
Disabilità e licenziamento per comporto: la sentenza CGUE C-5/24 tra diritto dell’Unione e ordinamento interno
Abstract. La sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea dell’11 settembre 2025, causa C-5/24, offre un’occasione paradigmatica per analizzare il bilanciamento tra disciplina nazionale sul licenziamento per comporto e obblighi antidiscriminatori derivanti dal diritto dell’Unione. Il contributo ricostruisce l’evoluzione della nozione di handicap nella giurisprudenza europea, il ruolo del rinvio pregiudiziale ex art. 267 TFUE e la funzione del giudice nazionale quale garante dell’equità sostanziale. Viene esaminata la compatibilità tra la normativa italiana e la Direttiva 2000/78/CE, con particolare attenzione all’obbligo di adottare accomodamenti ragionevoli. Il contributo approfondisce inoltre il rango della CEDU nell’ordinamento interno e propone una lettura sistemica della sentenza come modello operativo di integrazione tra ordinamenti, volto a tutelare la dignità e la permanenza del lavoratore disabile nel contesto professionale.
Sommario: 1. Premessa. Il licenziamento per comporto nel prisma del diritto dell’Unione – 2. La nozione di handicap nella giurisprudenza europea – 3. Il rapporto tra diritto dell’Unione e ordinamento interno – 4. Il comporto tra neutralità normativa e discriminazione indiretta – 5. L’obbligo degli accomodamenti ragionevoli – 6. Il ruolo del giudice nazionale – 7. CEDU e sistema delle fonti – 8. Prospettive applicative e riflessioni conclusive
1. Premessa. Il licenziamento per comporto nel prisma del diritto dell’Unione
Il dialogo tra ordinamento nazionale e diritto dell’Unione europea ha conosciuto, specie nel settore del diritto del lavoro, una progressiva intensificazione, sino a divenire terreno privilegiato di emersione dei diritti fondamentali. In tale cornice si colloca la sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione europea dell’11 settembre 2025, causa C-5/24, che offre un’occasione paradigmatica per riflettere sul bilanciamento tra disciplina interna del licenziamento per superamento del periodo di comporto e obblighi antidiscriminatori di matrice eurounitaria.
Il rinvio pregiudiziale proposto dal Tribunale di Ravenna ha sollecitato la Corte a chiarire se l’applicazione automatica di una regola contrattuale, apparentemente neutra, possa tradursi in una discriminazione indiretta ai danni del lavoratore disabile, in assenza di accomodamenti ragionevoli. Ne emerge una decisione che, più che sovvertire assetti normativi consolidati, invita a rileggerli con uno sguardo sostanziale, attento alla concreta posizione di vulnerabilità del lavoratore.
2. La nozione di handicap nella giurisprudenza europea
La nozione di “handicap” elaborata dalla Corte di Giustizia ha progressivamente abbandonato ogni rigidità formale, per assumere una dimensione funzionale. A partire dalle note pronunce HK Danmark e Ruiz Conejero, il concetto si estende a tutte le menomazioni fisiche, mentali o psichiche di lunga durata che ostacolino, in modo significativo, la piena partecipazione del soggetto alla vita professionale su base di uguaglianza.
La tutela antidiscriminatoria non è dunque subordinata a un riconoscimento amministrativo della disabilità, ma si fonda sulla realtà fattuale della condizione del lavoratore. In tal senso, il diritto dell’Unione mostra una certa allergia al formalismo, preferendo la concretezza dell’effetto alla rigidità della qualificazione.
3. Il rapporto tra diritto dell’Unione e ordinamento interno
Sul piano interno, l’evoluzione dei rapporti tra diritto europeo e ordinamento italiano è ben nota. Dopo una fase iniziale di sostanziale equiparazione alle leggi ordinarie, la giurisprudenza costituzionale ha progressivamente riconosciuto il primato del diritto comunitario, sino alla svolta rappresentata dalla sentenza Granital. La successiva elaborazione della teoria dei controlimiti, riaffermata anche in tempi recenti, ha tuttavia preservato uno spazio di resistenza dei principi supremi dell’ordinamento costituzionale.
La sentenza C-5/24 si inserisce armonicamente in tale quadro, senza forzature: non impone una disapplicazione automatica della normativa nazionale, ma affida al giudice interno il compito di verificarne la compatibilità sostanziale con i principi antidiscriminatori europei.
4. Il comporto tra neutralità normativa e discriminazione indiretta
La disciplina italiana del comporto, di cui all’art. 2110 c.c. e alle previsioni della contrattazione collettiva, risponde a un’esigenza di equilibrio tra tutela del lavoratore e organizzazione dell’impresa. Tuttavia, come rilevato dalla Corte, una regola uniforme può produrre effetti diseguali quando incide su soggetti che versano in condizioni strutturalmente diverse.
In questa prospettiva, il superamento del periodo di comporto da parte di un lavoratore affetto da disabilità può integrare una discriminazione indiretta, ove il datore non abbia previamente valutato l’adozione di accomodamenti ragionevoli. L’uguaglianza, qui, non si realizza trattando tutti allo stesso modo, ma riconoscendo ciò che rende ciascuno diverso.
5. L’obbligo degli accomodamenti ragionevoli
Il fulcro della pronuncia risiede nell’art. 5 della Direttiva 2000/78/CE, che impone ai datori di lavoro l’adozione di misure idonee a consentire al lavoratore disabile di accedere, svolgere o conservare un impiego. Tali misure non hanno natura benevola né discrezionale: esse costituiscono un vero e proprio obbligo giuridico, temperato solo dal limite dell’onere sproporzionato.
Spetta al giudice nazionale valutare, caso per caso, se soluzioni alternative al licenziamento – dalla rimodulazione dell’orario alla diversa organizzazione delle mansioni – fossero concretamente praticabili. Un esercizio che richiede equilibrio, competenza e, talvolta, una buona dose di realismo.
6. Il ruolo del giudice nazionale
La sentenza valorizza in modo significativo la funzione del giudice interno quale garante dell’equità sostanziale. Non un mero esecutore di regole, ma un interprete chiamato a leggere la norma alla luce della persona che ne subisce gli effetti. In questo senso, il rinvio pregiudiziale ex art. 267 TFUE si conferma strumento di cooperazione e non di subordinazione, consentendo un dialogo virtuoso tra ordinamenti.
7. CEDU e sistema delle fonti
La decisione offre altresì l’occasione per ribadire il rango della CEDU nell’ordinamento interno. Pur rappresentando un parametro interpretativo di primaria importanza, la Convenzione non gode di efficacia diretta paragonabile a quella del diritto dell’Unione. Il giudice nazionale resta pertanto vincolato al percorso dell’interpretazione conforme e, in caso di insanabile contrasto, al coinvolgimento della Corte costituzionale.
8. Prospettive applicative e riflessioni conclusive
La sentenza C-5/24 si presenta come un modello operativo di integrazione tra ordinamenti, capace di coniugare efficienza organizzativa e tutela della dignità del lavoratore. Essa ricorda, con sobria fermezza, che la neutralità formale non equivale all’equità sostanziale e che il diritto del lavoro, se vuole restare fedele alla propria funzione storica, deve saper intercettare le fragilità senza trasformarle in cause di espulsione.
La sfida futura sarà quella di tradurre tali principi in prassi applicative coerenti, evitando sia derive paternalistiche sia irrigidimenti difensivi. In questo equilibrio dinamico si gioca, probabilmente, una parte rilevante del diritto del lavoro europeo dei prossimi anni: un diritto chiamato non solo a regolare rapporti, ma a custodire persone.
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Aldo Andrea Presutto
Avvocato & DPO
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