L’emersione del lavoro irregolare: come il “decreto rilancio” non porterà a nulla

L’emersione del lavoro irregolare: come il “decreto rilancio” non porterà a nulla

Sommario: 1. I caratteri generali della disciplina – 2. Profili di criticità – 3. Considerazioni conclusive

 

1. I caratteri generali della disciplina

Tra le innumerevoli disposizioni contenute nel c.d. “decreto rilancio” (decreto-legge 19 maggio 2020, n. 34), si rinviene l’art. 103, rubricato “Emersione di rapporti di lavoro”, che è stato oggetto di particolare attenzione politica e giornalistica ancor prima della sua entrata in vigore.

La disposizione si propone «di garantire livelli adeguati di tutela della salute individuale e collettiva in conseguenza della contingente ed eccezionale emergenza sanitaria connessa alla calamità derivante dalla diffusione del contagio da COVID-19 e favorire l’emersione di rapporti di lavoro irregolari».

L’ambito applicativo è limitato ad alcuni settori produttivi che, storicamente, registrano un maggiore ricorso al lavoro irregolare: agricoltura, allevamento e zootecnia, pesca e acquacoltura e attività connesse; assistenza alle persone non autosufficienti; lavoro domestico.

Il sistema congegnato dal Governo presenta un doppio canale, a seconda del soggetto che dia impulso al percorso di emersione.

Una prima procedura (comma 1) è prevista per i datori di lavoro italiani o stranieri[1] che, presentando apposita istanza, chiedono di concludere un contratto di lavoro subordinato con cittadini stranieri presenti sul territorio nazionale oppure dichiarano l’esistenza di un rapporto di lavoro irregolare in essere, con cittadini italiani o stranieri[2].

Nell’istanza dovrà essere indicata la durata del contratto di lavoro e la retribuzione convenuta (che non potrà essere inferiore a quella prevista dal contratto collettivo di lavoro di settore, stipulato dalle organizzazioni sindacali e datoriali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale).

Il datore di lavoro, per ciascun lavoratore, sarà tenuto al versamento di un importo fisso (pari ad € 500 euro) ed uno “a forfait” (la cui entità verrà successivamente stabilita da apposito decreto[3]) a titolo di differenze retributive, contributive e fiscali non versate.

Una seconda procedura (comma 2) potrà essere avviata, su iniziata dei lavoratori stranieri[4], per conseguire un permesso di soggiorno temporaneo, della durata di sei mesi, valido solo nel territorio nazionale. Qualora, entro questo termine, il lavoratore esibisca un contratto di lavoro subordinato ovvero «la documentazione retributiva e previdenziale comprovante lo svolgimento dell’attività lavorativa in conformità alle previsioni di legge[5]», il permesso verrà quindi convertito in un permesso di soggiorno per motivi di lavoro.

Anche per questa procedura è previsto il versamento, a carico dell’interessato, di un contributo fisso, ma in misura inferiore (pari ad € 130), al netto degli eventuali ulteriori costi per il permesso di soggiorno.

All’atto della presentazione della richiesta, al prestatore di lavoro straniero verrà consegnata un’attestazione che consentirà allo stesso di soggiornare in Italia, nonché di svolgere attività lavorativa in uno dei settori produttivi sopra indicati.

L’istanza dovrà essere presentata – dal 1° giugno al 15 luglio 2020 – secondo le modalità che saranno definite dal successivo decreto attuativo.

La legge, tuttavia, individua a monte i soggetti a cui presentare la richiesta: i) l’INPS, per i lavoratori italiani o per i cittadini UE; ii) lo sportello unico per l’immigrazione, per i lavoratori stranieri; iii) la Questura, per il rilascio dei permessi di soggiorno.

Costituiscono cause di inammissibilità (comma 8), la condanna negli ultimi cinque anni del datore, anche con sentenza non definitiva, per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina o per reati diretti al reclutamento di persone da destinare alla prostituzione o allo sfruttamento della prostituzione o di minori da impiegare in attività illecite, nonché per il reato di cui all’art. 600 del codice penale; intermediazione illecita (art. 603-bis c.p.); e sfruttamento del lavoro (art. 22 comma 12 t.u. immigrazione).

Costituiscono cause di rigetto (comma 9), invece, la mancata sottoscrizione del contratto di soggiorno da parte del datore di lavoro ovvero la successiva mancata assunzione dello straniero (salvo forza maggiore).

Nelle more della definizione delle procedure: – lo straniero non può essere espulso, salvo eccezioni[6]; – è consentito lo svolgimento dell’attività lavorativa e, in caso di cessazione del rapporto di lavoro, troverà applicazione l’art. 22, comma 11, del D.lgs. n. 286/1998 (T.U. Immigrazione), così consentendosi al lavoratore straniero il mantenimento del permesso di soggiorno e la possibilità di trovare un nuovo impiego (nei limiti e secondo le modalità ivi indicate[7]); – sono sospesi[8] i procedimenti penali[9] e amministrativi a carico del datore di lavoro (per l’impiego di lavoratori per i quali è stata presentata la dichiarazione di emersione, anche se di carattere finanziario, fiscale, previdenziale o assistenziale) e del lavoratore (per l’ingresso e il soggiorno illegale nel territorio nazionale).

Se la procedura va a buon fine, lo sportello unico per l’immigrazione convoca le parti per la stipula del contratto di soggiorno, per la comunicazione obbligatoria di assunzione e la compilazione della richiesta del permesso di soggiorno per lavoro[10].

La sottoscrizione congiunta ed il rilascio del permesso di soggiorno comportano, per entrambe le parti, l’estinzione dei reati e degli illeciti amministrativi connessi al rapporto di lavoro “irregolare”.

Infine, sotto il profilo sanzionatorio, si prevede che, ove il datore di lavoro impieghi lavoratori subordinati stranieri che hanno presentato l’istanza di rilascio del permesso di soggiorno, senza preventiva comunicazione di instaurazione del rapporto di lavoro, vengono raddoppiate le sanzioni previste dalla legge[11].

2. Profili di criticità

Così delineato il quadro normativo di riferimento, si impongono alcune riflessioni.

Una prima serie di rilievi attiene alle modalità operative che, per sommi capi, si rinvengono nelle disposizioni di legge.

Soprattutto in riferimento alla procedura riservata ai lavoratori stranieri, la sensazione è quella di un sistema che, coinvolgendo a vario titolo diversi soggetti (datore, lavoratore, INPS, sportello immigrazione, Questura), rischia di sembrare piuttosto rigido e si espone a forti criticità per la possibile inadeguatezza di forme di coordinamento.

A ciò si aggiungono le limitazioni per la fruizione “fisica” degli uffici pubblici e la probabile mancanza di dispositivi informatici in uso tra i lavoratori stranieri che non agevolano affatto le procedure e, in verità, sembrano indici sintomatici di un modello inadeguato per rispondere in tempi celeri alle aspettative di Governo.

L’augurio è che la normativa di dettaglio possa porre un argine al problema, anzitutto prevendo un sistema più snello in cui il lavoratore straniero possa compiere tutto quanto necessario per avviare l’iter presso un unico ufficio (o, telematicamente, presso un’unica piattaforma), lasciando poi alle singole amministrazioni, nell’ambito delle rispettive competenze, l’attività istruttoria.

Nel merito, poi, la soluzione adottata – che si riduce ad una “sanatoria” connessa all’esito di una “semplice” procedura amministrativa – rimane ancorata alla (mera) volontà del datore di lavoro di regolarizzare il rapporto. Ma, se un tale intendimento fosse stato già “nelle corde” del datore, probabilmente, il rapporto non sarebbe stato occultato.

Una procedura di tal specie, per essere efficace, dovrebbe quindi prevedere degli “incentivi” per il datore, che lo inducano alla regolarizzazione. Incentivi che, da quanto si evince, sembrerebbero limitati alla sospensione e, in caso di esito positivo, alla estinzione degli illeciti connessi al rapporto irregolare.

Forse troppo poco, se si considera che il beneficio sarebbe legato al previo accertamento dell’illecito. Senonché, la questione ruota proprio intorno al fatto che non ci sono adeguati controlli ed è piuttosto semplice dar vita ad un rapporto irregolare che, il più delle volte, emerge solo a seguito di azione giudiziale del lavoratore (ipotesi molto remota nel caso di straniero bracciante agricolo).

Occorrerà dunque che il datore sia sanzionato e, soltanto in tale evenienza, potrebbe sorgere in lui l’interesse alla regolarizzazione, così potendo beneficiare dell’estinzione dell’illecito ascrittogli. Viceversa, ove non venga adottato alcun provvedimento nei suoi confronti, restando il rapporto occulto, non sembrano ravvisarsi concrete ragioni che possano indurlo ad “autodenunciarsi”.

Peraltro, l’estinzione non opererebbe per taluni di quei reati che sono proprio sintomatici dello sfruttamento del lavoro di stranieri irregolari[12] e, quindi, non soltanto si fa ancor più fatica a comprendere le motivazioni che dovrebbero spingere il datore a far emergere tali rapporti, ma altresì, considerato che in dette ipotesi l’eventuale istanza sarebbe – per espressa previsione di legge – inammissibile, sono gli stessi lavoratori che resterebbero penalizzati, non potendo ottenere alcuna regolarizzazione proprio a causa degli illeciti compiuti (anche in loro danno) dal loro datore di lavoro.

Passando, poi, alla previsione che consente l’avvio della procedura direttamente al lavoratore, v’è da dire che una soluzione di questo tipo può comportare un esito del tutto diverso da quello prospettato, poiché si presta facilmente ad un uso distorto da parte del datore.

Infatti, poiché nelle more della definizione della procedura per l’ottenimento del permesso di soggiorno, il prestatore di lavoro straniero può di svolgere attività lavorativa e non può essere espulso (salvo le specifiche eccezioni), sembra molto probabile che il datore – anziché farsi promotore egli stesso della regolarizzazione – sopporterà al posto del lavoratore il costo (ridotto) dell’istanza, utilizzandone temporaneamente la prestazione (ex novo dall’ottenimento del permesso oppure sempre in maniera irregolare), ma senza tuttavia regolarizzarne –  all’esito dei sei mesi – la posizione.

Del resto, considerate le difficili condizioni di vita a cui spesso sono costretti i lavoratori stranieri del settore agricolo, sarà anche agevole proporre loro una soluzione di questo tipo, poiché, nel caso di cessazione del rapporto, potranno comunque soggiornare per almeno un anno in Italia, in attesa di un nuovo lavoro, trovando applicazione l’art. 22 del T.U. immigrazione.

3. Considerazioni conclusive

Le prime considerazioni sono nel senso di un’occasione mancata di risolvere (o quantomeno di contenere) il problema – estremamente diffuso – del lavoro irregolare.

Il rischio è che la normativa, di fatto, comporterà un’immissione nel mercato del lavoro di numerosi stranieri con titolo di soggiorno provvisorio, ma, in sostanza, non appare idonea a realizzare alcuna la regolarizzazione del rapporto.

Le soluzioni adottate si prestano a facili distorsioni e non sembrano adeguate per la pochezza di benefici da utilizzare come contropartita per “convincere” il datore di lavoro a regolarizzare il rapporto.

Probabilmente sarebbe stato meglio puntare sul potenziamento dei controlli, o su un sistema che agevoli – anche mediante indici presuntivi – l’accertamento del lavoro irregolare, sia in sede amministrativa che eventualmente giudiziale, oppure ancora sull’accesso per il datore a benefici diversi  (magari di natura fiscale o contributiva che, sebbene sotto un profilo prettamente etico siano sicuramente opinabili, sembrano prospettive più “appetibili” di quelle introdotte) dalla semplice estinzione dell’illecito (che va comunque preventivamente accertato).

Ci si augura, allora, che all’esito di una maggiore riflessione in sede parlamentare, in cui magari si tenga conto anche delle proposte avanzate dalle parti sociali, vengano apportate concrete modifiche in sede di conversione.

 

 

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[1] Tra cui i cittadini di uno Stato membro UE, ovvero i datori di lavoro stranieri in possesso del titolo di soggiorno previsto dall’art. 9 D.lgs. n. 286/1998 e ss.mm. (c.d. T.U. immigrazione).
[2] Ai fini della norma, i cittadini stranieri «devono essere stati sottoposti a rilievi fotodattiloscopici prima dell’8 marzo 2020 ovvero devono aver soggiornato in Italia precedentemente alla suddetta data, in forza della dichiarazione di presenza, resa ai sensi della legge 28 maggio 2007, n. 68 o di attestazioni costituite da documentazioni di data certa proveniente da organismi pubblici; in entrambi i casi, i cittadini stranieri non devono aver lasciato il territorio nazionale dall’8 marzo 2020».
[3] Decreto – da adottarsi entro dieci giorni dall’entrata in vigore del “decreto rilancio” (G.U.R.I. n. 128 del 19 maggio 2020- Suppl. Ord. n. 21) – che dovrà anche stabilire i limiti di reddito del datore di lavoro richiesti per la conclusione del rapporto di lavoro e la documentazione idonea a comprovare l’attività lavorativa.
[4] Con permesso di soggiorno scaduto dal 31 ottobre 2019, non rinnovato o convertito in altro titolo di soggiorno.
[5] Da individuare con il decreto sub nota 3.
[6] Le ipotesi sono le stesse per cui il lavoratore non è ammesso a presentare istanza: destinatario di provvedimento di espulsione; segnalato, anche in base ad accordi internazionali, per la sua non ammissione in Italia; condannato, anche con sentenza non definitiva, per taluni reati indicati alla lett. c); considerato una minaccia per l’ordine pubblico o la sicurezza dello Stato o di uno dei Paesi con i quali l’Italia abbia sottoscritto accordi per la soppressione dei controlli alle frontiere interne e la libera circolazione delle persone.
[7] «11. La perdita del posto di lavoro non costituisce motivo di revoca del permesso di soggiorno al lavoratore extracomunitario ed ai suoi familiari legalmente soggiornanti. Il lavoratore straniero in possesso del permesso di soggiorno per lavoro subordinato che perde il posto di lavoro, anche per dimissioni, può essere iscritto nelle liste di collocamento per il periodo di residua validità del permesso di soggiorno, e comunque, salvo che si tratti di permesso di soggiorno per lavoro stagionale, per un periodo non inferiore ad un anno ovvero per tutto il periodo di durata della prestazione di sostegno al reddito percepita dal lavoratore straniero, qualora superiore. Decorso il termine di cui al secondo periodo, trovano applicazione i requisiti reddituali di cui all’articolo 29, comma 3, lettera b). Il regolamento di attuazione stabilisce le modalità di comunicazione ai centri per l’impiego, anche ai fini dell’iscrizione del lavoratore straniero nelle liste di collocamento con priorità rispetto a nuovi lavoratori extracomunitari.»
[8] La sospensione cessa nel caso in cui non sia presentata l’istanza ovvero se questa venga rigettata o archiviata.
[9] Non sono in ogni caso sospesi i procedimenti penali nei confronti dei datori di lavoro per i reati oggetto di inammissibilità della domanda (v. comma 8).
[10] La mancata presentazione delle parti, senza giustificato motivo, comporta l’archiviazione del procedimento.
[11] Art. 3, comma 3, d.l. 12/2002, conv. legge n. 73/2002; art. 39, comma 7, d.l. 112/2008, conv. legge n. 133/2008; art. 82, comma 2, d.P.R. 30 maggio 1955, n. 797; art. 5, comma 1, legge n. 4/1953. Quando i fatti di cui all’articolo 603-bis del codice penale sono commessi ai danni di stranieri che hanno presentato l’istanza di rilascio del permesso di soggiorno temporaneo di cui al comma 2, la pena prevista al primo comma dello stesso articolo è aumentata da un terzo alla metà.
[12] V. art. 103 comma 8 dl 34/2020.

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Attualmente svolge la libera professione di Avvocato in Palermo, occupandosi di tematiche afferenti il diritto del lavoro, il diritto sindacale e delle relazioni industriali, nonché il diritto della sicurezza sociale.Ha maturato esperienza anche nel settore del diritto amministrativo, soprattutto in materia di pubblico impiego, concorsi pubblici e rapporti di lavoro pubblico (forze armate, docenti universitari).

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