interpretativo va, però, escluso, essendo risolutiva dell’interrogativo la scelta del legislatore di sostituire, nella versione definitiva della disposizione, il termine “processi” con quello “procedimenti”. Da ciò si desume, infatti, la chiara intenzione di fare riferimento a una nozione più ampia di procedimento, non confinata alla fase del processo.

Ciò premesso, occorre affrontare la vexata quaestio relativa al significato dell’espressione “procedimenti diversi”.

Secondo un primo orientamento, «l’endiadi “procedimento diverso” corrisponde a “fatto diverso”: ogni qualvolta il giudice è in presenza di un accadimento che palesa una struttura differenziata sul piano soggettivo e oggettivo, il procedimento non potrà che essere diverso ai fini del divieto di cui all’art. 270[11]», alla luce del principio di necessaria correlazione tra motivi del decreto di autorizzazione e utilizzabilità dei risultati delle intercettazioni. 

Questo primo orientamento avrebbe come appiglio normativo l’art. 335 c.p.p., derivandone, alla luce di una lettura “formale”, che il procedimento diverso deve essere individuato in base all’indicazione del reato, della persona alla quale il reato è attribuito, della data e del numero progressivo di iscrizione, per cui si ha procedimento diverso se è differente uno di questi elementi[12].

Tale tesi, però, non può essere condivisa, in quanto non conforme alla disciplina relativa alle intercettazioni. Si consideri, infatti, che le operazioni possono essere eseguite anche quando si procede contro ignoti e, se poi viene individuato l’autore del fatto, il suo nome viene iscritto nel registro di cui all’art. 335 c.p.p.: stando alla tesi criticata, il procedimento sarebbe diverso e i risultati delle intercettazioni non sarebbero utilizzabili[13].

Inoltre, il procedimento sarebbe diverso anche qualora il P.m., autorizzato alla riapertura delle indagini, provvedesse a una nuova iscrizione ai sensi dell’art. 414 c.p.p. e dell’art. 335 c.p.p.[14]

È bene evidenziare, altresì, che a questa prima tesi si contrappone il dato testuale: se il legislatore avesse voluto disporre l’inutilizzabilità dei risultati delle intercettazioni per reati diversi, cioè per fatti materiali ulteriori rispetto a quelli in relazione ai quali è intervenuta l’autorizzazione, non avrebbe fatto riferimento ai “diversi procedimenti”, ma proprio ai “reati diversi”[15], come, del resto, è previsto dal nuovo c. 1-bis.

  Secondo un diverso orientamento, dominante in giurisprudenza, la nozione di “diverso procedimento” ha natura sostanziale e, in quanto tale, non può ricollegarsi a un dato puramente formale, come il numero di iscrizione nel registro delle notizie di reato; pertanto, ai fini del divieto di utilizzazione previsto dall’articolo 270 c. 1 c.p.p., nel concetto di “diverso procedimento” non rientra quello che è strettamente connesso o collegato sotto il profilo oggettivo, probatorio e finalistico a quello in cui il mezzo di ricerca della prova viene disposto[16].

Recentemente, le Sezioni Unite sono intervenute sul problema enunciando il seguente principio di diritto: «Il divieto di cui all’art. 270 c.p.p., di utilizzazione dei risultati di intercettazioni di conversazioni in procedimenti diversi da quelli per i quali siano state autorizzate le intercettazioni – salvo che risultino indispensabili per l’accertamento di delitti per i quali è obbligatorio l’arresto in flagranza – non opera con riferimento ai risultati relativi a reati che risultino connessi ex art. 12 c.p.p. a quelli in relazione ai quali l’autorizzazione era stata ab origine disposta, sempreché rientrino nei limiti di ammissibilità previsti dalla legge»[17]. Infatti, afferma la Corte che il legame sostanziale tra i reati connessi ai sensi dell’art. 12 c.p.p. esclude che l’autorizzazione concessa dal giudice assuma la fisionomia di un’“autorizzazione in bianco”.

Diversamente avviene, invece, per le ipotesi di collegamento ex art. 371 c.p.p., eccetto, naturalmente, quelle di connessione. In tali ipotesi, infatti, le relazioni tra i reati non presuppongono quel necessario legame originario e sostanziale che consente di ricondurre all’originaria autorizzazione anche il reato oggetto del procedimento connesso ex art. 12 c.p.p. Precisano gli Ermellini che, in riferimento alle ipotesi di cui all’art. 371 c. 2 lett. b c.p.p., non è possibile giungere a una conclusione diversa sulla base di un’argomentazione che fa leva sull’art. 17 c.p.p., il quale, nel disciplinare la riunione di processi, richiama sia i casi di connessione ex art. 12 c.p.p. sia quelli di collegamento ex art. 371 c. 2 lett. b c.p.p. L’istituto di cui all’art. 17 c.p.p., infatti, altro non è che un criterio di mera organizzazione del lavoro giudiziario, non idoneo a esprimere il legame sostanziale tra i diversi reati indispensabile per considerare non diverso il procedimento ai sensi dell’art. 270 c.p.p.[18] 

Le Sezioni Unite, con il principio di diritto sopra enunciato, hanno chiarito che i risultati dell’intercettazione autorizzata possono essere utilizzati in un procedimento connesso ex art. 12 c.p.p. al fine di accertare un reato che rientra nei limiti di ammissibilità di cui all’art. 266 c.p.p., i quali sono «espressione diretta e indefettibile della riserva assoluta di legge ex art. 15 Cost., che governa la materia delle intercettazioni, e dell’istanza di rigorosa – e inderogabile – tassatività che da essa discende, riconnettendosi alla natura indubbiamente eccezionale dei limiti apponibili a un diritto personale di carattere inviolabile, quale la libertà e la segretezza delle comunicazioni (art. 15 Cost.) »[19].

Sebbene la giurisprudenza maggioritaria condivida la tesi formulata dalle Sezioni Unite, parte della dottrina è critica verso tali costruzioni interpretative poiché non farebbero altro che aggirare il divieto legislativo[20].

La questione relativa al significato della locuzione “procedimento diverso”, dunque, risulta ancora estremamente controversa, mantenendosi viva la possibilità di un futuro intervento del legislatore, il quale, con la riforma del 2020, ha perso una buona occasione per chiarire la portata della norma.

A sommesso parere di chi scrive, senza pretesa alcuna di risoluzione definitiva della questione, in una prospettiva de iure condendo, sarebbe opportuna l’aggiunta nella disposizione della previsione secondo cui il divieto non trova applicazione quando i procedimenti diversi sono connessi ai sensi dell’art. 12 c.p.p. Attraverso tale riformulazione, si recupererebbe la nozione formale di “diverso procedimento” – evitando quelle che potremmo definire “acrobazie ermeneutiche”, forse troppo forzate, operate dalla giurisprudenza – pur senza contraddire la posizione delle Sezioni Unite, che, però, hanno dato un’interpretazione sostanziale alla locuzione “procedimenti diversi”, andando oltre il dato testuale.

Del resto, se la ratio della norma è quella di tutelare la garanzia della motivazione contenuta nell’atto di autorizzazione, il legame sostanziale che caratterizza le ipotesi di connessione impedisce di considerare il provvedimento una “autorizzazione in bianco”.

Tuttavia, a seguito di una siffatta modifica, non andrebbero sottovalutate le difficoltà interpretative derivanti da una nozione rigorosamente formale di “diverso procedimento” (sono state prima richiamate due ipotesi: quella in cui le intercettazioni vengono eseguite quando si procede contro ignoti e, essendo successivamente individuato l’autore del fatto, il suo nome viene iscritto nel registro di cui all’art. 335 c.p.p.; e quella in cui il P.m., autorizzato alla riapertura delle indagini, provvede a una nuova iscrizione). Pertanto, sarebbe più opportuno un riferimento a “procedimenti relativi a reati diversi”, anziché a “procedimenti diversi”, intendendosi per “reati diversi” fatti materiali ulteriori rispetto a quelli per cui è stata autorizzata l’intercettazione.

Ma vi è di più. L’aggiunta della previsione secondo cui il divieto non trova applicazione quando i procedimenti relativi a reati diversi sono connessi ai sensi dell’art. 12 c.p.p. porterebbe con sé il rischio di interpretare la disposizione nel senso che, ogniqualvolta ricorra tale ipotesi, è possibile la circolazione dei risultati delle intercettazioni per l’accertamento di qualsiasi reato.

Dunque, per ragioni di coerenza sistematica, al fine di assicurare le garanzie cui deve ispirarsi la disciplina relativa a tale materia, questa interpretazione andrebbe evitata attraverso l’inserimento nella disposizione anche della previsione secondo cui devono comunque essere rispettati i limiti di cui all’art. 266 c.p.p. In caso contrario, infatti, si prospetterebbe il pericolo di una prevalenza dell’interesse alla non dispersione della prova e all’accertamento dei reati, con il conseguente sacrificio dei diritti di cui all’art. 15 Cost. sull’altare dell’efficientismo, andando contro la logica del bilanciamento di interessi meritevoli di tutela che deve guidare il legislatore[21].

Inoltre, appare ormai inadeguato il riferimento ai reati per cui è obbligatorio l’arresto in flagranza poiché, a seguito delle numerose modifiche apportate all’art. 380 c.p.p., il catalogo di tali reati «non risponde più al criterio della maggiore gravità delle condotte, risultando piuttosto ispirato al principio della maggiore evidenza della situazione di flagranza»[22]. Pertanto, sarebbe auspicabile, nell’ottica di una futura riforma, l’elaborazione di un nuovo elenco di fattispecie, selezionate in ragione del loro disvalore; come il legislatore ha fatto, in parte, con la L. n. 7/2020, introducendo il riferimento anche ai reati di cui all’art. 266 c. 1 c.p.p.

La giurisprudenza ha chiarito che il divieto di cui all’art. 270 c. 1 c.p.p. attiene solo alla valutazione dei risultati delle intercettazioni come elementi di prova, ma non preclude la possibilità di dedurre dagli stessi notizie di nuovi reati, quale punto di partenza di nuove indagini, atteso che la notitia criminis non necessita di alcun sostrato probatorio[23].

Parte della dottrina è critica verso questo orientamento, ritenendo che, a differenza del previgente art. 226-quater, il fatto che l’art. 270 c.p.p. non espliciti che si tratti di inutilizzabilità dei risultati delle intercettazioni “come prove” è indice dell’intenzione del legislatore di porre un divieto a qualsiasi utilizzo degli stessi[24].

Quest’ultima tesi non è da condividere, in quanto contrastante con l’obbligo del P.m. di iscrivere nell’apposito registro una notitia criminis che gli è pervenuta o che ha acquisito, nonché con quello della polizia giudiziaria di riferire senza ritardo al P.m. una notizia di reato che ha acquisito[25].

Su tale questione si è pronunciata anche la Corte costituzionale con la sentenza n. 366 del 1991, affermando il principio secondo cui il divieto di utilizzazione dei risultati delle intercettazioni legittimamente disposte in un determinato procedimento deve essere riferito all’utilizzabilità degli stessi risultati come elementi di prova, per cui «può concludersi che il divieto disposto dall’art. 270 c.p.p. è estraneo al tema della possibilità di dedurre “notizie di reato” dalle intercettazioni legittimamente disposte nell’ambito di altro procedimento».

A mio giudizio, inoltre, il dubbio interpretativo dovrebbe essere stroncato alla radice, in quanto, qualora si deduca dai risultati delle intercettazioni una notizia di reato, atteso che il procedimento penale inizia proprio con l’iscrizione di quest’ultima nell’apposito registro di cui all’art. 335 c.p.p., non si può parlare di utilizzazione dei suddetti risultati “in procedimenti diversi”, come recita l’art. 270 c.p.p.: il “procedimento diverso”, infatti, non è ancora iniziato.  

In merito alla questione da ultima affrontata, tornando a riflettere su un’ipotetica diversa formulazione della disposizione, si potrebbe introdurre l’espressa previsione del divieto di utilizzazione dei risultati delle intercettazioni “come prove”, così come era previsto dall’abrogato art. 226-quater­. Si tratterebbe di una modifica volta a una maggiore chiarezza espositiva, ma non necessaria, alla luce delle riflessioni di cui sopra, ai fini di una corretta interpretazione del testo.

Un’ultima considerazione di carattere grammaticale. Nel c. 1 dell’art. 270 c.p.p. viene utilizzato il participio passato “disposti” che concorda in genere e numero con il sostantivo “risultati”. In realtà, ad essere disposti non sono i risultati, ma le intercettazioni dalle quali derivano dei risultati. Non avendo la riforma del 2020 ritoccato il testo in tal senso, sarebbe opportuno correggere questa piccola imprecisione in sede di un’eventuale futura modifica della disposizione. 

5. Considerazioni conclusive

La disciplina delle intercettazioni e, in particolare, quella relativa alla circolazione dei risultati di esse è estremamente complessa e caratterizzata da questioni ancora irrisolte.

Molteplici sono stati nel corso degli anni gli interventi del legislatore, costantemente chiamato a stare al passo con l’evoluzione tecnologica – che assume un ruolo estremamente importante per lo svolgimento delle operazioni di intercettazione – e a bilanciare gli interessi meritevoli di tutela che entrano in gioco: da una parte, la libertà e la segretezza delle comunicazioni, qualificate come diritti inviolabili della persona ex art. 15 Cost.; dall’altra, l’esigenza di prevenzione e repressione di determinate fattispecie criminose connotate da un elevato grado di disvalore sociale.

In conclusione, alla luce delle considerazioni esposte nei precedenti paragrafi, apportando al testo le modifiche prospettate e auspicate, il c. 1 dell’art. 270 c.p.p. potrebbe essere così riformulato: «I risultati delle intercettazioni non possono essere utilizzati in procedimenti relativi a reati diversi da quelli per i quali le intercettazioni sono state disposte, salvo che risultino indispensabili per l’accertamento di delitti per i quali è obbligatorio l’arresto in flagranza e dei reati di cui all’art. 266, comma 1. Il divieto non si applica nelle ipotesi di connessione di cui all’articolo 12, fermi i limiti previsti dall’articolo 266»[26].

 

 

 

 

 


[1] Prima dell’introduzione dell’art. 226-quater, l’art. 226, così come modificato dalla L. n. 517/1955 disponeva che, per intercettare o impedire comunicazioni telefoniche o prenderne cognizione, gli ufficiali di polizia giudiziaria avrebbero dovuto munirsi di autorizzazione dell’autorità giudiziaria più vicina, concessa con decreto motivato.
[2] GROSSO, Trasmissione di atti, informazioni e dati nel processo, Milano, 1987, 82. Nonostante le critiche, non mancò un diverso indirizzo di pensiero, secondo il quale il divieto costituiva «una garanzia collaterale di grande rilievo nell’orientamento volto a delimitare rigorosamente il ricorso alle intercettazioni e ad evitare sacrifici della segretezza non direttamente correlati con esigenze probatorie specifiche»: così ILLUMINATI, La disciplina processuale delle intercettazioni, Milano, 1983, 163.
[3] Osserva ILLUMINATI, La disciplina processuale delle intercettazioni, cit., 166 che la formulazione della disposizione non è molto felice, poiché, facendosi riferimento a “reati per i quali il mandato di cattura è obbligatorio anche per taluno soltanto degli imputati”, si passa «dall’individuazione delle fattispecie in astratto […] ad un rinvio alla concreta imputazione che tenga conto anche della situazione effettiva dei singoli accusati (le circostanze aggravanti soggettive possono modificare il regime del mandato di cattura)». Inoltre – continua l’Autore – sulla base del dato testuale, è possibile affermare che la norma si può riferire soltanto ai coimputati del medesimo reato e non anche agli imputati di reati connessi, nonostante la diversa intenzione manifestata nella Relazione ministeriale sul disegno di legge di conversione del d.l. n. 59/1978. Sarebbe stato più opportuno, dunque, fare riferimento soltanto alla gravità oggettiva del reato.
[4] DE GREGORIO, Diritti inviolabili dell’uomo e limiti probatori nel processo penale, in Foro it., 1992, I, 3260.
[5] CAMON, Le intercettazioni nel processo penale, Milano, 1996, 273; in tal senso, anche CARBONE, La nozione di «diverso procedimento» ex art. 270 c.p.p., in Riv. pen., 2007, 307.
[6] ROMBI, La circolazione delle prove penali, Padova, 2003, 217.
Osserva RUGGIERI, Divieti probatori e inutilizzabilità nella disciplina delle intercettazioni telefoniche, Milano, 2001, 106 che il divieto di cui all’art. 270 c.p.p., qualora non fosse stato esplicitamente espresso dal legislatore, si sarebbe dovuto considerare implicito nell’art. 271 c. 1 c.p.p., a norma del quale non possono essere utilizzati i risultati delle intercettazioni che sono state eseguite fuori dei casi consentiti dalla legge, cioè che non sono state autorizzate dal provvedimento del giudice.
[7] CALLARI, La “trasmigrazione” dei risultati delle intercettazioni tra garanzie individuali, esigenze di accertamento dei reati e legalità processuale, in L’indice penale, 2014, 419.
[8] LONGO, L’utilizzazione dei risultati delle intercettazioni in altro procedimento, in Cass. pen., 2007, 861.
[9] C. Cost., 23 luglio 1991, n. 366, in https://www.giurcost.org/.
[10] C. Cost., 24 febbraio 1994, n. 63, in https://www.giurcost.org/.
[11] NUZZO, Sull’acquisizione ex art. 507 c.p.p. di intercettazioni telefoniche disposte in altri procedimenti (nota a Corte d’assise S. Maria C. V., 5 marzo 2003), in Cass. pen., 2003, 2801.
[12] NUZZO, Sull’acquisizione ex art. 507 c.p.p. di intercettazioni telefoniche disposte in altri procedimenti (nota a Corte d’assise S. Maria C. V., 5 marzo 2003), cit., 2794 ss.
[13] CANTONE, L’elaborazione giurisprudenziale sull’art. 270 c.p.p.; brevi riflessioni (nota a Cass. pen., Sez. I, 11 dicembre 1998, n. 6242), in Cass. pen., 2000, 2047.
[14] ROMBI, La circolazione delle prove penali, cit., 224 ss., secondo cui sarebbe stato più corretto, sul piano lessicale, un riferimento al “reato diverso” «inteso come fatto materiale ulteriore rispetto a quello per il quale era stata disposta l’intercettazione». In tal senso, anche RUGGIERI, Divieti probatori e inutilizzabilità nella disciplina delle intercettazioni telefoniche, cit., 104 e CIAPPI, Limiti all’utilizzabilità delle intercettazioni provenienti aliunde (commento a Trib. Brescia, 24 gennaio 1996), in Dir. pen. proc., 1996, 1247.
[15] CANTONE, L’elaborazione giurisprudenziale sull’art. 270 c.p.p.; brevi riflessioni (nota a Cass. pen., Sez. I, 11 dicembre 1998, n. 6242), cit., 2047, secondo cui la norma sarebbe stata così formulata: «le intercettazioni non sono utilizzabili per reati diversi da quelli per i quali è intervenuta l’autorizzazione, tranne che si tratti di delitti per cui è obbligatorio l’arresto in flagranza».
[16] Cass. pen., Sez. II, 3 febbraio 2006, n. 7595., in Riv. pen., 2007, 306. In senso conforme: Cass. pen., Sez. I, 11 dicembre 1998, n. 6242, in Cass. pen., 2000, 2041; Cass. pen., Sez. II, 19 gennaio 2004, n. 9579, in C.E.D. Cass., 228384; Cass. pen., Sez. IV, 22 giugno 2005, n. 31402, in Arch. nuova proc. pen., 2006, 65; Cass. pen., Sez. III, 13 novembre 2007, n. 348, in C.E.D. Cass., 238779; Cass. pen., Sez. VI, 2 dicembre 2009, n. 11472, in C.E.D. Cass., 246525; Cass. pen., Sez. III, 23 settembre 2014, n. 52503, in C.E.D. Cass., 261971. Si veda, in proposito, anche Cass. pen., Sez. VI, 16 ottobre 1995, n. 1626, in Cass. pen., 1997, 1436, secondo cui, qualora il P.m., autorizzato alla riapertura delle indagini, provveda a una nuova iscrizione ai sensi dell’art. 414 c.p.p. e dell’art. 335 c.p.p., non si instaura un procedimento diverso e possono legittimamente essere utilizzati i risultati delle indagini già svolte, compresi gli esiti delle intercettazioni.
[17] Cass. pen., Sez. Un., 28 novembre 2019, n. 51, in http://www.giurisprudenzapenale.com/. In tal senso, anche Cass. pen., Sez. V, 9 aprile 2020, n. 11745, in http://www.giurisprudenzapenale.com/.
[18] Cass. pen., Sez. Un., 28 novembre 2019, n. 51, cit.
[19] Le Sezioni Unite richiamano le sentenze n. 63 del 1994 e n. 366 del 1991 della Corte costituzionale.
[20] RUGGIERI, Divieti probatori e inutilizzabilità nella disciplina delle intercettazioni telefoniche, cit., 105, la quale ritiene che per “procedimenti diversi” bisogna intendere “reati diversi”, considerando che, «nel rispetto della riserva di legge prevista dalla Costituzione, le disposizioni codicistiche sono tutte di segno univoco», in quanto «nella disciplina di cui agli artt. 266 ss. c.p.p., il concetto di procedimento è indicato all’unico fine di specificare che, al suo interno, le intercettazioni sono consentite esclusivamente per determinate fattispecie e, con riguardo al divieto di cui all’art. 270 comma 1 prima parte, che i risultati legittimamente ottenuti al fine di accertare quel determinato reato non possono essere utilizzati in procedimenti diversi da quelli in cui le intercettazioni sono disposte». Afferma CALLARI, La “trasmigrazione” dei risultati delle intercettazioni tra garanzie individuali, esigenze di accertamento dei reati e legalità processuale, cit., 403 che «non è possibile ignorare i rischi insiti nella delineata scelta interpretativa, primo fra tutti il pericolo di un incolmabile distacco fra motivazione del decreto autorizzativo e reato per cui si indaga», svuotando di contenuto il divieto probatorio previsto dalla norma.
[21] A tal proposito, si ritiene opportuno richiamare la sentenza n. 85 del 2013 della Corte costituzionale, in cui si afferma che «la Costituzione italiana, come le altre Costituzioni democratiche e pluraliste contemporanee, richiede un continuo e vicendevole bilanciamento tra princìpi e diritti fondamentali, senza pretese di assolutezza per nessuno di essi». La qualificazione come “primari” di determinati valori significa, pertanto, che essi «non possono essere sacrificati ad altri interessi, ancorché costituzionalmente tutelati, non già che gli stessi siano posti alla sommità di un ordine gerarchico assoluto. Il punto di equilibrio, proprio perché dinamico e non prefissato in anticipo, deve essere valutato – dal legislatore nella statuizione delle norme e dal giudice delle leggi in sede di controllo – secondo criteri di proporzionalità e di ragionevolezza, tali da non consentire un sacrificio del loro nucleo essenziale».
[22] Parere del Consiglio Superiore della Magistratura sul disegno di legge di conversione del decreto-legge n. 161/2019.
[23] Ex multis: Corte cost., 23 luglio 1991, n. 366, in http://www.giurcost.org / (infra, nel testo); Cass. pen., Sez. II, 23 aprile 2010, n. 19699, in C.E.D. Cass., 247104; Cass. pen., Sez. II, 13 dicembre 2016, n. 17759, in C.E.D. Cass., 270219.
[24] DE LEO, Vecchio e nuovo in materia di intercettazioni telefoniche riguardanti reati non previsti nel decreto di autorizzazione, in Foro it., 1989, II, 19.
[25] ROMBI, La circolazione delle prove penali, cit., 233; CAMON, Le intercettazioni nel processo penale, cit., 283, il quale, inoltre, afferma che la notizia di reato «non ha bisogno di alcun fondamento probatorio, perché la legge non esige che, per annotarla nel registro, debbano ricorrere “indizi”, “fondati sospetti”, “presupposti” eccetera: iscrivendola, quindi, non si compie una “utilizzazione” di prove, nel senso giuridico del termine».
[26] Nella formulazione qui ipotizzata si è mantenuto il riferimento ai “reati di cui all’articolo 266, comma 1” e ai “delitti per i quali è obbligatorio l’arresto in flagranza”, sebbene, come affermato in precedenza, relativamente a questi ultimi sia auspicabile una nuova selezione di reati caratterizzati da maggiore gravità.

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