Violenza di genere e protezione internazionale: Cassazione n. 28152/2017

Violenza di genere e protezione internazionale: Cassazione n. 28152/2017

Nel 2002 l’Unhcr aveva già evidenziato come, storicamente, il termine “rifugiato” fosse legato ad un quadro di esperienze tipicamente maschile, trascurando così la condizione in cui si trovavano le donne in alcune zone di provenienza.

La portata innovativa delle sentenze in commento sta nell’aver sancito il diritto alla protezione internazionale per le vittime di violenza di genere, le quali possono vedersi riconosciuto lo status di rifugiato politico o la protezione sussidiaria.

Si tratta di un percorso innovativo che mira a proporre una diversa prospettiva della protezione internazionale.

Per contrastare la tendenza rilevata dall’Unhcr le linee guida tracciate propongono una interpretazione che di conto della specialità della situazione, valorizzando in maniera adeguata le istanze relative al genere e valutando il fondato timore di persecuzione alla luce di tutte le circostanze del caso concreto.

L’analisi della situazione del paese di origine non può, quindi, limitarsi all’esame della sola legislazione esistente: non è sufficiente verificare che alcune pratiche persecutorie siano proibite ma occorre accertare che esse non siano tollerate e che le autorità siano in grado di impedire il loro manifestarsi.

In tal senso si è mossa la Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, firmata ad Istanbul nel 2011.

Tale Convenzione, oltre a prevedere una serie di obblighi di criminalizzazione per gli ordinamenti interni, sancisce che gli Stati firmatari devono adottare ogni misura legislativa o di altro tipo necessaria per garantire che la violenza contro le donne, basata sul genere, possa essere riconosciuta come una forma di persecuzione ai sensi della Convenzione sullo status dei rifugiati del 1951 e come una forma grave di pregiudizio che dia luogo ad una protezione sussidiaria.

In concreto: le parti sono tenute a riconoscere che la violenza di genere può costituire una persecuzione, e sfociare nella concessione dello status di rifugiato, così come può rappresentare un danno grave tale da giustificare il riconoscimento della protezione sussidiaria.

All’interno di tale contesto si inserisce la Sentenza n. 28152/2017 della Corte di Cassazione, la quale si è occupata del caso di una cittadina nigeriana costretta ad abbandonare il proprio paese di origine per essersi rifiutata, dopo la morte del marito, di unirsi in matrimonio con il cognato così come impone la tradizione funebre locale.

In conseguenza del suo rifiuto la donna era stata allontanata dalla sua abitazione, aveva perso l’affidamento dei figli, spogliata di ogni sua proprietà e perseguitata dal fratello del defunto marito.

La richiesta di protezione internazionale veniva rigettata dalla Corte d’Appello di Bologna.

Secondo il collegio bolognese tale situazione non poteva configurare una persecuzione in quanto la richiedente, rivoltasi alle autorità locali nigeriane, aveva potuto sottrarsi all’applicazione del diritto consuetudinario locale e aveva volontariamente scelto di andare via.

Nel caso di specie la Corte di Cassazione ha deciso nel merito e riconosciuto lo status di rifugiato, ritenendo che la decisione della Corte territoriale si ponga in contrasto con il tenore dell’articolo 7 de D.lgs. 251/2007, secondo cui gli atti di persecuzione devono essere sufficientemente gravi, per loro natura o frequenza, da rappresentare una violazione grave dei diritti umani fondamentali, e possono assumere la forma di atti specificatamente diretti contro un genere sessuale o contro l’infanzia.

In particolare, la suprema Corte richiama l’art. 60 della Convenzione di Istanbul e le linee guida dell’Unhcr del 2002, sopra menzionate, le quali al punto 25 evidenziano come in alcuni Stati, la religione assegni particolari ruoli o codici comportamentali rispettivamente alle donne e agli uomini.

In questi casi, una donna, laddove non si attenga al ruolo assegnatole o rifiuti di attenersi ai codici, rischia di essere punita per il suo comportamento e questo rischio può generare in lei un fondato timore di essere perseguitata.

Il mancato attenersi a tali codici potrebbe, infatti, essere percepito come una prova che la donna abbia opinioni religiose inaccettabili. Una donna potrebbe, dunque, dover subire un danno per il suo rifiuto, non importa se reale o supposto, di sposare determinate opinioni, di praticare una religione prescritta o di conformare il suo comportamento agli insegnamenti di una determinata religione.

Nella vicenda sottoposta all’attenzione della Corte di cassazione, la richiedente, professante la religione cristiana, si era rifiutata di sottostare alle regole consuetudinarie del proprio villaggio subendo per tale motivo la persecuzione da parte del cognato oltre che la perdita di alcuni dei suoi diritti fondamentali. Nonostante la stessa si fosse rivolta all’autorità locali, come rilevato dalla Corte d’appello, la sentenza della suprema Corte sottolinea come quest’ultime non avessero impedito che la donna perdesse i suoi figli e i suoi beni.

I giudici della Corte di Cassazione, pertanto, ritengono che i fatti suesposti rientrino a pieno titolo tra quelli a cui fa riferimento la Convenzione di Istanbul e previsti dall’articolo 7 del D.lgs. 251/2007: la donna deve essere considerata vittima di una persecuzione personale e diretta per la sua appartenenze, in quanto donna, ad un gruppo sociale.

Questa pronuncia si inserisce nell’ambito di un recente orientamento inaugurato dalla Sentenza n. 12333/2017 dalla Corte di Cassazione su un caso di violenza domestica.

La vicenda riguardava una cittadina marocchina vittima per anni di abusi e violenze da parte del marito, anche dopo aver ottenuto il divorzio.

A causa di questi episodi, l’ex marito era stato condannato in Marocco alla pena di 3 mesi di reclusione con sospensione condizionale della pena.

Lasciato il suo paese la donna ha fatto richiesta di protezione internazionale, adducendo che in caso di rientro in Marocco sarebbe stata nuovamente esposta agli abusi e alle violenze dell’ex coniuge.

Sia la Commissione Territoriale che il Giudice di primo e secondo grado hanno rigettato la richiesta in ragione del fatto che la vicenda narrata rientrerebbe nell’ambito dei rapporti familiari non meritevoli di protezione internazionale, considerata la possibilità di tutela offerta alla donna dal suo paese di origine.

In questo caso la Suprema Corte ha cassato la Sentenza della corte territoriale romana perché non aveva approfondito la situazione del paese di origine della ricorrente ed accertato l’effettiva capacità delle autorità locali di offrire una protezione adeguata alla donna vittima di violenza. Secondo la Corte, la vicenda della donna marocchina trova tutela nelle previsioni della Convenzione di Istanbul. Ai sensi dell’art. 3, lett. b), della predetta Convenzione si definisce la «violenza domestica» come «tutti gli atti di violenza fisica, sessuale, psicologica o economica che si verificano all’interno della famiglia o del nucleo familiare o tra attuali o precedenti coniugi o partner, indipendentemente dal fatto che l’autore di tali atti condivida o abbia condiviso la stessa residenza con la vittima».

I giudici della suprema Corte aderiscono, in particolare, alla tesi sostenuta nel ricorso secondo cui questa forma di violenza domestica andrebbe ricondotta nell’ambito dei trattamenti inumani e degradanti cui fa riferimento l’art. 14, lett. b), d.lgs 251/2007.

Una simile interpretazione appare coerente con la formulazione dell’art. 60 della Convenzione di Istanbul che, come ricordato, impone agli Stati firmatari di riconoscere la violenza di genere come elemento atto a fondare la protezione sussidiaria.

Giova, infine, ricordare che, oltre alla protezione internazionale, sussiste in Italia la possibilità di rilasciare un permesso per motivi umanitari alle vittime straniere di violenza domestica quando il fatto si verifichi in Italia e non nel Paese di provenienza.

Nel 2013, difatti, è stato inserito nel Testo Unico sull’Immigrazione il nuovo articolo 18 bis che consente il rilascio di un permesso di soggiorno per motivi umanitari alle vittime straniere di reati inerenti la violenza domestica, qualora il questore ritenga sussistente un concreto ed attuale pericolo per la sua incolumità, come conseguenza della scelta di sottrarsi alla violenza stessa o per effetto delle dichiarazioni rese nel corso delle indagini o del giudizio.

Il nuovo istituto, però, non sembra porsi in linea con quanto richiesto dalla Convezione di Istanbul: un’adeguata attuazione della stessa avrebbe, infatti, richiesto la possibilità di ottenere un permesso di soggiorno per motivi umanitari ai sensi dell’art. 5, comma 6, TUI che del resto deve essere rilasciato in forza di seri motivi risultanti da obblighi internazionali dello Stato italiano, quali sono sicuramente quelli previsti dalla Convenzione di Istanbul.

Al contrario, il legislatore ha voluto creare un istituto che ricalca quello del permesso di protezione sociale ex art. 18 TUI, che tuttavia si incentra sull’ammissione della vittima ad uno specifico programma di assistenza ed integrazione sociale idoneo a sostenere la vittima a seguito della scelta di affrancarsi dalla situazione di violenza cui è sottoposta. L’omissione della previsione di un tale programma nell’art. 18 bis rende evidente l’incoerenza della novità normativa, che da una parte richiede l’accertamento di un grave pericolo – verosimilmente – per la vita della donna, e dall’altra non prevede alcuna tutela di tipo socio-assistenziale né alcuna protezione dalle eventuali ritorsioni dell’aggressore. La mancanza di un’adeguata alternativa esistenziale alle donne che decidono di intraprendere un percorso di uscita dagli abusi subiti rischia dunque di limitarne notevolmente la portata applicativa.

In ogni caso, la Commissione Territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale e i giudici delle sezioni specializzate in materia di immigrazione, protezione internazionale e libera circolazione dei cittadini dell’Unione europea, nell’esaminare i casi di violenza di genere, dovranno tenere in considerazione questo nuovo strumento, segnalando al questore le situazioni di violenza domestica, eventualmente verificatisi durante il periodo di accoglienza, e invitandolo al rilascio dei provvedimenti di sua competenza.


Salvis Juribus – Rivista di informazione giuridica
Direttore responsabile Avv. Giacomo Romano
Listed in ROAD, con patrocinio UNESCO
Copyrights © 2015 - ISSN 2464-9775
Ufficio Redazione: redazione@salvisjuribus.it
Ufficio Risorse Umane: recruitment@salvisjuribus.it
Ufficio Commerciale: info@salvisjuribus.it
***
Metti una stella e seguici anche su Google News
The following two tabs change content below.

Agostina Stano

Avvocato del Foro di Milano Volontaria presso l'associazione Avvocato di Strada Onlus di Milano

Articoli inerenti