Vittime di violenza: paga lo Stato se l’aggressore non risarcisce la vittima

Vittime di violenza: paga lo Stato se l’aggressore non risarcisce la vittima

Il 24 novembre 2020 – data che precede la giornata mondiale contro la violenza sulle donne – la Corte di Cassazione ha emesso una sentenza che farà storia.

Ed invero, la Suprema Corte, con sentenza n.  26757/2020, ha sancito l’obbligo per lo Stato di risarcire le vittime di reati violenti ed intenzionali, impossibilitate ad ottenere il risarcimento dall’autore del danno.

In pratica, lo Stato dovrà riconoscere alla vittima un indennizzo il cui importo non potrà essere puramente simbolico, ma sarà parametrato e valutato in base al crimine, alla sua gravità ed ai danni morali e materiali che ne siano conseguiti. Per ottenerlo, la vittima dovrà trovarsi nella condizione di oggettiva difficoltà dell’agire esecutivamente contro l’aggressore, mentre non è richiesta l’assoluta impossibilità di farlo.

Il fondamento normativo di tale decisione si rinviene nel recepimento tardivo della direttiva 2004/80/CE; quest’ultima (recepita in Italia solo nel 2017) ha imposto agli Stati membri dell’Unione Europea di apprestare un sistema indennitario generalizzato, idoneo a garantire un equo ristoro in favore di tutte le vittime di reati violenti ed intenzionali, compreso quello di violenza sessuale ex art. 609 bis cod. pen.

Il ristoro viene riconosciuto anche alle  vittime che risiedono nel territorio dello stato membro (cd. vittime non transfrontaliere) ove il crimine è avvenuto, senza che per esse sia necessario instaurare un giudizio civile di responsabilità nei confronti degli autori del fatto, qualora questi ultimi si siano resi latitanti.

La vicenda. Il caso di specie riguarda una cittadina italiana – di origini rumene – che veniva aggredita, sequestrata e costretta con violenze e minacce a praticare e subire, ripetutamente, atti sessuali da parte di due cittadini rumeni.

Questi ultimi venivano condannati, in sede penale in via definitiva, alla pena di dieci anni e sei mesi di reclusione, oltre ad un risarcimento del danno da liquidarsi in separato giudizio. Tuttavia, la vittima non riusciva ad ottenere il risarcimento, in quanto i rei si erano resi latitanti. Pertanto, la stessa citava in giudizio la Presidenza del Consiglio dei ministri affinché ne venisse dichiarata la responsabilità civile per la mancata e/o non corretta e/o non integrale attuazione degli obblighi previsti dalla direttiva 2004/08/CE del 29 aprile 2004, relativa all’indennizzo delle vittime.

Onere degli Stati membri era, infatti, quello di introdurre – entro il 1° luglio 2005 – un sistema generalizzato di tutela indennitaria, idoneo a garantire un adeguato ed equo ristoro in favore delle vittime di tutti i reati violenti ed intenzionali, compreso il reato di violenza sessuale, nelle ipotesi in cui le medesime fossero impossibilitate a conseguire, dai diretti responsabili, il risarcimento integrale dei danni subiti.

Muovendo da tale assunto, veniva accertato l’inadempimento della Presidenza del Consiglio dei Ministri, e la stessa veniva condannata al pagamento di una somma a titolo di indennizzo a favore della vittima del reato.

La decisione. La Corte di Cassazione, adita sulla questione, si è così pronunciata – con la sentenza in esame (Cass. 26757/2020) – confermando la responsabilità dello Stato per omessa, incompleta o tardiva trasposizione delle direttive europee all’interno dell’ordinamento. Ha, altresì, precisato che tale mancanza integra un illecito di natura contrattuale da cui deriva un’obbligazione risarcitoria, i cui effetti pregiudizievoli sono da ristorare integralmente ex art. 1223 cod. civ. ovvero con valutazione equitativa del danno ex art. 1226 cod. civ.

Ciò posto, è necessario sottolineare che non bisogna confondere il danno patito dalla vittima per la ritardata trasposizione della direttiva con quello scaturente dal fatto illecito, in quanto dal primo deriva il diritto al risarcimento e dal secondo il diritto all’indennizzo. Nondimeno, dall’importo risarcitorio riconosciuto dai giudici, viene defalcata – e non cumulata – la somma, percepita dalla vittima, a titolo di indennizzo, in virtù della compensatio lucri cum danno.

Quest’ultima, ricordiamo, consiste nel principio secondo il quale la determinazione del danno risarcibile deve tenere conto degli effetti vantaggiosi per il danneggiato, che hanno causa immediata e diretta nel fatto dannoso.

Ai sensi dell’art. 1223 cod. civ. bisogna tener conto: del cd. principio di indifferenza, ossia il patrimonio del danneggiato non deve patire le conseguenze derivate dal fatto illecito, ma neppure giovarsi dello stesso; della regola della causalità giuridica, secondo la quale il danno e il vantaggio devono essere collegati etiologicamente all’illecito e la “causa” non deve essere la medesima. Solo qualora la causa dell’attribuzione dell’indennizzo abbia funzione analoga a quella risarcitoria sarà possibile lo scomputo dal risarcimento stesso.

L’orientamento, sopra esposto, della Suprema Corte è stato accolto con favore dal momento che l’idea di una tutela risarcitoria statale è in linea con quanto perseguito, da tempo, dagli Stati membri dell’UE. Invero, questi ultimi, hanno sviluppato – a partire già dagli anni 60 – sistemi di risarcimento per le vittime impossibilitate ad ottenere la riparazione dei danni dagli autori del crimine.


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Silvia Sorci

Silvia Sorci, nata a Palermo il 24/08/1989. Ho conseguito Laurea Magistrale in Giurisprudenza in data 9/03/2017; Ho frequentato per 18 mesi il praticantato obbligatorio presso uno studio legale specializzato in diritto civile; In data 14/11/2019 mi sono, infine, abilitata all'esercizio della professione forense presso il Tribunale di Palermo;

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