Violenza sessuale e induzione indebita: l’orientamento della Cassazione

Violenza sessuale e induzione indebita: l’orientamento della Cassazione

Con la sentenza n. 33049 del 17/05/2016, depositata lo scorso luglio,  la Corte Suprema di Cassazione, III Sezione Penale (Presidente Rosi, Estensore Gai) ha avuto modo di pronunciarsi circa il rapporto tra violenza sessuale per costrizione ex art. 609 bis  e induzione indebita a dare o promettere utilità ex art. 319 quater c.p. , in particolare, circa la configurabilità di un concorso tra le due fattispecie all’ esito, peraltro, di un giudizio piuttosto articolato il quale ha visto un ribaltarsi di posizioni nei tre gradi di giudizio.

Ed invero, il caso sottoposto all’ attenzione della stessa ha riguardato l’esatta qualificazione del comportamento di un ministro di culto, esercente le funzioni di cappellano all’ interno di una Casa Circondariale che compulsava i detenuti a subire atti sessuali in cambio di favori, quali piccole donazioni di denaro e di prodotti vari, offerte di contatti telefonici con parenti e consigli sull’ assistenza legale.

In primo grado il Cappellano veniva condannato, all’ esito di un giudizio abbreviato, per i reati di violenza sessuale, limitatamente ad alcune delle condotte contestate, e di induzione indebita, mentre veniva assolto relativamente ai capi d’imputazione riguardanti la violenza sessuale commessa mediante “abuso di autorità”, ritenendo nella specie insussistente una “posizione autoritativa” in capo allo stesso.

In sede di appello, in seguito all’ impugnazione proposta sia dal Pubblico Ministero, sia dall’imputato, la Corte d’Appello, all’ esito del giudizio di secondo grado, accogliendo l’appello del Pubblico Ministero, condannava invece l’imputato  relativamente ai fatti per i quali in primo grado vi era stata assoluzione.

E tanto sia sul presupposto che la nozione di abuso di autorità dovesse essere intesa in senso più ampio, tanto da ricomprendervi ogni sfruttamento della posizione di supremazia dell’agente, tale da determinare uno squilibrio tra il soggetto agente e colui che si fosse trovato in una posizione di inferiorità o soggezione psicologica della vittima; sia ritenendo sussistente il concorso tra la fattispecie di cui al 609 bis c.p. e quella di cui all’art. 319 quater c.p..

L’imputato, quindi, ricorreva avverso la decisione di secondo grado in Cassazione deducendo tra i numerosi motivi di doglianza soprattutto quello avente ad oggetto la valutazione giuridica, errata, del rapporto tra i due titoli di reato, asserendo pertanto l’impossibilità di riunire le due fattispecie nell’ ipotesi del concorso.

Ebbene, la prima questione che la Suprema Corte risolve con la pronuncia in esame riguarda proprio la qualifica soggettiva dell’imputato ritenendo indispensabile la risoluzione di tale questione proprio relativamente alla configurabilità delle condotte contestate.

Ci si chiede, in altre parole, se il soggetto agente in questione potesse essere qualificato come incaricato di pubblico servizio o meno, poiché dall’ accoglimento o meno di tale qualifica, discenderebbe la stessa possibilità di configurare entrambe le fattispecie o nessuna delle due, atteso che entrambe le norme circoscrivono la responsabilità penale ai soli soggetti pubblici.

Nel fare ciò la Corte si è attenuta all’ orientamento già precedentemente accolto dalla stessa secondo cui il ministro di culto che esercita le proprie funzioni all’ interno di una casa circondariale, riveste la qualità di incaricato di pubblico servizio, avuto riguardo ai compiti a questi assegnati  dalla legge, funzionali all’interesse pubblico perseguito dallo Stato nel trattamento delle persone condannate o internate, come già statuito dalla Cass. Sez. VI n. 12 del 24/09/2008, Stroppiana, Rv. 242226.

Ed infatti, la stessa legge di riforma dell’ordinamento penitenziario prevede che  il trattamento del condannato e dell’internato sia svolto avvalendosi anche della religione proprio per contribuire alla stessa risocializzazione del reo.

Nei passaggi successivi, la Corte è passata ad esaminare la questione di maggiore rilievo posta dalla sentenza impugnata ovvero se è possibile configurare o meno un ipotesi di concorso tra il reato di violenza sessuale mediante costrizione ex art. 609 bis comma 1 e il reato di induzione indebita a dare o promettere utilità ex art. 319 quater, avendo la Corte d’Appello praticamente ribaltato la decisione di primo grado che ne escludeva la sussistenza.

La Corte parte dall’ evidenziare l’excursus storico legislativo che ha portato alla creazione della nuova fattispecie di cui al 319 quater.

Invero, con legge n. 190 del 2012, il legislatore ha operato un vero e proprio spacchettamento delle condotte concussive prima previste dall’art. 317 c.p..

Oggi, infatti, il nuovo articolo 317 punisce unicamente la condotta concussiva attuata mediante costrizione espungendo dal novero dei soggetti attivi l’incaricato di pubblico servizio. (Figura poi reintrodotta con la legge n. 69/2015)

L’art. 319 quater, invece, punisce la condotta del pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio che, abusando dei suoi poteri induce taluno a dare o promettere indebitamente, a lui o ad un terzo, denaro o altra utilità.

Particolarità della norma è che, oltre a sanzionare la condotta dell’incaricato di pubblico servizio espunta dall’ art. 317, al secondo comma punisce anche colui che dà o promette denaro o altra utilità, andando sostanzialmente a punire il soggetto che prima della riforma era considerato  vittima della condotta concussiva.

Inoltre, ad opera della riforma si riconduce alla fattispecie di cui all’art. 317 unicamente la condotta concussiva mediante costrizione, la quale si caratterizza per esercitare una pressione maggiore sulla psiche del soggetto passivo che limita la stessa capacità di autodeterminazione del soggetto passivo al punto tale da escluderla.

Ed è proprio tale nuova collocazione sistematica e la differenza sussistente tra condotta costrittiva e induttiva, che ha spinto la Suprema corte ad affermare la logica incompatibilità tra le due fattispecie.

Invero, afferma la Corte, che l’art. 319 quater punisce il pubblico ufficiale/incaricato di pubblico servizio che, abusando della sua qualità o dei suoi poteri, induce taluno a dare o promettere indebitamente  a lui o ad un terzo, denaro o altre utilità, mentre la condotta contestata all’ imputato è la  “…violenza consistita in condotte repentine di toccamento dei genitali e sfregamento del pene sul corpo dei detenuti, e nell’ abuso di autorità derivante dalla posizione di [cappellano] del carcere….”

Il soggetto che dà o promette l’utilità perché indotto dal pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio, invero, non subisce una costrizione ma un’induzione, tanto da essere punito egli stesso ai sensi del 319 quater comma 2, afferma la Corte.

Il concorso di reati, quindi, poteva essere ipotizzato con riguardo alla vecchia fattispecie incriminatrice di cui all’art. 317, ma lo stesso non può più ricorrere tra i reati di violenza sessuale mediante costrizione e la nuova fattispecie di cui all’art. 319 quater, il quale punisce condotte induttive e non costrittive.

Si può dire, quindi, che la Corte con tale pronuncia abbia iniziato a sgombrare il campo dai dubbi applicativi che soprattutto la fattispecie induttiva di cui all’art. 319 quater ha sempre suscitato sin dal momento in cui è stata introdotta nel nostro ordinamento.


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Ilaria Romano

Laureata in giurisprudenza con tesi in diritto internazionale dell'ambiente. Scuola di specializzazione per le professioni legali conclusa con tesi di diploma in procedura penale avente ad oggetto l'intangibilità del giudicato penale e riflessi della giurisprudenza EDU sull'ordinamento interno. Compiuta pratica in diritto penale, in attesa di sostenere l'esame orale per conseguire l'abilitazione alla professioni. Il tutto condito da una work esperience in affiancamento ad un giudice del lavoro presso il Tribunale di Avellino. Aspirante magistrato ed amante del diritto, strumento sociale di vitale importanza e potenzialmente alla portata di tutti.

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