Violenza sessuale e abuso di autorità: la parola alle Sezioni Unite

Violenza sessuale e abuso di autorità: la parola alle Sezioni Unite

In una recente pronuncia (Cass. Pen. sez. III, ord. n. 2888 del 23.01.2020, Relatore Ramacci) la Cassazione affronta il delicato tema dell’abuso di autorità nel reato di violenza sessuale di cui all’art. 609, co. 1 bis c.p., rimettendo la sua interpretazione alle Sezioni Unite.

Sommario: 1. La vicenda giudiziaria – 2. L’art. 609-bis c.p.: una breve analisi – 3. Il primo orientamento: abuso di autorità e posizione autoritativa pubblicistica – 4. Il secondo orientamento: abuso di autorità e potere privato di supremazia – 5. La pronuncia della Corte e la rimessione della questione alle Sezioni Unite.

1. La vicenda giudiziaria.

La vicenda giudiziaria da cui trae origine la pronuncia della Cassazione è la seguente.

Secondo la ricostruzione operata dagli organi inquirenti, l’imputato – un insegnante di inglese che impartiva lezioni private nel suo garage – avrebbe costretto con abuso di autorità due alunne di età inferiore ai 14 anni a subire e compiere su di lui atti sessuali.

Con sentenza del 22 gennaio 2015, pronunciata nelle forme del rito abbreviato, il Giudice per l’Udienza Preliminare del Tribunale di Enna riteneva l’imputato responsabile del reato di cui agli artt. 81 co. 2 c.p. e 609-quater, co. 4 c.p. L’originaria imputazione, poi riqualificata, era per il reato di cui agli artt. 81 co. 2 c.p., 609-bis c.p. e 609-ter co. 1 c.p.

Il giudice di primo grado escludeva la configurabilità della circostanza aggravante di cui all’art. 609-quater ritenendola non applicabile all’insegnante privato e qualificava il fatto in termini di lieve entità, ritenendo particolarmente modesto il grado di violenza delle condotte accertate.

Con sentenza del 12 novembre 2018 la Corte d’Appello di Caltanissetta riformava parzialmente la sentenza di prime cure, riqualificando il fatto ai sensi dell’originaria imputazione e dunque condannando l’imputato per i reati di cui agli artt. 81, co. 2 c.p. e 609-bis, 609-ter co. 1 c.p.

Avverso la sentenza d’appello l’imputato ricorreva per Cassazione, deducendo nel ricorso ben 6 motivi di doglianza.

Di questi, il primo considerava problematiche di diritto intertemporale, mentre il secondo e terzo avevano riguardo a questioni strettamente processuali. Il quinto motivo deduceva la mancata confutazione – da parte della Corte d’Appello – di spiegazioni alternative del fatto, mentre il sesto deduceva la mancata valorizzazione delle circostanze attenuanti.

Particolare importanza assume però il quarto motivo di ricorso.

Con esso il ricorrente lamentava l’erronea applicazione degli artt. 609-bis e 609-quater c.p. nella parte in cui la Corte d’Appello non aderiva all’orientamento interpretativo di legittimità – fatto proprio anche dal Giudice per l’Udienza Preliminare – secondo cui l’abuso di autorità di cui all’art. 609-bis co. 1 c.p. presuppone nell’agente una posizione autoritativa di tipo formale e pubblicistico, in mancanza della quale deve trovare applicazione la diversa ipotesi di cui all’art. 609-quater c.p.

2. L’art. 609-bis c.p. Una breve analisi.

La vicenda processuale descritta ben riflette i diversi orientamenti che nel tempo si sono succeduti in giurisprudenza con riguardo alla nozione di “abuso di autorità” di cui all’art. 609-bis co. 1 c.p.

La sentenza in commento ha il pregio di offrire una preziosa disamina degli indirizzi che si sono succeduti nel tempo circa tale interpretazione.

Appare allora opportuno analizzare brevemente la fattispecie oggetto dell’attenzione dei Supremi Giudici.

L’art. 609-bis c.p. punisce chiunque, con violenza o minaccia o mediante abuso di autorità, costringe taluno a compiere o subire atti sessuali.

La condotta individuata dalla disposizione di cui al citato comma 1 è la cosiddetta violenza per costrizione, che si realizza impiegando violenza, minaccia o abuso di autorità.

Il secondo comma della norma prevede la diversa ipotesi della violenza per induzione, commessa da chi abusi delle condizioni di inferiorità fisica o psichica della persona offesa al momento del fatto, o da chi inganni la vittima sostituendosi ad altra persona.

La norma, inserita nel Capo III, Sezione I, del Codice Penale, tutela il bene giuridico della libertà personale e sessuale, intesa come interesse di contenuto negativo, consistente nel diritto dell’individuo di essere libero da ogni sopraffazione nell’ambito sessuale.

Il reato, di danno, è comune, potendo essere commesso da chiunque; l’elemento soggettivo consiste nel dolo generico.

Interessante evidenziare che la nozione di “atto sessuale” fa riferimento al sesso sia dal punto di vista anatomico, che fisiologico e funzionale, avendo riguardo cioè alle zone ritenute erogene secondo la scienza medica e psicologica.

La competenza a decidere del reato è del Tribunale Collegiale, che può irrogare la pena della reclusione da cinque a dieci anni.

3.Il primo orientamento: abuso di autorità e posizione autoritativa pubblicistica.

Gli Ermellini ritengono pregnante, ai fini della decisione sul ricorso, la questione posta con il quarto motivo di doglianza, relativa all’interpretazione giurisprudenziale del concetto di “abuso di autorità”  di cui all’art. 609 bis c.p.

Con specifico riferimento alla violenza sessuale commessa mediante abuso di autorità, la giurisprudenza ha seguito nel tempo diverse interpretazioni, che la sentenza in commento ha il pregio di sintetizzare con precisione.

Secondo un primo, più risalente orientamento, l’abuso di autorità presuppone nell’agente una posizione autoritativa di tipo formale e pubblicistico, in mancanza della quale deve trovare applicazione la diversa, meno grave ipotesi di cui all’art. 609-quater c.p., rubricato “atti sessuali con minorenne” (così, ex multis, Cass. Pen. Sez. Un. n. 216338 del 31.05.2000).

Tale primo, più restrittivo orientamento, scaturisce dalla considerazione che la norma ex art. 609-bis, co. 1 c.p. ha sostituito quella degli abrogati artt. 519 co. 1, 520 e 521 c.p., che punivano rispettivamente la violenza carnale, la congiunzione carnale commessa con abuso della qualità di pubblico ufficiale e gli atti di libidine violenti. Di conseguenza, l’abuso di autorità, secondo la citata sentenza delle Sezioni Unite, andrebbe a coincidere con l’abuso della qualità di pubblico ufficiale di cui all’art. 520, presupponendo in ogni caso una qualifica di tipo pubblicistico in capo all’agente.

Del tutto diversa appare invece, secondo tale impostazione, la fattispecie di cui all’art. 609-quater c.p., che punisce gli atti sessuali compiuti con un minore. La gamma di rapporti indicati in detta norma (parentela, educazione, istruzione..) non sempre hanno forma giuridica e comunque differiscono dal rapporto autoritativo di cui all’art. 609-bis c.p.

Tale differenza ontologica di rapporto, secondo l’impostazione in commento, varrebbe ad escludere l’esistenza di un rapporto autoritativo in presenza di un rapporto di educazione e istruzione.

Seguendo la descritta impostazione le Sezioni Unite, in tempi non recenti, avevano escluso la configurabilità dell’abuso di autorità in un’ipotesi in cui l’agente aveva compiuto atti sessuali con un minore degli anni 16 che gli era stato affidato, nella sua qualità di insegnante privato, per ragioni di educazione e istruzione, ritenendo corretta la decisione del giudice di primo grado che aveva qualificato la condotta ex art. 609-quater.

Nello stesso senso si erano poste altre pronunce di legittimità, tra cui Cass. Pen. n. 6982 del 19.01.2012 e Cass. Pen. n. 32513 del 19.06.2002).

4. Il secondo orientamento: abuso di autorità e potere privato di supremazia.

Un secondo, più recente indirizzo, estende l’abuso di autorità, quale modalità di consumazione del reato dell’art. 609-bis c.p., ad ogni potere di supremazia, anche di natura privata, di cui l’agente abusi per costringere il soggetto passivo a compiere o subire atti sessuali.

La ratio che sta alla base di tale, estensiva interpretazione, è quella di ampliare quanto più possibile la sfera di tutela del soggetto passivo, dilatando la portata della norma.

La disposizione verrebbe in questo senso ad annoverare tra i soggetti attivi ogni persona rivestita di supremazia o autorità, non connotata da particolari qualità pubblicistiche. Cosicché per l’applicazione dell’art. 609-bis c.p. sarà sufficiente esercitare una forma di suggestione o influenza sul soggetto passivo al fine di coartarne la volontà o condizionarne il comportamento.

Il principale argomento giuridico su cui fa leva questa teoria è l’art. 61 n. 11) c.p. che configura, come circostanza aggravante comune, la condotta di chi commette un reato mediante “abuso di autorità”. L’interpretazione in commento evidenzia il fatto che, ove il legislatore ha inteso riferirsi ad una situazione autoritativa di tipo pubblicistico, l’ha indicata espressamente. Ciò è, ad esempio, nel caso dell’art. 608 c.p., che ha ad oggetto l’abuso di autorità contro arrestati o detenuti, reato proprio che può essere integrato dal solo pubblico ufficiale.

Tale orientamento è seguito ex multis da Cass. Pen. n. 2119 del 03.12.2012 in tema di imputato convivente della madre del minore persona offesa e da Cass. Pen. n. 37135 del 10.04.2013, relativa alla condotta di un imputato insegnante di arti marziali.

5. La pronuncia della Corte e la rimessione della questione alle Sezioni Unite.

Dopo aver sinteticamente e pregevolmente evidenziato i diversi orientamenti che la Cassazione ha seguito sul delicato tema, a fronte dei contrapposti indirizzi giurisprudenziali richiamati, la Corte ha ritenuto opportuno rimettere il ricorso alle Sezioni Unite ex art. 618 c.p.p., sottoponendo al Supremo Consesso il seguente quesito: «se, in tema di violenza sessuale, l’abuso di autorità di cui all’art. 609-bis co. 1 c.p. presupponga nell’agente una posizione autoritativa di tipo formale e pubblicistico o, invece, possa riferirsi anche a poteri di supremazia di natura privata di cui l’agente abusi per costringere il soggetto passivo a compiere o subire atti sessuali».

Spetterà alle Sezioni Unite, nella loro funzione nomofilattica, fornire prossimamente un chiarimento definitivo sulla delicata questione.


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Pierfrancesco Divolo

È laureato in Giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Padova con una Tesi in Storia del Diritto intitolata: “Detenere senza imputare. Il confino di polizia fascista dalle origini ottocentesche all’impatto con la Costituzione.” Ha svolto la Pratica Forense in uno studio legale di Padova, occupandosi prevalentemente di Diritto penale e Diritto dei consumatori. È abilitato all’esercizio della Professione Forense presso la Corte d’Appello di Venezia dal 14.10.2019. Attualmente esercita la Professione d'Avvocato collaborando con uno studio legale padovano, dove si occupa prevalentemente di Diritto penale e Diritto del lavoro. Coltiva particolare interesse per la Storia e la Filosofia del diritto.

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