Giudicato penale e processo tributario: l’art. 21-bis del d.lgs. n. 74/2000

Giudicato penale e processo tributario: l’art. 21-bis del d.lgs. n. 74/2000

Sommario: 1. La situazione giuridica esistente prima della novella legislativa – 2. L’introduzione del nuovo art. 21-bis del d.lgs. N. 74/2000 – 3. Il doppio binario si sbilancia a favore del processo penale – 4. Ulteriori problematiche interpretative della novella legislativa del 2024

 

1. La situazione giuridica esistente prima della novella legislativa

L’articolo 12 del D.L. 10 luglio 1982, n. 429, conv. dalla legge 7 agosto 1982, n. 516, aveva disposto la rilevanza nel processo tributario del giudicato penale, sia assolutorio sia di condanna, in riferimento ai medesimi fatti materiali.

Tale sistema venne poi superato, sia a seguito della introduzione del nuovo codice di procedura penale nel 1989, sia ad opera del D.Lgs. n. 74/2000, in vigenza del quale il tema del raccordo tra i due procedimenti è stato interpretato in termini di “doppio binario” e quindi di autonomia reciproca dei medesimi.

Uno dei cardini del processo tributario rapportato al processo penale è sempre stato il principio del “doppio binario” tra processo amministrativo tributario e processo penale.

La tematica del rapporto tra processo tributario e processo penale ha invero radici  molto lontane, risalenti alla Legge n. 4 del 1929 con la quale erano state configurate apposite figure di reati fiscali rientranti nell’alveo del diritto penale sostanziale e processuale. Giova ricordare che il disposto di cui all’articolo 21 comma 4 della L. 4/29, con riferimento limitato ai reati in materia di tributi diretti, aveva statuito che “Per i reati previsti dalle leggi sui tributi diretti l’azione penale ha corso dopo che l’accertamento dell’imposta e della relativa sovraimposta è divenuto definitivo a norma delle leggi regolanti la materia”.

Con l’entrata in vigore del D.Lgs.74/2000 i rapporti tra procedimento penale e procedimento tributario hanno trovato compiuta disciplina nelle disposizioni previste dagli articoli 20 e 25.

In particolare, mentre l’art. 20 vieta la sospensione del procedimento tributario in pendenza di un procedimento penale avente ad oggetto i medesimi fatti, ovvero, i fatti dal cui accertamento dipende la definizione della vicenda tributaria, l’art. 25 dello stesso D.L. 74/2000 a sua volta, abrogando esplicitamente l’art. 12 della L. 516/82, ha eliminato il principio in base al quale la sentenza penale irrevocabile assumeva autorità di cosa giudicata nel processo tributario in relazione ai fatti materiali oggetto del giudizio penale.

Da ciò discendeva l’esclusione di qualsiasi rapporto di pregiudizialità tra i due procedimenti (penale e tributario).

E’ da ricordare tuttavia che, anche sotto la vigenza delle citate precedenti disposizioni normative, un consolidato orientamento della Suprema Corte, pur non riconoscendo autorità di cosa giudicata alla sentenza penale, aveva riconosciuto che il giudice tributario, nell’esercizio dei propri poteri autonomi di valutazione ex art. 116 cod. proc. civ., era comunque legittimato a valutare il materiale probatorio proveniente dal procedimento penale e acquisito agli atti, al fine di verificarne la rilevanza nell’ambito della vicenda tributaria. Cfr. (Cass. 27 giugno 2019, n. 17258; Cass. 22 maggio 2015, n. 10578; Cass. 12 marzo 2007, n. 5720).

Di talché il Supremo Collegio, in ordine alla produzione della sentenza penale favorevole passata in giudicato in sede di memoria difensiva ex art. 378 c.p.c., aveva affermato il principio secondo cui, nel giudizio di cassazione, l’esistenza del giudicato esterno è, al pari di quella del giudicato interno, rilevabile d’ufficio, non solo qualora emerga da atti comunque prodotti nel giudizio di merito, ma anche nell’ipotesi in cui il giudicato si sia formato successivamente alla pronuncia della sentenza impugnata, con correlativa inopponibilità del divieto di cui all’art. 372 c.p.c., non può trovare applicazione laddove la sentenza passata in giudicato venga invocata, ai sensi dell’art. 654 c.p.p., unicamente al fine di dimostrare l’effettiva sussistenza (o insussistenza) dei fatti. In tali casi il giudicato non assume alcuna valenza enunciativa della regula iuris alla quale il giudice civile ha il dovere di conformarsi nel caso concreto, mentre la sua astratta rilevanza potrebbe ravvisarsi soltanto in relazione all’affermazione (o negazione) di meri fatti materiali, ossia a valutazioni di stretto merito non deducibili nel giudizio di legittimità. Ne consegue l’inammissibilità della produzione della sentenza penale, siccome estranea all’ambito previsionale dell’art. 372 c.p.c. (Cass., sez. un., 2 febbraio 2017, n. 2735, di cui fanno applicazione, tra tante, Cass. 26 settembre 2017, n. 22376; Cass. 11 aprile 2024, n. 9900; Cass. 9 giugno 2023, n. 16413).

Per cui il risultato raggiunto in sede penale, pur non rappresentando un qualcosa di completamente avulso dal gravame tributario, non valeva a fondare un obbligo del giudice tributari a conformarvisi, considerato che quest’ultimo poteva legittimamente fondare il proprio convincimento sulle prove acquisite nel giudizio penale, purché procedesse ad una propria ed autonoma valutazione degli elementi probatori.

Per quello che riguarda la valutazione da parte del giudice tributario degli elementi probatori emersi in sede penale, rileva segnalare che il sistema dell’istruzione probatoria è sempre stata connotata da un profondo differente regime di canone probatorio nei due giudizi: nel processo tributario non erano ammessi, in osservanza a quanto disposto dall’art.7, comma 4 del D.Lgs n. 546/1992, né il giuramento, né la prova testimoniale tipica;  e inoltre gli Uffici tributari potevano legittimamente avvalersi in alcuni casi delle presunzioni, anche se non sono connotate dai requisiti di gravità, precisione e concordanza. Per cui come detto nel tempo, anche in ragione del differente regime probatorio esistente nel procedimento tributario e in quello penale è stata riconosciuta la assoluta libertà di valutazione da parte del giudice tributario di fatti già oggetto di indagini in sede penale e il potere-dovere del giudice tributario di compiere una valutazione autonoma.

Diversamente, con riferimento al processo penale gli indizi dai quali si desume “l’esistenza di un fatto” devono essere gravi, precisi e concordanti (art. 192 comma cod. proc. pen.). In particolare, le presunzioni legali previste dalle norme tributarie, pur potendo avere valore indiziario, non possono costituire di per sé fonte di prova della commissione dell’illecito, assumendo il valore di dati di fatto, che devono essere valutati liberamente dal giudice penale unitamente ad elementi di riscontro che diano certezza dell’esistenza della condotta criminosa”. Ciò, vale anche con riferimento alla determinazione della cd. “soglia di punibilità” in relazione al reato di cui all’art. 5 del D. Lgs. 74/2000, sulla base di presunzioni. Giova inoltre sul punto ricordare che in sede penale non si mira ad accertare il quantum evaso, ma l’attribuibilità o meno all’imputato di una condotta illecita, “oltre ogni ragionevole dubbio.” Ragione, questa, per la quale gli elementi addotti dall’Amministrazione finanziaria in sede di giudizio penale hanno sempre avuto il valore di meri indizi, che il giudice penale deve autonomamente valutare, unitamente al restante materiale probatorio.

2. L’introduzione del nuovo art. 21-bis del d.lgs. N. 74/2000

A seguito dell’emanazione del decreto legislativo n. 87 del 14 giugno 2024 è stato introdotto nel d.l. n. 74 del 2000 l’articolo 21-bis rubricato “Efficacia delle sentenze penali nel processo tributario e nel processo di Cassazione”, il quale dispone:“1. La sentenza irrevocabile di assoluzione perché il fatto non sussiste o l’imputato non lo ha commesso, pronunciata in seguito a dibattimento nei confronti del medesimo soggetto e sugli stessi fatti materiali oggetto di valutazione nel processo tributario, ha, in questo, efficacia di giudicato, in ogni stato e grado, quanto ai fatti medesimi. 2. La sentenza penale irrevocabile di cui al comma 1 può essere depositata anche nel giudizio di Cassazione fino a quindici giorni prima dell’udienza o dell’adunanza in camera di consiglio. 3. Le disposizioni dei commi 1 e 2 si applicano, limitatamente alle ipotesi di sentenza di assoluzione perché il fatto non sussiste, anche nei confronti della persona fisica nell’interesse della quale ha agito il dipendente, il rappresentante legale o negoziale, ovvero nei confronti dell’ente e società, con o senza personalità giuridica, nell’interesse dei quali ha agito il rappresentante o l’amministratore anche di fatto, nonché nei confronti dei loro soci o associati”.

Con tale articolo il legislatore ha voluto innovare il rapporto tra procedimento penale e tributario anche alla luce del principio ne bis in idem.

Il nuovo articolo 21-bis cit. trova efficacia, come previsto dal comma 3, anche nei confronti di altri soggetti connessi con l’imputato, qualora la sentenza penale è pronunciata esclusivamente con la formula “ perché il fatto non sussiste ”

La prima questione che si è posta, in relazione alla efficacia intertemporale della nuova disposizione, è stata affrontata e risolta dalla Suprema Corte con esiti conformi. Si è infatti chiarito che “L’art. 21-bis del D.Lgs. n. 74 del 2000, introdotto dal D.Lgs. n. 87 del 2024, che riconosce efficacia di giudicato nel processo tributario alla sentenza penale dibattimentale irrevocabile di assoluzione, è applicabile, quale ius superveniens, anche ai casi in cui detta sentenza è divenuta irrevocabile prima della operatività di detto articolo e, alla data della sua entrata in vigore, risulta ancora pendente il giudizio di cassazione contro la sentenza tributaria d’appello che ha condannato il contribuente in relazione ai medesimi fatti, rilevanti penalmente, dai quali egli è stato irrevocabilmente assolto, in esito a giudizio dibattimentale, con una delle formule di merito previste dal codice di rito penale (perché il fatto non sussiste o perché l’imputato non l’ha commesso)” (cfr. Cass. n. 30814/2024; Cass. n. 23570/2024, Cass. n. 21584/2024, Cass. n. 23609/2024; da ultimo, v. ancora Cass. n. 1021/2025)

Si osserva ancora che, in tema di disposizioni processuali, la Suprema Corte  ha affermato il principio che, in mancanza di una disposizione transitoria (circostanza che ricorre anche nella disciplina in esame), debba essere applicato il principio per il quale, nel caso di successione di leggi processuali nel tempo, ove il legislatore non abbia diversamente disposto, in ossequio alla regola generale di cui all’art. 11 delle preleggi, la nuova norma disciplina non solo i processi iniziati successivamente alla sua entrata in vigore ma anche i singoli atti, ad essa successivamente compiuti, di processi iniziati prima della sua entrata in vigore (così Cass. 3 aprile 2017, n. 8590; Cass. 30 dicembre 2014, n. 27525; Cass. 12 settembre 2014, n. 19270).

L’efficacia della decisione penale anche in ambito tributario è limitata alle decisioni suscettibili di passare in giudicato, ovverosia solo le sentenze dibattimentali e non anche le sentenze di non doversi procedere emesse all’esito di udienza preliminare, sempre si ricorda revocabili, o le ordinanze e i decreti di archiviazione che costituiscono una definizione instabile del procedimento penale.

La Suprema Corte, sotto tali profili, intervenendo sull’applicazione del nuovo art. 21-bis cit. ha affermato che (Cassazione ordinanza del 7 agosto 2024, n. 22321) non trova applicazione l’articolo 21-bis all’esito di un procedimento penale che si conclude nella fase delle indagini preliminari con provvedimento di archiviazione. In particolare ha chiarito che “.. È bene sottolineare che i surriferiti principi di diritto sono stati elaborati con riferimento al contesto normativo anteriore all’entrata in vigore dell’art. 21-bis del D.Lgs. n. 74 del 2000 (rubricato “Efficacia delle sentenze penali nel processo tributario e nel processo di Cassazione”), inserito dall’art. 1, comma 1, lettera m), del D.Lgs. n. 87 del 2024, secondo il quale: (…) Il citato articolo non viene, tuttavia, in rilievo nel caso di specie, non risultando pronunciata nei confronti del ricorrente, in relazione ai fatti di evasione fiscale di cui qui si discute (riguardanti l’anno d’imposta 2004), sentenza dibattimentale di assoluzione con formula piena (per quanto emerge “ex actis”, il procedimento penale a suo carico si è concluso nella fase delle indagini preliminari con provvedimento di archiviazione)….”.

Il suddetto orientamento è stato confermato anche dalla sentenza 10 ottobre 2024, n. 26482 della Corte di Cassazione che ha statuito l’esclusione dell’efficacia di giudicato della sentenza penale nei casi in cui la << sentenza di assoluzione pronunciata dal Tribunale di Lecce in funzione di giudice dell’udienza preliminare >> e, pertanto, non pronunciata a seguito di dibattimento.

Inoltre il Supremo consesso con la sentenza n. 30814 depositata il 2 dicembre 2024 ha precisato che “La disposizione, che non si accompagna alla previsione di una sospensione obbligatoria del processo tributario in pendenza di quello penale, impone di riconoscere efficacia vincolante nel processo tributario al giudicato penale assolutorio formatosi a seguito di giudizio dibattimentale purché tale giudicato abbia ad oggetto gli stessi fatti materiali oggetto di valutazione nel processo tributario e purché l’assoluzione sia avvenuta in base ad una delle due formule sopra indicate; l’efficacia del giudicato attiene quindi agli “stessi fatti materiali.

La ratio della riforma, evincibile del criterio direttivo della legge delega e resa esplicita dalla relazione illustrativa al decreto legislativo, è quella di rafforzare l’integrazione dei sistemi sanzionatori nella prospettiva del rispetto del principio del ne bis in idem (criterio di delega di cui all’art. 20, comma 1, lett. a), n. 1 della L. n. 111 del 2023); il legislatore si propone la razionalizzazione del sistema sanzionatorio amministrativo e penale, anche attraverso una maggiore integrazione tra i diversi tipi di sanzione, ai fini del completo adeguamento al principio del ne bis in idem. “

3. Il doppio binario si sbilancia a favore del processo penale. Se da un lato il giudice penale non può utilizzare le presunzioni tributarie, dall’altro il giudice tributario dovrà tener conto della sentenza penale

Nell’ambito di un procedimento e di un processo penale che abbiano ad oggetto una fattispecie penale tributaria ovvero uno dei reati fiscali di cui al D.Lgs. n. 74/2000, non può trovare ingresso l’applicazione pura e semplice delle presunzioni di cui l’ordinamento tributario fa largo uso secondo criteri formalistici suoi tipici introdotti dal legislatore al fine di facilitare il compito dell’Amministrazione finanziaria nella ricostruzione del reddito del contribuente.

Si pensi, ad esempio, agli accertamenti induttivi emessi a norma dell’art. 39, comma 2, del D.P.R. n. 600/1973 che ricostruiscono l’imponibile sulla base di presunzioni semplicissime prive dei requisiti di gravità precisione e concordanza (come nei casi di omessa dichiarazione o di inattendibilità delle scritture contabili) ovvero agli accertamenti bancari emessi a norma dell’art. 32 del D.P.R. n. 600/1973 che utilizzando le presunzioni legali relative (che attribuiscono natura reddituale ai movimenti non giustificati) comportano l’inversione dell’onere della prova a carico del contribuente.

Invero, un simile ingresso introdurrebbe surrettiziamente nell’ordinamento penale una presunzione di colpevolezza a carico dell’indagato-imputato, sul quale – per tale via – sarebbe incostituzionalmente rovesciato l’onere di provare l’infondatezza dell’assunto accusatorio ipotizzato nei suoi confronti.

La Corte Suprema di Cassazione ha statuito che «la presenza nella fattispecie penale di elementi normativi altrove disciplinati», cioè disciplinati nella normativa tributaria, «non può rappresentare la falla attraverso la quale il travaso di istituti giuridici di altri rami del diritto possa geneticamente mutare la norma penale» (Cass. pen., sent. n. 44170 del 3 novembre 2023). Sempre il Supremo Collegio ha confermato che «spetta esclusivamente al giudice penale il compito di procedere all’accertamento e alla determinazione dell’ammontare dell’imposta evasa, attraverso una verifica che può venire a sovrapporsi o anche ad entrare in contraddizione con quella eventualmente effettuata dinanzi al giudice tributario…In sede penale…il giudice non può applicare le presunzioni legali, sia pure di carattere relativo, o i criteri di valutazione validi in sede tributaria» (Cass. pen., sent. n. 6823 del 17 febbraio 2015).

Anche la Corte Costituzionale aveva avuto modo di ribadire il medesimo principio di diritto, affermando che «nessuna conseguenza negativa per il contribuente indagato può derivare, nel procedimento penale, dal fatto che in sede tributaria sia stato effettuato un accertamento in base alla presunzione fondata sugli elementi risultanti dalla documentazione bancaria, accertamento rispetto al quale il contribuente non abbia potuto o non abbia voluto fornire giustificazioni idonee a smentire la imponibilità delle operazioni documentate: non avendo l’accertamento tributario così fondato, di per sé, alcuna ulteriore portata probatoria in sede penale, che vada al di là di quella propria della documentazione acquisita nella stessa sede, e trasferita in sede tributaria» (Cnf. Corte Costituzionale Ord. n. 33 del 26 febbraio 2002).

Ciò dipende dalla diversa finalità che assume l’accertamento in sede tributaria e in sede penale: il procedimento tributario ha ad oggetto la verifica della legittimità della pretesa impositiva dell’Amministrazione finanziaria che agisce al fine di recuperare quelle somme illegittimamente non versate dal contribuente; per contro, nel procedimento penale si accerta se è stato commesso un fatto e se lo stesso costituisca reato, comminando una pena che ha finalità retributiva, di prevenzione generale e speciale, nonché rieducativa: «in tema di reati tributari, il giudice, per determinare l’ammontare dell’imposta evasa, deve effettuare una verifica che, pur non potendo prescindere dalle specifiche regole stabilite dalla legislazione fiscale per quantificare l’imponibile, risente delle limitazioni derivanti dalla diversa finalità dell’accertamento penale» (Cass. pen., sent. n. 43330 del 26 ottobre 2023); «al legislatore penale tributario non sta a cuore il recupero in sé del gettito fiscale evaso, né il corretto adempimento dell’obbligazione tributaria»; quella penale, infatti, è «una norma che ha ad oggetto…i comportamenti e dunque la persona prima di tutto e persegue interessi diversi da quelli disciplinati dalla fonte di appartenenza» (Cass. pen., sent. n. 44170 del 3 novembre 2023).

In tale ottica, il procedimento penale è coerentemente caratterizzato dal principio del libero convincimento (art. 192 c.p.p.) e dall’utilizzo limitato della prova indiziaria (art. 192, comma 2, c.p.p.: «l’esistenza di un fatto non può essere desunta da indizi a meno che questi siano gravi, precisi e concordanti») che deve impiegare, infatti, indizi qualificati.

Dunque, argomenti d’ordine presuntivo possono essere utilizzati al fine di valutare la fondatezza della notizia di reato solo se, e nei limiti, in cui il procedimento logico-inferenziale risulti guidato da elementi obiettivi che lascino soltanto un minimo spazio all’arbitrio del giudice penale, escludendo radicalmente la possibilità di prospettare ipotesi alternative. In quest’ottica per come detto l’accertamento induttivo ha semmai soltanto valore di presunzione semplice, non esistendo nel sistema processuale penale la presunzione legale: essa, pertanto, costituisce un indizio che deve trovare riscontro o in distinti elementi di prova o in altre presunzioni, purché gravi, precise e concordanti.

Sicché, anche qualora il giudice penale voglia considerare indizi le presunzioni utilizzate ai fini fiscali, dovrà comunque verificare la certezza e l’univocità delle circostanze indizianti, in modo da non dar luogo a molteplici induzioni, ma ad una soltanto; dovrà cioè verificare la pluralità e la concordanza degli indizi, come pure dovrà verificare che la circostanza indiziante risulti certa e provata.

Detti principi sono stati ribaditi dalla Suprema Corte di Cassazione  con la sentenza n. 43330 del 26 ottobre 2023 che, pronunciandosi in tema di omessa dichiarazione, ha richiamato l’articolo 189 c.p.p. – il quale esprime il principio di atipicità dei mezzi di prova proprio del processo penale – sostenendo conseguentemente che nessuna norma vieta al giudice penale di avvalersi delle risultanze degli accertamenti induttivi compiuti in sede tributaria, ricordando tuttavia che: «resta ferma l’autonoma valutazione degli elementi emersi secondo i criteri generali previsti dall’art. 192 c.p.p., comma 1…al di fuori di qualunque presunzione e di ogni predeterminazione del loro peso probatorio».

Sempre il Supremo Collegio con la sentenza n. 44170 del 3 novembre 2023 ha statuito che il giudice penale «può utilizzare le informazioni e i dati acquisiti dagli uffici finanziari nell’ambito delle attività di cui al D.P.R. n. 600 del 1970, artt. 31 bis, 32 e 33, ma non può avvalersi degli stessi criteri di giudizio ivi previsti per l’accertamento presuntivo dell’imposta dovuta giustificato, sul piano fiscale, dal comportamento non collaborativo del contribuente, né gli è preclusa la possibilità di acquisire e utilizzare, a fini di accertamento del reato, gli atti, i documenti, i libri e i registri non esibiti o non trasmessi dal contribuente che quest’ultimo può utilizzare in sede tributaria solo se dimostri di non aver potuto adempiere alle richieste degli uffici finanziari per cause a lui non imputabili (D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, commi 3 e 4). In conformità a quanto prevede l’art. 220 disp. att. c.p.p., può utilizzare, a fini di ricostruzione del fatto, il processo verbale di accertamento o di constatazione (ma non le valutazioni e i giudizi in essi contenuti)».

Se questo è il punto in tema di utilizzo nel processo penale delle presunzioni tributarie che sono normalmente applicate nelle verifiche e negli accertamenti dell’Amministrazione finanziaria, altra cosa è – procedendo nella direzione esattamente opposta – il valore che la sentenza penale può  e deve avere nel contesto di un contenzioso tributario.

Al riguardo, con la intervenuta riforma del sistema penale tributario [D.Lgs 74/2000] il legislatore aveva sfumato i confini tra giudizio penale e giudizio tributario a favore del primo.

La nuova disciplina del sistema penale tributario introdotta dal D.Lgs. n. 74/2000, abrogato espressamente il titolo I della L. n. 516/1982 e dunque l’art. 12 in esso ricompreso, aveva affermato la piena autonomia tra procedimento penale e processo tributario – evidenziata dall’esclusione della pregiudiziale penale prevista dall’art 20 del D.Lgs. n. 74/2000 – i cui rapporti erano dunque regolati dall’art. 654 c.p.p., il quale però – come indicato dalla relazione di accompagnamento al decreto legislativo del 2000 – appunto «esclude l’efficacia “esterna” del giudicato penale allorché la legge civile ponga limitazioni alla prova della posizione soggettiva controversa».

Coerentemente la giurisprudenza di legittimità in diverse pronunce aveva statuito che «l’imputato assolto in sede penale, anche con formula piena, per non aver commesso il fatto o perché il fatto non sussiste, può essere ritenuto responsabile fiscalmente qualora l’atto impositivo risulti fondato su validi indizi, insufficienti per un giudizio di responsabilità penale ma adeguati, fino a prova contraria, nel giudizio tributario» (Cass. civ., ord. n. 16262 del 28 giugno 2017; conf. Cass. civ., ord. n. 30941 del 27 settembre 2019).

Tuttavia, pur nella vigenza del “doppio binario” tra processo penale e processo tributario, la giurisprudenza tributaria di merito e di legittimità ha spesso inteso riconoscere al giudice tributario il potere di valutare, autonomamente, la pronuncia penale in modo da farla confluire tra gli altri elementi di prova emersi nel contenzioso tributario per rafforzare la propria convinzione sul merito della questione sottoposta al suo esame (dal decreto di archiviazione, alla sentenza di assoluzione o di condanna ivi compresa la sentenza di patteggiamento, quest’ultima inizialmente concepita come una pronuncia giurisdizionale ininfluente perché “senza giudizio” con riguardo alla fondatezza dell’accusa e alla responsabilità dell’imputato e poi considerata come l’implicito riconoscimento della propria colpevolezza).

Detto impianto normativo è stato superato a seguito dell’emanazione del decreto legislativo n. 87 del 14 giugno 2024  con cui è stato introdotto nel d.l. n. 74 del 2000 l’articolo 21-bis rubricato “Efficacia delle sentenze penali nel processo tributario e nel processo di Cassazione”, il quale dispone:“1. La sentenza irrevocabile di assoluzione perché il fatto non sussiste o l’imputato non lo ha commesso, pronunciata in seguito a dibattimento nei confronti del medesimo soggetto e sugli stessi fatti materiali oggetto di valutazione nel processo tributario, ha, in questo, efficacia di giudicato, in ogni stato e grado, quanto ai fatti medesimi. 2. La sentenza penale irrevocabile di cui al comma 1 può essere depositata anche nel giudizio di Cassazione fino a quindici giorni prima dell’udienza o dell’adunanza in camera di consiglio. 3. Le disposizioni dei commi 1 e 2 si applicano, limitatamente alle ipotesi di sentenza di assoluzione perché il fatto non sussiste, anche nei confronti della persona fisica nell’interesse della quale ha agito il dipendente, il rappresentante legale o negoziale, ovvero nei confronti dell’ente e società, con o senza personalità giuridica, nell’interesse dei quali ha agito il rappresentante o l’amministratore anche di fatto, nonché nei confronti dei loro soci o associati”.

Invero la novella legislativa del 2024 è stata preceduta dalle modifiche apportate dalla Legge 130/2022 in materia di prove nel procedimento tributario.

La  modifica apportata dalla L. n. 130/2022 all’art. 7, comma 4, del D.Lgs. n. 546/1992, ammettendo la prova testimoniale nel procedimento tributario, ha inferto un vulnus importante alla limitazione della prova nel processo tributario. Rispetto a tale importante novità sulle prove assumibili in sede tributaria risulta coerente l’introduzione di una efficacia vincolante della sentenza penale passata in giudicato dinanzi al giudice tributario.

La sentenza penale irrevocabile assume efficacia vincolante e opera automaticamente nel processo tributario.

La recente riforma del sistema sanzionatorio tributario, di cui al d.lgs. 14 giugno 2024, n. 87, ha introdotto l’art. 21 bis nel d.lgs. n. 74 del 2000 che, al comma 1 prevede: “la sentenza irrevocabile di assoluzione perché il fatto non sussiste o l’imputato non lo ha commesso, pronunciata in seguito a dibattimento nei confronti del medesimo soggetto e sugli stessi fatti materiali oggetto di valutazione nel processo tributario, ha, in questo, efficacia di giudicato, in ogni stato e grado, quanto ai fatti medesimi”.

Con tale disposizione si è voluto superare il regime del c.d. “doppio binario” tra giudizio penale e giudizio tributario. In precedenza, difatti, nel processo tributario l’efficacia vincolante del giudicato penale di assoluzione non operava automaticamente e ciò poiché nel processo tributario vigono limitazioni delle prove e, soprattutto, possono valere anche presunzioni semplici, le quali sono insufficienti per come ricordato per un giudizio di responsabilità penale ma adeguate (entro i prescritti limiti, ossia se si presentano gravi, precise e concordanti ex art. 2729 c.c.) a fondare e motivare l’atto di accertamento e la sentenza tributaria. Pertanto, il giudice tributario che poneva a fondamento della sua decisione una sentenza penale irrevocabile doveva procedere all’apprezzamento del suo contenuto e porlo a confronto con gli altri elementi di prova acquisiti nel giudizio. La sentenza penale irrevocabile era, quindi, una semplice fonte di prova.

La novella disciplina, in vigore dal 29 giugno 2024, prevede dunque che l’assoluzione del giudice penale, a determinate condizioni, abbia efficacia diretta e vincolante nel giudizio tributario di merito. E anche in quello di legittimità , purché la sentenza penale irrevocabile venga depositata quindici giorni prima dell’udienza o dell’adunanza in camera di consiglio.

Altre questioni sorte con la nuova disciplina riguardano le tre condizioni previste dalla disposizione:

– la sentenza penale deve essere stata pronunciata “in seguito a dibattimento”: sono così esclusi dal perimetro dell’art. 21 bis i decreti di archiviazione e le sentenze c.d. di “patteggiamento”;

– la sentenza penale deve avere per oggetto gli “stessi fatti materiali oggetto di valutazione nel processo tributario”, fatti che devono essere stati oggetto del giudizio penale e che devono essere stati considerati rilevanti ai fini di quella pronuncia;

– la sentenza penale deve sancire che “il fatto non sussiste o l’imputato non lo ha commesso”: sono pertanto escluse le sentenze penali che recano formule assolutorie quali “il fatto non costituisce reato”, oppure “l’imputato non è punibile o non è imputabile”, oppure le sentenze di non doversi procedere perché il reato è estinto per prescrizione o per amnistia.

Altra questione  discussa è il coordinamento della portata dell’art. 21 bis del d.lgs. n. 74 del 2000 con le formule di cui ai primi due commi dell’art. 530 c.p.p. che, rispettivamente, recitano: – “se il fatto non sussiste, se l’imputato non lo ha commesso, se il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato ovvero se il reato è stato commesso da persona non imputabile o non punibile per un’altra ragione, il giudice pronuncia sentenza di assoluzione indicandone la causa nel dispositivo” (primo comma), e – “il giudice pronuncia sentenza di assoluzione anche quando manca, è insufficiente o è contraddittoria la prova che il fatto sussiste, che l’imputato lo ha commesso, che il fatto costituisce reato o che il reato è stato commesso da persona imputabile” (secondo comma).

Si tratta di formule di assoluzione differenti ed elencate in ordine d’importanza per l’imputato: sono infatti graduate da quelle più favorevoli a quelle a lui meno favorevoli.

Vale rammentare che il comma 2 dell’art. 530 ha sostituito il precedente istituto della assoluzione per insufficienza di prove. Ora, il giudice pronuncia sentenza di assoluzione piena, con le formule elencate nel comma 1, anche quando “manca, è insufficiente o contraddittoria la prova che il fatto sussiste, che l’imputato lo ha commesso, che il fatto costituisce reato o che il reato è stato commesso da persona imputabile”. Quindi, la prova positiva dell’innocenza dell’imputato, e la prova negativa della sua responsabilità, sono considerate di pari valore agli effetti del giudizio di colpevolezza. Quando il giudice penale pronuncia la sentenza di assoluzione, indica sempre nel dispositivo la causa.

Presso la Suprema Corte di Cassazione si registrano sulla problematica decisioni non convergenti che hanno determinato di recente, esattamente in data 04.03.2025, la V Sezione Civile della Corte a rimettere la questione giuridica alle Sezioni Unite.

Sul punto gioverà richiamare alcuni passaggi che hanno determinato la rimessione della questione di diritto alle Sezioni Unite.

Si legge testualmente nel provvedimento: “ Non vi è, inoltre, convergenza di orientamento in ordine alla rilevanza nel giudizio tributario delle sentenze penali di assoluzione pronunziate ex art. 530, secondo comma, c.p.p. Si è formato, a tale riguardo, un orientamento inteso ad escluderne il rilievo ai fini della disciplina di cui all’art. 21-bis cit. in esame (a partire da Cass. n. 3800/2025, seguita da Cass. n. 4291/2025 e Cass. n. 4294/2025). È stato, in particolare, affermato, che, pur dovendosi considerare che nel giudizio penale la prova positiva dell’innocenza dell’imputato (art. 530, comma 1) e la prova negativa della sua responsabilità (art. 530, comma 2) hanno pari valore, la giurisprudenza civile, invece, nell’interpretare gli artt. 651-654 c.p.p., ha distinto le due situazioni, attribuendo differente valore alle ipotesi di assoluzione pronunciate a norma del primo comma rispetto a quelle pronunciate a norma del secondo comma, con orientamento consolidato da oltre trent’anni e che ha trovato il suo riconoscimento anche da parte delle Sezioni Unite (v. Sez. U, n. 1768 del 26/01/2011, che, con riguardo all’art. 652, ma anche rispetto agli artt. 651, 653 e 654 c.p.p., ha affermato che “la sentenza di assoluzione è idonea a produrre gli effetti di giudicato ivi indicati non in relazione alla formula utilizzata, bensì solo in quanto contenga, in termini categorici, un effettivo e positivo accertamento circa l’insussistenza del fatto”). Il principio, si osserva, è stato affermato anche dal giudice amministrativo (Consiglio di Stato, sez. 2, n. 2509 del 2014), secondo il quale “l’efficacia vincolante del giudicato penale è configurabile solo allorché la sussistenza dei reati contestati sia stata esclusa ai sensi dell’art. 530, comma 1, c.p.p.”. 10.2. La giustificazione logica e giuridica dell’orientamento che distingue la rilevanza ai fini civili tra i due commi viene altresì colta nel fatto che il fondamento sostanziale della scelta di attribuire efficacia di giudicato alla sentenza penale di assoluzione (per le formule assolutorie di insussistenza del fatto e per non aver commesso il fatto, qui in rilievo) deriva dal maggior approfondimento istruttorio che caratterizza il processo penale rispetto a quello civile (e tributario) e dalla possibilità, propria del processo penale, di ricostruire la situazione fattuale con estrema certezza. 10.3. Tale condizione (ossia la ricostruzione della situazione fattuale con estrema certezza) si avrebbe, tuttavia, solamente nei casi in cui la pronuncia di assoluzione sia resa ex art. 530, comma 1, c.p.p. (prova positiva che superi ogni ragionevole dubbio) e non nei casi in cui la pronuncia di assoluzione sia resa ex art. 530, comma 2, c.p.p. (prova mancante, insufficiente o carente. La tesi contraria, favorevole alla estensione degli effetti dell’art. 21-bis cit. anche alle sentenze di assoluzione con formula di merito pronunciate ai sensi dell’art. 530, comma 2, c.p.p., è ravvisabile, seppure in forma inespressa, in Cass. n. 23570/2024 e Cass. n. 23609/2024. 11.2. Per completezza, a tale riguardo, può osservarsi che l’art. 21-bis del D.Lgs. n. 74/2000 sfugge al sistema degli artt. 651-654 c.p.p., ponendosi come regola autonoma e speciale, e dunque verrebbe meno anche il riferimento agli esiti della consolidata giurisprudenza di legittimità formatasi al riguardo. Ciò vale, in primo luogo, in relazione ai presupposti di applicabilità, rilevandosi, ad esempio, che l’art. 21-bis cit., a differenza della disciplina dettata dall’art. 652 c.p.p., non equipara, quoad effectum, alla sentenza dibattimentale la sentenza irrevocabile di assoluzione pronunciata a norma dell’articolo 442 c.p.p., anche se la parte civile abbia accettato il rito abbreviato. Ancora, e con maggior rilievo euristico, la disciplina dell’art. 21-bis cit. elude la clausola di compatibilità con le limitazioni alla prova imposte dalla “legge civile” predicata dall’art. 654 c.p.c. 11.3. E dunque, in ragione della autonomia della nuova disciplina, potrebbe valorizzarsi l’elemento testuale della mancata esplicita esclusione, nell’art. 21-bis cit., dell’efficacia extra-penale della sentenza di assoluzione pronunciata ai sensi del secondo comma dell’art. 530 c.p.p. Osservandosi che la ratio della novella è dichiaratamente semplificatoria, di integrazione completa dei due sistemi, e tende ad uniformare gli esiti penali e tributari sui medesimi fatti accertati, potrebbe pertanto ritenersi che, se il legislatore avesse voluto escludere il secondo comma lo avrebbe fatto, così come ha escluso le assoluzioni a seguito di giudizi non dibattimentali. 11.4. Infine, sul versante prospettico del rispetto del principio del ne bis in idem, non appare peregrino osservare che anche il secondo comma dell’art. 530 c.p.p. esprime un accertamento, negativo, in merito alla insussistenza dei fatti materiali oggetto della imputazione, per come contestati, comuni ai fatti oggetto della pretesa tributaria.”

Richiamata la ordinanza di rimessione della questione di diritto alle Sezioni Unite appare utile ricordare che la giurisprudenza, in applicazione degli artt. 652, 653 e 654 c.p.p. (sull’efficacia della sentenza penale di assoluzione, rispettivamente, nel giudizio di danno, nel giudizio disciplinare e in altri giudizi civili o amministrativi) distingue le assoluzioni disposte in base ai due differenti commi dell’art. 530 c.p.p.

Nelle cause concernenti procedimenti disciplinari, il Giudice amministrativo afferma che “l’efficacia vincolante del giudicato penale è configurabile solo allorché la sussistenza dei reati contestati sia stata esclusa ai sensi dell’art. 530, comma 1, c.p.p., vale a dire quando all’esito del dibattimento è stata raggiunta la prova positiva dell’insussistenza dei fatti o della loro non attribuibilità all’imputato”. E precisa, per esempio, che l’inutilizzabilità delle intercettazioni telefoniche ai fini della prova della responsabilità penale del dipendente (che ne ha permesso l’assoluzione ai sensi del comma 2 dell’art. 530 c.p.p.), non impedisce l’utilizzo di quelle intercettazioni in sede disciplinare, stante l’autonomia tra procedimento penale e procedimento disciplinare (C.d.S., sez. II, 15.3.2014, n. 2509).

E nelle cause civili il Giudice di legittimità ha precisato che “(…) in tema di rapporti tra giudizio penale e giudizio civile, la sentenza di assoluzione ha effetto preclusivo nel processo civile (sia ex art. 652 c.p.p. che ex art. 654 c.p.p.) solo nel caso in cui contenga un effettivo e specifico accertamento circa l’insussistenza o del fatto o della partecipazione dell’imputato, e non anche nell’ipotesi in cui sia stata pronunciata a norma dell’art. 530, comma 2, c.p.p., per inesistenza di sufficienti elementi di prova circa la commissione del fatto o la sua attribuibilità all’imputato” (Cass. civ., sez. III, 15.2.2024, n. 4201).

4. Ulteriori problematiche interpretative della novella legislativa del 2024

La sentenza 15/01/2025 n. 3800, pubblicata il 14 febbraio scorso, pronunciata dalla Suprema Corte ha immediatamente suscitato, da parte della dottrina e degli operatori del diritto, sorpresa e perplessità. Sostanzialmente la Suprema Corte nella citata pronuncia, nell’esaminare le applicazioni del nuovo art. 21 bis D.lgs. 74/2000, ha affermato che la sentenza penale irrevocabile di assoluzione “perché il fatto non sussiste” o “l’imputato non lo ha commesso” sarebbe idonea a vincolare il Giudice tributario soltanto per quanto riguarda la sanzione amministrativa/punitiva, ma non per quanto riguarda l’accertamento dell’imposta, assumendo in quest’ultimo caso soltanto il valore di “elemento di prova”.

La sentenza in esame, superando le precedenti pronunce ex pluribus Cass. 31 luglio 2024, n. 21584; Cass. 3 settembre 2024, n. 23570; Cass. 3 settembre 2024, n. 23609; Cass. 11 ottobre 2024, n. 26584; Cass. 2 dicembre 2024, n. 30814; Cass. 3 dicembre 2024, n. 30900; Cass. 16 gennaio 2025, n. 1021 che già si erano pronunciate sul punto, ha affermato il seguente principio di diritto “L’art. 21-bis D.lgs. n. 74 del 2000, introdotto con l’art. 1, D.lgs. n. 87 del 2024, poi recepito nell’art. 119 T.U. della giustizia tributaria, in base al quale la sentenza penale dibattimentale di assoluzione, con le formule perché il fatto non sussiste o per non aver commesso il fatto, ha, nel processo tributario, efficacia di giudicato quanto ai fatti materiali, si riferisce, alla luce di una interpretazione letterale, sistematica, costituzionalmente orientata e in conformità ai principi unionali, esclusivamente alle sanzioni tributarie e non all’accertamento dell’imposta, rispetto alla quale la sentenza penale assolutoria ha rilievo come elemento di prova, oggetto di autonoma valutazione da parte del giudice tributario unitamente agli altri elementi di prova introdotti nel giudizio“.

Anche per superare dette divergenze interpretative la citata pronuncia della V Sezione Civile della Suprema Corte di Cassazione del 04.03.2025 ha rimesso la questione al vaglio delle Sezioni Unite.

Gioverà anche per questo aspetto richiamare detta ordinanza di rimessione della vicenda alle Sezioni Unite Civili: “Analoga convergenza non è, al contrario, ravvisabile in merito agli effetti che genera, nel processo tributario, anche di cassazione, la sentenza penale irrevocabile di assoluzione che risponda ai requisiti previsti all’art. 21-bis del D.Lgs. n. 74/2000, essendosi formati a tale riguardo due, non conciliabili, orientamenti, di cui: i) il primo riconosce l’efficacia del giudicato penale anche ai fini dell’accertamento del presupposto impositivo, e dunque ai fini del rapporto tra contribuente ed erario, ii) il secondo opera una lettura riduttiva della novella legislativa, che esplicherebbe i suoi effetti esclusivamente con riguardo alle sanzioni irrogate, mentre con riguardo all’imposta la sentenza penale, ancorché i fatti accertati in sede penale siano gli stessi per i quali l’Amministrazione finanziaria ha promosso l’accertamento nei confronti del contribuente, continuerebbe ad essere una possibile fonte di prova, autonomamente valutabile dal giudice tributario, esattamente come avveniva prima della recente riforma. 7. La prima tesi: l’art. 21-bis del D.Lgs. n. 74/2000 riguarda l’imposta, ossia la decisione del giudice tributario sulla sussistenza del presupposto impositivo. 7.1. Secondo un primo orientamento (manifestato da questa Corte con le coeve decisioni Cass. n. 23570/2024 e Cass. n. 23609/2024, successivamente ribadito, inter alias, da Cass. 21584/2024, Cass. n. 30675/2024, Cass. n. 30814/2024 e, da ultimo, ancora da Cass. n. 936/2025 e n. 1021/2025) l’art. 21-bis del D.Lgs. n. 74 del 2000, introdotto dal D.Lgs. n. 87 del 2024, che riconosce efficacia di giudicato nel processo tributario alla sentenza penale dibattimentale irrevocabile di assoluzione, in relazione ai medesimi fatti, rilevanti penalmente, con una delle formule “di merito” previste dal codice di rito penale (perché il fatto non sussiste o perché l’imputato non l’ha commesso), comporta che debba ritenersi, anche con riferimento al giudizio tributario, che tali fatti non sussistano, così venendo meno il relativo presupposto impositivo delle riprese fiscali. 7.2. L’art. 21-bis cit., che non si accompagna alla previsione di una sospensione obbligatoria del processo tributario in pendenza di quello penale, impone di riconoscere efficacia vincolante nel processo tributario al giudicato penale assolutorio formatosi a seguito di giudizio dibattimentale, purché tale giudicato abbia ad oggetto gli stessi fatti materiali oggetto di valutazione nel processo tributario e purché l’assoluzione sia avvenuta in base ad una delle due formule sopra indicate; l’efficacia del giudicato attiene quindi agli “stessi fatti materiali”, dovendosi ritenere che, quando si discute di efficacia della sentenza penale nel giudizio tributario non ci si riferisce al giudicato penale in sé e per sé, ma all’accertamento dei fatti contenuti nella relativa decisione. E quindi, ciò che interessa non è il valore extra-penale del dispositivo della sentenza, ma il valore extra-penale degli accertamenti di fatto che, presenti i requisiti prescritti dell’art. 21-bis cit., “fanno stato” nel giudizio tributario. E dunque, per l’orientamento richiamato risulta centrale la valorizzazione dell’univocità dell’accertamento materiale del fatto.. Quanto osservato, in effetti, come è stato anche rilevato in dottrina, risponde all’obiettivo della riforma di attuare il principio di non contraddizione e di coerenza del sistema, innovando la struttura del c.d. doppio binario per armonizzarne la disciplina con i principi generali dell’ordinamento, con primario riferimento all’art. 53, comma 1 della Costituzione che impone, quale requisito strutturale dell’obbligazione tributaria, l’effettività e realità del presupposto impositivo. Ciò non solo, pertanto, nella prospettiva del rispetto del principio del ne bis in idem, ma, appunto, anche per l’esigenza di attuare il principio di non contraddizione e di coerenza del sistema, con recupero della omogeneità della verità processuale sul fatto e in ultima istanza, scongiurando l’eventualità che, per effetto di un doppio binario processuale, ciò che non esiste dal punto di vista fenomenico in ambito penale, possa invece esserlo in ambito tributario, ciò, almeno, quando l’accertamento penale sia stato esito del giudizio dibattimentale, dotato di caratteristiche strutturali e di standard probatori più elevati di quelli del processo tributario. Da quanto sinora osservato discende, quale necessario corollario, il superamento, con riguardo al processo tributario, delle limitazioni poste dall’art. 654 c.p.p., con riguardo ai differenti regimi probatori, alla estensione dell’efficacia, nei giudizi civili o amministrativi dall’accertamento degli stessi fatti materiali oggetto del giudizio penale. Le tesi formulate nelle ora richiamate pronunce di questa Corte troverebbero conforto nella ratio legis desumibile dai principi e criteri direttivi predicati dall’art. 20, comma 1, della legge delega n. 111 del 2023, che, pur sotto il “cappello” unitario della rubrica che recita “revisione del sistema sanzionatorio tributario, amministrativo e penale, con riferimento alle imposte sui redditi, all’IVA e agli altri tributi indiretti nonché ai tributi degli enti territoriali”, affida al Governo delegato due finalità distinte ed autonome: al comma 1, lett. a n. 1) quella di “razionalizzare il sistema sanzionatorio amministrativo e penale, anche attraverso una maggiore integrazione tra i diversi tipi di sanzione, ai fini del completo adeguamento al principio del ne bis in idem” e, al comma 1, lett. a, n. 3) quella di “rivedere i rapporti tra il processo penale e il processo tributario prevedendo, in coerenza con i principi generali dell’ordinamento, che, nei casi di sentenza irrevocabile di assoluzione perché il fatto non sussiste o l’imputato non lo ha commesso, i fatti materiali accertati in sede dibattimentale facciano stato nel processo tributario quanto all’accertamento dei fatti medesimi…”, sì che, se il primo criterio direttivo può ritenersi inteso alla regolazione coerente delle conseguenze sanzionatorie derivanti dalla necessaria separatezza dei giudizi, penale e tributario, e del procedimento amministrativo tributario, il secondo risulta, al contrario, diretto a regolare l’estensione al giudizio tributario del giudicato penale dibattimentale di assoluzione con formula di merito, nell’ipotesi di identità dei fatti materiali posti a fondamento della fattispecie criminosa e della ripresa fiscale. La volontà del legislatore, così delineata, troverebbe inoltre conferma nella Relazione illustrativa del decreto legislativo attuativo 14 giugno 2024, n. 87, ove, in particolare, si afferma che “l’obiettivo del citato articolo 20, comma 1, lettera a), numero 1), è quello di conseguire una maggiore integrazione tra sanzioni amministrative e penali, evitando forme di duplicazione non compatibili con il divieto di bis in idem”, laddove “l’articolo 20, comma 1, lettera a), numero 3) è finalizzato, invece, alla revisione dei rapporti tra processo penale e processo tributario”. Da ultimo, pur nei limiti della natura compilativa di tali strumenti normativi, non sarebbe priva di rilievo, ai fini di una ricognizione pur postuma della voluntas legis, la circostanza dell’avvenuta trasposizione, con efficacia del 1 gennaio 2026, dell’art. 21-bis D.Lgs. n. 74 del 2000 all’art. 119 del Testo Unico della giustizia tributaria (D.Lgs. n. 175 del 2024), mentre l’art. 21 del medesimo D.Lgs. n. 74 è stato inserito all’art. 98 del Testo Unico delle sanzioni tributarie amministrative e penali (D.Lgs. n. 173 del 2024), vigenti dal 1 gennaio 2026. La seconda tesi: l’art. 21-bis del D.Lgs. n. 74/2000 si riferisce esclusivamente al trattamento sanzionatorio e non riguarda l’imposta,ossia la decisione del giudice tributario sulla pretesa impositiva. Successivamente, a partire da Cass. n. 3800/2025 (conformi Cass. n. 4916/2025, Cass. n. 4921/2025, Cass. n. 4924/2025 e Cass. n. 4935/2025), è stato manifestato un difforme orientamento secondo il quale l’art. 21-bis del D.Lgs. n. 74 del 2000 si riferisce esclusivamente alle sanzioni tributarie e non all’accertamento dell’imposta, rispetto alla quale la sentenza penale assolutoria continuerebbe ad assumere rilievo come mero elemento di prova, oggetto di autonoma valutazione da parte del giudice tributario unitamente agli altri elementi di prova introdotti nel giudizio. La diversa tesi si fonda su una lettura della novella, e degli atti preparatori, intesa a coglierne esclusivamente la finalità di razionalizzazione del sistema sanzionatorio penale e tributario vigente, mediante la loro integrazione, nella prospettiva del rispetto del principio del ne bis in idem. L’introduzione dell’art. 21-bis cit., in un sistema ancora governato dal c.d. doppio binario, avrebbe pertanto la sola funzione di estendere anche alla fase di cognizione l’ambito di applicazione del principio di specialità tra disposizioni amministrative e penali, previsto dall’art. 19 del D.Lgs. n. 74/2000, il quale stabilisce che “Quando uno stesso fatto è punito da una delle disposizioni del titolo II e da una disposizione che prevede una sanzione amministrativa, si applica la disposizione speciale”. L’effetto della novella sarebbe, dunque, l’estensione al giudizio di cognizione – ed anche al giudizio di cassazione – della deducibilità della pronuncia penale di assoluzione per le formule ” il fatto non sussiste” e “l’imputato non lo ha commesso”, sì che la relativa valutazione non sarebbe più limitata alla sola fase riscossiva. E dunque l’esigenza tutelata dal legislatore – ma già presente nelle originarie previsioni ? sarebbe esclusivamente quella di trattare in termini unitari, per evitare criticità o incongruenze, gli esiti finali sanzionatori derivanti dalla necessaria separatezza dei giudizi, penale e tributario, e del procedimento amministrativo tributario.. Il rapporto di imposta che intercorre tra il contribuente e l’erario – incardinato tra dovere contributivo e capacità contributiva in funzione della giusta imposizione – secondo il richiamato orientamento, non partecipa pertanto, in quanto tale, al rapporto penale, che attiene, invece, all’aspetto sanzionatorio, per il quale si pone, differentemente, l’esigenza di una valutazione unitaria e contemperata del complessivo trattamento afflittivo. Le decisioni menzionate fanno, inoltre, riferimento al dato – di sistema – della introduzione, con la novella, anche dell’art. 21-ter D.Lgs. n. 74 del 2000 che ha regolato il – pur diverso – diverso versante del cumulo sanzionatorio nel caso di riconosciuta responsabilità, sì da evitare che il trattamento risulti eccessivamente gravoso, prevedendo che ” il giudice o l’autorità amministrativa, al momento della determinazione delle sanzioni di propria competenza e al fine di ridurne la relativa misura, tiene conto di quelle già irrogate con provvedimento o con sentenza assunti in via definitiva”. Ancora, sul piano strettamente letterale, viene posto in rilievo il dettato del comma 3 dell’art. 21- bis cit., che prevede: “3. Le disposizioni dei commi 1 e 2 si applicano, limitatamente alle ipotesi di sentenza di assoluzione perché il fatto non sussiste, anche nei confronti della persona fisica nell’interesse della quale ha agito il dipendente, il rappresentante legale o negoziale, ovvero nei confronti dell’ente e società, con o senza personalità giuridica, nell’interesse dei quali ha agito il rappresentante o l’amministratore anche di fatto, nonché nei confronti dei loro soci o associati”. A tale riguardo si afferma che l’utilizzo della congiunzione “anche”, riferita alla persona fisica o alla società, nonché ai soci o associati si spiegherebbe soltanto in chiave sanzionatoria, poiché l’accertamento del tributo è naturalmente riferito al soggetto passivo, che è l’imprenditore individuale o la società, non certo alla persona che abbia agito per loro, né ai soci e agli associati, che rispondono ad altro titolo. 1. Per completezza, giova comunque, a tale proposito, rilevare che, secondo la ricostruzione operata dall’opposto orientamento, gli effetti della sentenza penale irrevocabile di assoluzione nei termini di cui all’art. 21-bis cit. si riverberano non solo sul rapporto impositivo, ma sul conseguente trattamento sanzionatorio, e quindi ben potrebbe giustificarsi, in tale ottica, il dato letterale evidenziato. Infine, l’orientamento qui da ultimo richiamato sottolinea la neutralità del dato formale della avvenuta trasposizione dell’art. 21-bis D.Lgs. n. 74 del 2000 all’art. 119 del Testo Unico della giustizia tributaria (D.Lgs. n. 175 del 2024), e della differente trasposizione dell’art. 21 del medesimo D.Lgs. n. 74 all’art. 98 del Testo Unico delle sanzioni tributarie amministrative e penali (D.Lgs. n. 173 del 2024), vigenti dal 1 gennaio 2026.”

In attesa della decisione che assumeranno le Sezioni Unite in ossequio alla funzione nomofilattica ci sia consentita una ulteriore osservazione. Non può non riconoscersi che il principio del “doppio binario”, che tanti problemi ha creato fin dall’abrogazione della “pregiudiziale tributaria” ad opera del D.L. 429/1982, conv. in L. 516/1982, continua certamente ad esistere, ma ha subìto una serie di limitazioni volte a ridurne le contraddizioni fra procedimenti e all’armonizzazione dell’intera disciplina alla luce dei principi generali dell’ordinamento. Ciò è avvenuto -con un intervento sull’intero Titolo IV del D.lgs. 74/2000- ad opera della novella legislativa di cui al D.lgs. 87/2024, in attuazione della Legge delega 111/2023 il cui art. 20 esortava il Legislatore delegato non solo ad “…una maggiore integrazione fra i diversi tipi di sanzione….”, ma soprattutto a “….rivedere i rapporti tra processo penale e processo tributario…..”.

Ed è proprio in questa prospettiva che l’art. 21 bis D.lgs. 74/2000 prevede al primo comma che “La sentenza irrevocabile di assoluzione perché il fatto non sussiste o l’imputato non lo ha commesso, pronunciata in seguito a dibattimento nei confronti del medesimo soggetto e sugli stessi fatti materiali oggetto di valutazione nel processo tributario, ha, in questo, efficacia di giudicato, in ogni stato e grado, quanto ai fatti medesimi”.

Sulla base della lettera della norma, il punto  centrale riguarda l’accertamento dei fatti materiali, che devono essere gli stessi in entrambi i procedimenti e la cui inesistenza, se accertata dal Giudice Penale con sentenza dibattimentale definitiva, riveste efficacia di giudicato nei confronti del Giudice Tributario. Infatti, come ben affermato in un’altra sentenza del Supremo Collegio (Cass. 30814/2024, poi ripresa da Cass. 936/2025), “…quando si discute di efficacia della sentenza penale nel giudizio tributario non ci si riferisce al giudicato penale in sé per sé, ma all’accertamento dei fatti contenuti nella relativa decisione. E quindi, ciò che interessa non è il valore extrapenale del dispositivo della sentenza, ma il valore extrapenale degli accertamenti dei fatti”. Ebbene, sostenere che la verità processuale sul fatto accertata dal Giudice penale (ad es. l’effettività di un’operazione descritta nella fattura oggetto dell’imputazione o la provata estraneità del soggetto incolpevole nella “frode carosello”) non sia più tale in sede tributaria, o meglio sia tale, ma soltanto ai fini sanzionatori e non valga (automaticamente) ai fini dell’unitarietà dell’accertamento d’imposta costituirebbe, questo sì, un’interpretazione illogica, irragionevole e lesiva dei principi sanciti dagli artt. 3, 24, 53, 111 Cost. Il nuovo articolo 21 bis, D.Lgs. 74/2000, stabilisce che la sentenza irrevocabile di assoluzione, perché il fatto non sussiste o l’imputato non lo ha commesso, ha efficacia di giudicato nel giudizio tributario. La valenza della pronuncia penale in sede tributaria è subordinata naturalmente alla identicità dei fatti oggetto di entrambi di giudizi. In altri termini, le circostanze di fatto poste a fondamento del capo di imputazione devono essere le medesime rispetto alla contestazione emessa dall’Amministrazione finanziaria. Diversamente, in caso di divergenza delle risultanze fattuali, nessuna efficacia di giudicato può attribuirsi alla sentenza penale irrevocabile di assoluzione nel rito tributario. In presenza alla identicità dei fatti oggetto di accertamento nei due giudizi, penale e tributario, e in presenza di una sentenza assolutoria penale passata in giudicato, non v’è dubbio che detta statuizione favorevole deve spiegare efficacia vincolante nel procedimento tributario sia per le imposte che per le sanzioni, assicurando così il principio generale di certezza del diritto.


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