Violenza domestica e legittima difesa della vittima

Violenza domestica e legittima difesa della vittima

Con la presente redazione, partendo da un caso giudiziario realmente trattato, s’intendono evidenziare significativi profili in tema di scriminanti della responsabilità penale, in quelle fattispecie in cui l’autore dell’azione criminosa potenzialmente scriminabile, si muove in un contesto di grave degrado familiare, sociale e culturale, ove anche la sociopatia riscontrabile in capo ai protagonisti della vicenda, conduce inesorabilmente a deprecabili capitolazioni, tuttavia non sempre evitabili altrimenti.

In particolare, il caso prende le mosse dalla condotta gravemente violenta, persecutoria e minatoria nei confronti di due donne da parte del convivente di queste, compagno della madre di colei che poi, come di qui a breve vedremo, verrà incriminata per un grave delitto contro la persona, nella fattispecie ai danni dell’uomo, attinto da un fendente all’arma bianca astrattamente idoneo a cagionare la morte.

Nel descrivere l’antefatto immediatamente antecedente il caso trattato, merita osservarsi come per l’intero arco temporale della giornata precedente l’episodio culminante, l’asserita vittima del procedimento penale incardinato inizialmente, in uno stato di accertata intossicazione da assunzione di bevande alcoliche, procurava lesioni personali refertate alla propria convivente, umiliava la medesima con sputi ed epiteti gravemente lesivi della dignità personale, minacciando con un grosso coltello da cucina sia l’una che l’altra donna, madre e figlia, quest’ultima giovanissima, che veniva anche privata del proprio telefono mobile ed insieme con esso della facoltà di comunicare con il mondo esterno, la quale attonita ed in preda al panico assisteva spaventata a morte ed impotente in un angolo della casa alla scena, reiterata, di sua madre vittima della furia del proprio compagno.

Tali dati fattuali, è bene sottolineare, come sinteticamente riportati nel paragrafo precedente, sono documentati in seno al caso giudiziario de quo, nel Verbale di arresto redatto dai Carabinieri della Stazione di competenza, dal Verbale degli accertamenti urgenti ex art. 354 c.p.p., nonché dalle sommarie informazioni testimoniali postume  all’episodio in narrativa, rese dalla mamma dell’autrice del fatto, unico testimone oculare della vicenda, oltre alla asserita parte lesa.

Da queste sintetiche considerazioni, sarà già chiaro a chi legge, che la giovane ragazza, poco più che ventenne, la quale sferrava un fendente potenzialmente mortale all’altezza dell’emitorace destro (provocando, tra l’altro,  emopneumotorace dx con prognosi riservata, grave patologia del cavo pleurico) del compagno della madre, veniva arrestata e sottoposta a misura cautelare intramuraria a causa di ciò, con l’imputazione provvisoria di tentato (56 c.p.) omicidio (575 c.p.), per aver posto in essere atti idonei tesi in maniera non equivoca a cagionare la morte di un uomo.

Tuttavia in tale sede, non interessa analizzare specificamente la causalità dell’azione difensiva e/o lesiva rispetto al comportamento circoscritto scatenante dell’uomo, appositamente taciuta perciò, quanto piuttosto vagliare il contesto ambientale in cui tale evento si sia concretizzato, mostrando come il fatto delittuoso originariamente contestato, sia stato solo una conseguente reazione, tuttavia giustificata, nonostante i gravissimi esiti, anche dalla situazione socio-familiare contingente, oltre che dal temperamento violento del soggetto poi neutralizzato dal colpo di coltello.

Invero, a conclusioni sovrapponibili a quelle difensive di qui a breve meglio approfondite,  diametralmente opposte a quelle spese inizialmente dall’Accusa, che avanzava richiesta di applicazione della custodia cautelare in carcere, sul tema dell’insussistenza dei gravi indizi di colpevolezza, giungeva anche il Giudice delle Indagini Preliminari dopo un’attenta disamina degli atti del procedimento in occasione della Convalida d’arresto, sia dal punto di vista della ricostruzione fattuale, ove veniva correttamente osservato di come “ … è risultato che il *****  aveva già bevuto .. due bottiglie di birra … altre tre … ciò tra le 19,45 e le 21.00 …” (Così a p. 2 dell’Ordinanza) ; “ … che il ******** si dava una serie di contegni offensivi, minacciosi, lesivibuttava fuori dagli armadi tutti i loro abiti … le cacciava via di casa … tale intimazione egli ripeteva usando un coltello …“ (Così nell’Ordinanza de libertate del GIP di Roma depositata l’8 luglio 2017), che dal punto di vista degli istituti giuridici, ove, l’Autorità Giudiziaria interpellata non ha trascurato di fare cenno a quanto evidenziato in occasione delle richieste della difesa, da cui trae spunto questo scritto, ovvero all’istituto “ … della supposizione erronea della ricorrenza di una causa di giustificazione di legittima difesa …” che la lettura combinata degli artt. 52 e 59 c.p., impongono al caso di specie ed ad altri, numerosi, purtroppo, nella letteratura giudiziaria contemporanea, analoghi. E ciò anche alla luce dei fatti sopravvenuti in seguito alle attività investigative ed alle dichiarazioni rese dall’indagata, ovvero di un atteggiamento quanto mai reiteratamente molesto e prevaricatore dell’uomo attinto dal fendente ai danni delle “sue” donne.

Da tali elementi, sinteticamente rassegnati in questo scritto, appare oltremodo evidente di come in casi dal genere, meno infrequenti di quanto l’opinione pubblica già non dica, la ricorrenza della causa di giustificazione della legittima difesa, a limite putativa come anche presupposto dal Giudicante delle Indagini Preliminari procedente nel caso di specie, imponga, nelle more della fase cautelare, l’applicazione del comma secondo dell’art. 273 c.p.p., in quanto “ … il fatto è stato compiuto in presenza di una causa di giustificazione …”, e meno evanescente di quanto in altri casi sarebbe possibile dire, ergo già nitidamente accertabile sul piano giudiziario in tutti i suoi requisiti, fattuali e psichici, sin dalla fase cautelare.

In particolare, si ricorda, il comma quarto dell’art. 59 del c.p., recita “… se l’agente ritiene per errore che esistano circostanze di esclusione della pena, queste sono sempre valutate a favore di lui. Tuttavia, se si tratta di errore determinato da colpa, la punibilità non è esclusa, quando il fatto è preveduto dalla legge come delitto colposo …”, di talché, tali cause di giustificazione, dovranno essere valutate a favore dell’agente come se esistessero realmente.

In altre parole, in tali casistiche, il putativo prevale sul reale.

Ragionevolmente, pertanto, la punibilità, in tal caso, dovrà essere esclusa, secondo le opinioni maggiormente diffuse in Dottrina ed in Giurisprudenza, in relazione all’assenza di dolo in capo al soggetto agente, “… che non può ravvisarsi in capo a chi erri in ordine alla presenza degli elementi costitutivi di una scriminante …”   (Così, in LATTANZI-LUPO – codice penale – rassegna di giurisprudenza e di dottrina – pp. 649; per un approfondimento, sui rapporti tra dolo e scriminante si veda il contributo di A. CAVALIERE, L’errore sulle scriminanti nella teoria dell’illecito penale. Contributo ad una sistematica teleologica, JOVENE, 2000, 505 ss.).

Inoltre, come noto, la norma in esame è comunemente ritenuta simmetrica rispetto a quella dell’art. 47 comma 1 c.p., proprio in quanto, in ambedue le ipotesi non sussistono gli estremi dell’elemento psicologico doloso (Così, tra i tanti, sui rapporti tra dolo e scriminanti v. Marinucci, in fatto e scriminanti, cit., 1242 ss.; cfr. De Vero, in Le scriminanti putative. Profili problematici e fondamento della disciplina, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 1998, 773 ss., spec. 809 ss.; Cavaliere, Già cit., in L’errore sulle scriminanti, 505 ss. Fiandaca-Musco, in Diritto penale – Parte Generale, p. 230 e ss., dove si, precisa che “…una parte minoritaria della dottrina, nel solco di un orientamento diffuso nell’ambito della dottrina tedesca, sostiene che l’errore sulle scriminanti non incida sul dolo del fatto, che rimarrebbe integro, ma determinerebbe un errore sull’illiceità valutabile autonomamente nell’ambito della colpevolezza…”. Secondo quest’ultima impostazione vedi anche Santamaria, in Lineamenti, 87 e ss; Fiore, in Diritto Penale, Parte Generale, I, Napoli, 1993, 415 ss; Donini, in Illecito e Colpevolezza, 524 e ss.)

In altri termini e calando le deduzioni giuridiche nel caso di specie, alcun rimprovero, in termini di colpevolezza, potrà essere mosso nei riguardi di una giovane ragazza investita da una serie di accadimenti sconvolgenti, la quale agiva per legittima difesa, a limite putativa.

In particolare, agli occhi della ragazza, ma anche a quelli di un attento osservatore esterno, la reazione ipotizzata, che come abbiamo sin qui scritto è stata, comunque, quella di proteggere se stessa e la mamma, appariva innanzitutto necessaria per salvaguardare il bene giuridico posto in pericolo, ovvero la propria e/o l’altrui integrità psico-fisica.

L’autrice del delitto contestato, dinanzi all’alternativa tra reagire al male minacciato e/o presunto e subire, non ha potuto evitare il pericolo se non reagendo (Vedi, in tal senso, Cass. Pen., del 18 aprile 1977, in Riv. Pen., 1977, 833.) probabilmente per guadagnare la fuga.

Pertanto, è bene sottolineare, che l’indagata non poteva fare altro che utilizzare un piccolo coltello da cucina per difendersi, non esistendo al momento alcuna altra alternativa idonea ad assicurare tutela all’aggredito  (Si veda, sul punto, Fiandaca–Musco, in Diritto Penale, Parte Generale, p. 231 e ss., ove si specificano i criteri secondo i quali la giurisprudenza di legittimità ritiene operante la scriminante putativa della legittima difesa, in particolare, ove si riscontrino, come nel caso di specie, i requisiti aggiuntivi dell’errore in cui versi il soggetto agente, della ragionevolezza, della logica giustificazione e della scusabilità in base ai dati di fatto).

Ancora, in episodi di siffatta guisa, quando l’autore del delitto contestato, agisce sulla base di presupposti di fatto (Si veda, sul punto, Fiandaca–Musco, in Diritto Penale, Parte Generale, p. 231 e ss., ove si specificano i criteri secondo i quali la giurisprudenza di legittimità ritiene operante la scriminante putativa della legittima difesa, in particolare, ove si riscontrino, come nel caso di specie, i requisiti aggiuntivi dell’errore in cui versi il soggetto agente, della ragionevolezza, della logica giustificazione e della scusabilità in base ai dati di fatto) inequivocabili, che la inducano ragionevolmente a ritenere di essere caduta vittima di una aggressione, in base ad elementi idonei a far percepire a chiunque una situazione di gravissimo pericolo, effettivamente in atto, per la propria e l’altrui incolumità, non potrà dubitarsi che l’animus dell’agente, non sarà “necandi”, come vedremo tipico degli omicidi, ma defendendi.

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Anche dal punto di vista criminologico, inoltre, l’Esperto interrogato dalla difesa nel caso specifico analizzato con il seguente quesito “Il Consulente, presa visione degli atti e svolti gli opportuni accertamenti, compreso colloquio con l’indagata, riferisca in merito alla sussistenza di elementi utili nella determinazione della criminogenesi e della criminodinamica del fatto”, riferiva, per quanto qui interessa che “… Non c’è dubbio, pertanto, che la ragazza, trovatasi catapultata in una situazione di maltrattamenti psicologici subiti dalla madre inizialmente e successivamente anche da lei – ad opera di un sostanziale sconosciuto – dopo un atteggiamento conciliatore e volto ad evitare qualsiasi scontro, vistasi inerme di fronte alla ingiustificata crescente violenza del ******, abbia potuto reagire per proteggere la propria incolumità e quella della madre …”, evidenziando nel corpo dell’elaborato di come la c.d. “Sindrome da Maltrattamento” (Baldry 2014, Burgess 2003, Walker 1978) della madre con l’obbiettiva vessatorietà delle condotte dell’uomo abbiano pressoché ineluttabilmente condotto al grave epilogo, che tuttavia, per stessa considerazione della criminologa intervenuta la quale testualmente ritiene che “ … senza un intervento in tal senso della Sig.ra *******, l’esito della vicenda sarebbe potuto essere ben diverso, se si considera quanto rilevato in ordine alla persona del *****, compatibile con una personalità provocatoria, aggressiva, intimidatoria e violenta, nonché dedita all’uso di alcol …” sarebbe potuto giungere a ben più gravi conseguenze, evidentemente ai danni delle due donne.

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Da altro angolo visuale, senza velleità di completezza in questa sede, si rammentano i principali indici sintomatici della volontà omicida dell’agente secondo i canoni offerti dal costante orientamento giurisprudenziale di legittimità, ove la valutazione circa l’esistenza o meno dell’animus necandi “ … è normalmente e prevalentemente affidata alle peculiarità estrinseche dell’azione criminosa … “[1] (Così in Cass. Pen., Sez. I^, n. 26878/2012. In Foro It.)  quali “… il comportamento antecedente e susseguente al reato[a], la natura del mezzo usato[b], le parti del corpo della vittima attinte[c], la reiterazione dei colpi[d], nonché tutti quei dati che, secondo l’id quod plerumque accidit, abbiano un valore sintomatico … “, i quali, traslati singolarmente nel caso di specie, indicano che: a) l’indagata, subito dopo l’episodio, chiamava i soccorsi e faceva intervenire l’autoambulanza che portava il ********* all’Ospedale, mentre subito prima, assisteva inerte alla violenza perpetrata verso di sé ed il proprio genitore; b) il mezzo usato è un coltello da cucina e non “una micidiale arma” come descritto nella richiesta di applicazione della misura coercitiva; c) l’unica parte del corpo attinta della vittima, ha visto un taglio di soli tre centimetri, nonostante le gravissime conseguenze; d) non vi è stata reiterazione di colpi.

Quanto premesso, nega, pertanto, qualsivoglia valore sintomatico al presunto agire dell’indagata, la quale, anche in tale prospettiva dovrà ritenersi totalmente estranea al delitto contestato, quantomeno sotto il profilo psicologico.

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Conclusivamente, nel caso in narrativa che si è reputato utile descrivere sommariamente, vi è il paradosso di una violenza di genere sempre più spesso evocata da mass media e talk show, oltre che dalla più diffusa editoria di cronaca nazionale, ove l’aguzzino, il violento, il persecutore e molestatore di donne, realmente tale, capitola, oltre che nella realtà fattuale, travolto dalla sua stessa violenza riflessa e restituita empiricamente da una delle sue vittime, anche sul piano giudiziario, ove, evidentemente, la Magistratura Requirente chiamata in un primo momento ad istruire un’indagine per tentato omicidio, a poco a poco, dall’attenta disamina dei dati investigativi, non per ultimo attraverso la lettura combinata del punto di vista difensivo, finisce per incriminare l’asserita parte lesa dell’episodio originariamente investigato.

Così dall’indagine incardinata per maturare elementi di prova utili a dimostrare in giudizio la configurazione del più grave dei delitti contro la persona previsto dal Codice Penale, seppur mitigato dall’ipotesi attenuata, si è giunti, ineccepibilmente, alla contestazione, in capo alla presunta vittima del reato poc’anzi menzionato, del delitto p. e. p. dall’art. 572 c.p. intitolato “maltrattamento contro familiari e conviventi”, ove è parte lesa, evidentemente, la convivente vittima di tante, gravi e reiterate condotte minatorie, ingiuriose e violente, nonché dell’art. 610 c.p. ove di violenza privata risulta vittima, invece, l’asserita autrice del tentato omicidio de quo, per essere stata costretta a sopportare innumerevoli privazione della propria libertà personale prima di capitolare nel deprecabile gesto azionato al sol fine di porre freno ad una inarrestabile violenza sin troppo frequente in taluni contesti socio-culturali e familiari contemporanei, che avrebbe potuto dar luogo, nel caso fosse mancata una pronta reazione, con buona probabilità, ad epiloghi ben più gravi a danno delle due donne.


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Avv. Ivano Ragnacci

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