Vaccino anti-Covid: non è un farmaco sperimentale

Vaccino anti-Covid: non è un farmaco sperimentale

Una recente pronuncia del TAR Friuli, sentenza 261/2021, afferma che la sperimentazione del vaccino anti-Covid si è conclusa con l’autorizzazione all’immissione in commercio ottenuta dopo un rigoroso processo di valutazione scientifica.

Il caso. La ricorrente, dottoressa in regime di libera professione, ha proposto ricorso per ottenere l’annullamento – previa sospensione cautelare dell’efficacia – del provvedimento adottato dall’Azienda sanitaria del Friuli occidentale (ASFO) ai sensi dell’art. 4, comma 6 del d. l. 44 del 2021 (conv. in l. 76 del 2021), con cui è stata accertata l’inosservanza dell’obbligo vaccinale per la prevenzione dell’infezione da SARS-CoV-2, previsto dal comma 1 del medesimo articolo.

Il Tribunale Amministrativo Regionale adito, in sede di discussione cautelare, trattenendo la controversia in decisione nel merito – ricorrendo i presupposti ex art. 60 Codice del Processo Amministrativo – ha respinto, in toto, il proposto ricorso.

I punti del ricorso. Con il primo motivo di ricorso, la ricorrente ha eccepito la non sussistenza di una “inosservanza dell’obbligo vaccinaleex art. 4, comma 6 del d. l. 44 del 2001, in quanto mancherebbero delle sostanze propriamente efficaci contro l’infezione da SARS-CoV-2 e, come tali, idonee al perseguimento dello scopo sotteso all’obbligo.

Argomentazioni, queste, censurate dalla TAR il quale, menzionando l’ultimo bollettino sull’andamento dell’epidemia prodotto dall’ISS – organo tecnico-scientifico del Servizio sanitario nazionale istituzionalmente investito delle funzioni di ricerca e controllo in materia di salute pubblica (art. 1 del relativo Statuto, approvato con D.M. 24.10.2014) – ha sottolineato che “l’efficacia complessiva della vaccinazione incompleta nel prevenire l’infezione è pari al 63,2% (95%IC: 62,8%-63,5%), mentre quella della vaccinazione completa è pari al 78,1% (95%IC: 77,9%-78,3%). Questo risultato indica che nel gruppo dei vaccinati con ciclo completo il rischio di contrarre l’infezione si riduce del 78% rispetto a quello tra i non vaccinati”.

Mediante l’utilizzo della evidenza dei dati statistici, il Collegio adito ha affermato che la profilassi vaccinale ha una chiara efficacia preventiva, oltre che dei sintomi della malattia, anche della trasmissione dell’infezione.

Ciò premesso, il ragionamento posto in essere dalla ricorrente non sarebbe comunque condivisibile “laddove afferma che un’eventuale efficacia preventiva della sola malattia confinerebbe la scelta vaccinale del sanitario in una dimensione strettamente individuale e quindi in nessun modo coercibile”. Di fatto, l’interesse a prevenire lo sviluppo della malattia da Covid-19 esistente in capo agli operatori sanitari assume una valenza pubblicistica poiché garantisce la continuità delle loro prestazioni professionali e, quindi, l’efficienza del servizio fondamentale cui presiedono.

È di valenza pubblicistica, inoltre, anche l’interesse a mitigare l’impatto sul SSN – in termini, soprattutto, di ricoveri e occupazione delle terapie intensive – che potrebbe comportare l’incontrollata diffusione della malattia da Covid-19 in capo a soggetti naturalmente esposti, in misura maggiore rispetto alla media, al rischio di contagio e che costituiscono un insieme numericamente considerevole della popolazione nazionale (dai dati ISTAT 2019 si contano nel nostro paese 241.945 medici, tra generici e specialisti, 51 954 odontoiatri, 17.253 ostetriche, 367.684 infermieri, 75.000 farmacisti, senza contare OSS, dipendenti di RSA e altri operatori di interesse sanitario).

Per il Tribunale adito, quindi, in capo ai sanitari sussiste un chiaro obbligo vaccinale ex lege riconosciuto garantito dalla chiara efficienza dei vaccini utilizzati non qualificabili come sperimentali.

Con un secondo motivo, la ricorrente ha sostenuto che l’obbligo vaccinale sancito dall’art. 4 del d. l. 44 del 2021, avendo ad oggetto un trattamento sanitario sperimentale, contrasterebbe con le previsioni costituzionali e con una serie di norme di fonte sovranazionale volte a tutelare la dignità umana e il diritto ad esprimere un consenso informato; la ricorrente, in sintesi, sostiene che i vaccini attualmente disponibili si troverebbero ancora in fase di mera sperimentazione.

Motivo, anche questo, dichiarato infondato.

Ha precisato il TAR che i quattro prodotti ad oggi utilizzati nella campagna vaccinale sono stati regolarmente autorizzati dalla Commissione, previa raccomandazione dell’EMA, attraverso la procedura di autorizzazione condizionata (c.d. CMA, Conditional marketing authorisation), disciplinata dall’art. 14-bis del Reg. CE 726/2004 del Parlamento Europeo e del Consiglio e dal Reg. CE 507/2006 della Commissione.

La “sperimentazione” dei vaccini si è, dunque, conclusa con la loro autorizzazione all’immissione in commercio, all’esito di un rigoroso processo di valutazione scientifica.

Pertanto l’equiparazione dei vaccini a “farmaci sperimentali” rappresenta una mera interpretazione forzata e priva di reale riscontro.

Con un terzo motivo, la ricorrente ha contestato la ragionevolezza della disposizione dell’articolo 4, comma 8, pocanzi citato nella parte in cui fa conseguire alla mancata sottoposizione al vaccino la sospensione dall’esercizio della professione e quindi la radicale impossibilità di ottenere un reddito.

Osserva il Collegio che la disposizione censurata, nella specie, è riferita al solo personale sanitario dipendente, facendo inequivoco riferimento al potere organizzativo del datore di lavoro e all’impossibilità di assegnare il non vaccinato a mansioni che non implichino un rischio di diffusione del contagio.

La stessa, quindi, non è quindi applicabile alla ricorrente, la quale riveste la qualifica di libera professionista.

Ciò chiarito, il Tribunale ha sottolineato come non si ravvisi, in ogni caso, alcun difetto di ragionevolezza della disposizione in quanto del tutto giustificata è l’individuazione dei soggetti cui l’obbligo è riferito – ossia “gli esercenti le professioni sanitarie e gli operatori di interesse sanitario” – i quali entrano quotidianamente in relazione con una collettività indifferenziata, composta anche di individui fragili o in gravi condizioni di salute, che non può scegliere di sottrarsi al contatto, né informarsi sullo stato di salute dei sanitari e sulla loro sottoposizione alla profilassi vaccinale.

Con riferimento al bilanciamento di interessi sotteso alla misura, il Collegio ha ritenuto che la primaria rilevanza del bene giuridico protetto, ossia la salute collettiva, giustifichi la temporanea compressione del diritto al lavoro del singolo che non voglia sottostare all’obbligo vaccinale: ogni libertà individuale trova infatti un limite nell’adempimento dei doveri solidaristici, imposti a ciascuno per il bene della comunità cui appartiene (art. 2 della Cost.).

Dal punto di vista della proporzionalità, inoltre, si è evidenziato che l’art. 4 del d. l. 44 del 2021 prevede comunque un meccanismo di esenzione dall’obbligo vaccinale, per i casi di “accertato pericolo per la salute, in relazione a specifiche condizioni cliniche documentate, attestate dal medico di medicina generale”, e che la sospensione, anche nelle ipotesi di permanente e ingiustificato inadempimento, ha natura temporanea, estendendosi “fino al completamento del piano vaccinale nazionale e comunque non oltre il 31 dicembre 2021”.

In sintesi le conseguenze negative derivanti dall’inadempimento dell’obbligo vaccinale, dunque, sono scongiurate in caso di accertata impossibilità di sottoporsi al vaccino e, in ogni caso, temporalmente predeterminate.

Con il quarto motivo, la ricorrente ha, inoltre, censurato la carenza dei presupposti per imporre con legge un trattamento sanitario (art. 32 Cost.); nella specie, per la stessa l’obbligo vaccinale sacrificherebbe in modo rilevante il diritto fondamentale alla salute di ciascun individuo.

Il Tribunale, interrogato sul punto, ha chiarito che le condizioni necessarie all’imposizione di una profilassi vaccinale obbligatoria sono state di recente ribadite – anche – dalla Corte costituzionale (Corte cost., 18 gennaio 2018, n. 5), la quale ha dichiarato la conformità a Costituzione delle dieci vaccinazioni imposte ai minori fino a sedici anni di età con il d.l. 73 del 2017 (convertito in l. 119 del 2017).

Secondo la Corte, “la legge impositiva di un trattamento sanitario non è incompatibile con l’art. 32 Cost.: se il trattamento è diretto non solo a migliorare o a preservare lo stato di salute di chi vi è assoggettato, ma anche a preservare lo stato di salute degli altri; se si prevede che esso non incida negativamente sullo stato di salute di colui che è obbligato, salvo che per quelle sole conseguenze che appaiano normali e, pertanto, tollerabili; e se, nell’ipotesi di danno ulteriore, sia prevista comunque la corresponsione di una equa indennità in favore del danneggiato, e ciò a prescindere dalla parallela tutela risarcitoria (sentenze n. 258 del 1994 e n. 307 del 1990)”; tutti e tre i presupposti sussistono nel caso in esame.

Nella specie:

– quanto alla strumentalità dell’obbligo vaccinale dei sanitari rispetto alla tutela della salute collettiva (prima condizione), il Tribunale ha ribadito la comprovata efficacia del vaccino nel prevenire il contagio e alla dimensione pubblicistica dell’interesse alla vaccinazione del personale sanitario;

– quanto all’inesistenza di conseguenze negative per chi è sottoposto al trattamento, che vadano oltre la normalità e la tollerabilità (seconda condizione), il Tribunale ha chiarito che si deve partire dal presupposto che il vaccino, come tutti i farmaci, non può essere considerato del tutto esente da rischi;

– quanto, in particolare, alla farmacovigilanza sui vaccini Covid-19, il Tribunale ha ribadito come l’ultimo rapporto ad oggi disponibile evidenzia che gli eventi avversi – cioè gli episodi sfavorevoli verificatisi dopo la somministrazione, a prescindere dalla riconducibilità alla stessa dal punto di vista causale – sono stati 84.322, con un tasso di segnalazione – misura del rapporto fra il numero di segnalazioni inserite nel sistema di Farmacovigilanza e numero di dosi somministrate – pari a 128 ogni 100.000 dosi. Di queste, solo il 12,8% ha avuto riguardo ad eventi gravi (con la precisazione che ricadono in tale categoria, definita in base a criteri standard, conseguenze talvolta non coincidenti con la reale gravità clinica dell’evento). Di tutte le segnalazioni gravi (16 ogni 100.000 dosi somministrate), solo il 43% di quelle esaminate finora è risultata correlabile alla vaccinazione. Si tratta di dati comparabili a quelli emersi in esito all’attività di farmacovigilanza condotta sugli altri vaccini esistenti (alcuni dei quali già oggetto di somministrazione obbligatoria ai sensi del d.l. 73 del 2017), che sono parimenti consultabili sul sito dell’AIFA.

Le risultanze statistiche evidenziano dunque l’esistenza di un bilanciamento rischi/ benefici assolutamente accettabile. I danni conseguenti alla somministrazione del vaccino per il SARS-CoV-2 devono ritenersi, considerata l’estrema rarità del verificarsi di eventi rari e correlabili, rispondenti ad un criterio di normalità statistica.

Quanto, infine, all’esistenza di un meccanismo indennitario per l’ipotesi di danni ulteriori, i Giudici hanno ricordato come lo stesso è previsto dalla legge 210 del 1992, che riconosce il diritto alla corresponsione di indennizzo da parte dello Stato a fronte di ogni “menomazione permanente della integrità psico-fisica” conseguente ad una vaccinazione obbligatoria. Tale deve senz’altro considerarsi, per gli operatori sanitari, la vaccinazione prescritta dall’art. 4 del d.l. 44 del 2021. A ciò si aggiunga che il campo applicativo dell’indennizzo è stato comunque esteso dalla Corte costituzionale anche alle vaccinazioni c.d. “raccomandate” (Corte cost., 23 giugno 2020, n. 118).

Con il quinto motivo, la ricorrente ha lamentato, un vizio di motivazione dell’atto ancora una volta partendo dal presupposto della natura sperimentale del vaccino, che imporrebbe un onere giustificativo rafforzato.

Trattasi di un ulteriore motivo infondato in quanto, agli occhi del Collegio, non pare possibile imputare al provvedimento impugnato dalla ricorrente vizi riconducibili alla violazione del consenso informato, che sarebbe stato acquisito al momento della somministrazione del farmaco (ma la ricorrente non si è mai presentata all’appuntamento fissato d’ufficio dall’Azienda sanitaria). L’atto si limita ad accertare il fatto oggettivo del mancato adempimento all’obbligo sancito dall’art. 4, comma 1 del d.l. 44 del 2021 e lo fa in maniera esaustiva, ricapitolando – con puntuale riferimento ai diversi atti endoprocedimentali – tutti i passaggi dell’iter previsto dalla legge.

Conclusioni. Alla luce di quanto esposto, le argomentazioni svolte dal giudice amministrativo possono riassumersi come di seguito:

– il vaccino non è in fase di sperimentazione, in quanto l’autorizzazione condizionata con l’immissione in commercio indica la fine della fase di sperimentazione;

– la profilassi vaccinale ha efficacia preventiva, oltre che dei sintomi della malattia, anche della trasmissione dell’infezione, rendendo l’interesse a prevenire la malattia come pubblicistico;

– con riferimento all’obbligo vaccinale previsto per i sanitari, le risultanze statistiche evidenziano l’esistenza di un bilanciamento rischi/ benefici assolutamente accettabile tale da non far presupporre alcuna violazione dei diritti fondamentali previsti nella Carta Costituzionale, per cui le norme che impongono l’obbligo vaccinale integrano i tre presupposti necessari indicati dalla Corte Costituzionale ( 5/2018) per essere compatibile con l’art. 32 Cost.


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