Omicidio preterintenzionale: addio alla responsabilità oggettiva?
Sommario: Premessa – 1. Una travagliata evoluzione giurisprudenziale: dalla nuda “causalità” alla fictio del c.d. “dolo di risultato” – 2. Le recenti epifanie giurisprudenziali della “colpa in concreto” – 3. De lege ferenda: la possibile insufficienza di un’esegesi correttiva – 4. Conclusioni: verso il definitivo tramonto della responsabilità oggettiva?
Premessa
La fattispecie incriminatrice dell’omicidio preterintenzionale, normativamente scolpita all’art. 584 c.p., costituisce, da sempre, un epicentro dogmatico in cui si manifestano, con acuta intensità, le irrisolte antinomie del sistema penale contemporaneo, perpetuamente oscillante tra la seduzione di arcaici modelli di imputazione oggettiva e l’imperativo categorico, di matrice costituzionale (art. 27 Cost.), della responsabilità per fatto proprio colpevole.
L’analisi della sua struttura normativa e, con ancor maggior pregnanza, della sua diacronica e sovente contraddittoria esegesi giurisprudenziale, disvela una persistente area di refrattarietà all’integrale introiezione del principio nulla poena sine culpa, nella quale residuano, e prosperano – non di rado sotto l’egida di sofisticate costruzioni semantiche – logiche punitive passivamente improntate al “monstrum” del versari in re illicita.
Il presente contributo si propone, dunque, in termini rigorosamente critici, di mettere in discussione l’attuale configurazione dogmatica e applicativa dell’art. 584 c.p., nella chiara prospettiva di evidenziarne l’ormai manifesta inadeguatezza sotto il profilo della coerenza sistematica e, ancor più, della sua compatibilità con i principi fondamentali che sorreggono l’impianto costituzionale della responsabilità penale.
1. Una travagliata evoluzione giurisprudenziale: dalla nuda “causalità” alla fictio del c.d. “dolo di risultato“
Il frastagliato itinerario ermeneutico della giurisprudenza in materia di elemento soggettivo dell’omicidio preterintenzionale è costellato da tappe che, seppur diversificate nella loro veste formale, paiono accomunate da una costante insormontabile: la sostanziale disapplicazione del principio di colpevolezza rispetto all’evento morte non voluto.
Più dettagliatamente, in una prima fase, immediatamente successiva all’entrata in vigore del Codice Rocco, il criterio di imputazione dell’evento letale veniva sostanzialmente ricondotto – in termini pressoché esclusivi e, per ciò, altamente problematici – alla mera sussistenza del nesso di causalità materiale con la condotta base dolosa (percosse o lesioni), in ossequio, dunque, alla immanente razionalità “positivista” sottesa al genetico impianto codicistico del 1930, imperniato sull’adesione al principio del versari in re illicita quale “in-naturale” catalizzatore di tutte le ulteriori conseguenze della condotta illecita.
L’entrata in vigore della Costituzione repubblicana e, in particolare, la progressiva opera di sedimentazione del principio di colpevolezza quale baluardo di ogni forma di responsabilità penale[1], ha comportato, nondimeno, un effetto dirompente, sollecitando la giurisprudenza successiva a intraprendere un progressivo percorso – benché spesso timido e concettualmente irrisolto – di revisione ermeneutica, orientato a una maggiore conformazione del fatto tipico ai canoni costituzionali del diritto penale di matrice personale e colpevole.
Si assistette, così, al tentativo di ammantare la persistente responsabilità oggettiva con il velo della colpa, declinata, tuttavia, nei termini di “colpa specifica per inosservanza di leggi“: un’imputazione colposa edificata in re ipsa, ovvero, insita nella stessa inosservanza della legge penale, o del più generale precetto del neminem laedere.
Una simile impostazione concettuale, tuttavia, benché positivamente recepita dalla più accorta dottrina dell’epoca (Leone) disvelò, in breve tempo, tutta la sua reale “fragile” consistenza: una costruzione meramente presuntiva, priva, cioè, di autentico spessore epistemico, nella quale l’imputazione dell’exitus non voluto continuava ad essere annessa alla sfera di dominio del soggetto agente secondo rigidi meccanismi presuntivi, in evidente frizione, dunque, con i postulati fondamentali della colpevolezza nel senso costituzionalmente imposto.
L’approdo interpretativo attualmente dominante, affermatosi in modo pressoché stabile a partire dagli anni Duemila, è rinvenibile, invece, nella teoria del c.d. dolo di risultato o dell’assorbimento, alla cui stregua l’elemento soggettivo normativamente richiesto dall’art. 584 c.p. non sarebbe “costituito da dolo e responsabilità oggettiva né dal dolo misto a colpa ma unicamente dal dolo di percosse o lesioni, che è sufficiente a supportare soggettivamente il reato in argomento, essendo la valutazione relativa alla prevedibilità dell’evento, da cui dipende l’esistenza di tale delitto, insita nella stessa previsione normativa che lo contempla, che reputa assolutamente probabile che da una azione violenta contro una persona possa derivare la morte della stessa (v. ex multis, Cass. Pen. Sez. V, n. 791 del 18/10/2012, Palazzolo, Rv. 254386 – 01).
Tale sofisticata costruzione dogmatica, pur formalmente ponendosi al di fuori del guado della responsabilità oggettiva, ne costituisce, in realtà, una raffinata perpetuazione, in quanto fondata – evidentemente – su una praesumptio iuris et de iure empiricamente smentita dalla comune esperienza circa l’esito ordinario di condotte contrassegnate da un margine di potenzialità lesiva significativamente esiguo.
Ancor più intollerabile, sotto il profilo sistematico e costituzionale, si rivela l’orientamento ermeneutico testé delineato, soprattutto se raffrontato con la differente opzione interpretativa accolta dalla giurisprudenza di legittimità in relazione alla distinta – ma ontologicamente contigua – fattispecie delittuosa di cui all’art. 586 c.p..
Basti, sul punto, rievocare l’assunto esegetico solcato delle Sezioni Unite “Ronci” del 2009 – mai smentito dalla successiva elaborazione giurisprudenziale – in base al quale “in tema di morte o lesioni come conseguenza di altro delitto, la morte dell’assuntore di sostanza stupefacente è imputabile alla responsabilità del cedente sempre che, oltre al nesso di causalità materiale, sussista la colpa in concreto per violazione di una regola precauzionale (diversa dalla norma che incrimina la condotta di cessione) e con prevedibilità ed evitabilità dell’evento, da valutarsi alla stregua dell’agente modello razionale, tenuto conto delle circostanze del caso concreto conosciute o conoscibili dall’agente reale (v. Cass. Pen. Sez. U. n, 22676 del 22.01.2009, Ronci; Sez. VI, n. 49573 del 19/09/2018, Rv. 274277).
2. Le recenti epifanie giurisprudenziali della “colpa in concreto”
La necessità di ricondurre la fattispecie delittuosa in disamina entro coordinate compatibili con il principio di legalità costituzionale impone, in termini oramai ineludibili, un definitivo ripudio di ogni schema ricostruttivo che affidi l’imputazione dell’evento morte a modelli privi di un autentico coefficiente soggettivo di colpevolezza.
Si ritiene, in particolare, che il paradigma interpretativo maggiormente coerente con le esigenze di personalità della responsabilità penale – implicitamente imposta dal tenore dell’art. 27, co. 1 Cost. – debba essere ricercato in una struttura sub-obiettiva composita, imperniata, cioè, su un dolo (tendenzialmente diretto, se non addirittura intenzionale) relativo alla condotta lesiva, opportunamente abbinato a una colpa effettiva e concretamente accertata in relazione all’esito letale non voluto.
Tale approccio, da tempo auspicato dalla dottrina maggioritaria, e reso cogente dai molteplici arresti costituzionali in subiecta materia, trova conferma e vigore in alcune recentissime pronunce della Suprema Corte regolatrice.
Emblematica, a questo proposito, risulta essere la pronuncia resa dalla Quinta Sezione, n. 10865 del 18 marzo 2025 (ud. 14 febbraio 2025).
In tale occasione, il Supremo Collegio, apertamente discostandosi da qualsivoglia perpetuazione stereotipica, ha ribadito con fermezza – citando a supporto una serie altrettanto recente di propri precedenti conformi[2] – che “l’elemento psicologico del delitto di omicidio preterintenzionale è una combinazione di dolo, per il reato di percosse o di lesioni, e di prevedibilità in concreto per l’evento mortale“.
Siffatta impostazione euristica – continua la Corte – sarebbe “imposta[…] dal rispetto del principio di colpevolezza, come delineato dal Giudice delle leggi“, il quale, com’è noto, implica l’esistenza irrefutabile di un “coefficiente di partecipazione psichica“ del soggetto al fatto, in relazione agli elementi più significativi della fattispecie.
Affinché una simile esigenza possa dirsi compiutamente soddisfatta, risulta indispensabile, tuttavia, dimostrare – alla stregua della regola di giudizio normativamente imposta dall’art. 533 del Codice di rito – “che l’autore della condotta atta ad incidere sull’incolumità del soggetto passivo sia stato nelle condizioni di rendersi conto, avuto riguardo alle circostanze del caso concreto, del prevedibile sviluppo causale del proprio agire, foriero di conseguenze ulteriori rispetto a quelle avute di mira“.
Appare, dunque, evidente come l’approdo interpretativo delineato dai Giudici di legittimità postuli, in capo all’interprete, l’obbligo di ricondurre la tipicità del fatto delittuoso entro l’alveo di un giudizio prognostico edificato ex post, effettivo e individualizzato, intimamente aderente alla concreta dinamica dell’accaduto.
Ne consegue, altresì, quale logico corollario, l’esclusione radicale di qualsivoglia ricorso a presunzioni generalizzanti o automatismi inferenziali, a favore di una valorizzazione della dimensione soggettiva del rimprovero, in piena conformità al crisma di una responsabilità realmente “colpevole”.
3. De lege ferenda: la possibile insufficienza di un’esegesi correttiva
Per quanto gli sviluppi della giurisprudenza di legittimità verso un’interpretazione costituzionalmente conforme dell’art. 584 c.p. rappresentino un segnale di indiscutibile progresso e di accresciuta sensibilità garantistica, la persistenza di orientamenti difformi nelle sedi di merito – ma anche, e soprattutto, nella stessa Corte di legittimità – suggeriscono l’inadeguatezza di un affidamento esclusivo all’opera, pur preziosa, dell’ermeneutica correttiva.
Una piena e definitiva armonizzazione dell’omicidio preterintenzionale con i principi che regolano l’attuale sistema ordinamentale risulterebbe appieno perseguibile – almeno ad avviso di chi scrive – soltanto attraverso un capillare intervento legislativo, volto ad epurare la fattispecie dai suoi profili più critici.
Un’opera di riassetto normativo che dovrebbe, in primo luogo, positivizzare – una volta per tutte – il requisito della colpa (nella forma della prevedibilità in concreto) quale criterio di imputazione dell’esito letale, superando così ogni residua incertezza interpretativa.
Auspicabile, altresì, sarebbe una rigorosa ridefinizione della condotta dolosa di base, circoscrivendola ai soli atti intenzionalmente diretti a cagionare lesioni personali e dotati di un apprezzabile margine di idoneità offensiva, tale da rendere plausibile, in astratto, una progressione verso esiti più gravi.
Infine, ma con pari urgenza, si impone una profonda revisione della risposta sanzionatoria, attualmente caratterizzata, invero, da una un’irragionevole severità, sia in una prospettiva di coerenza interna al sistema (si pensi al trattamento previsto per l’art. 586 C.p.), sia rispetto al minor grado di colpevolezza che connota la preterintenzione rispetto all’omicidio volontario.
4. Conclusioni: verso il definitivo tramonto della responsabilità oggettiva?
La fattispecie di omicidio preterintenzionale, per come delineata all’interno dell’ attuale impianto codicistico e nella prassi giurisprudenziale ancora oggi – purtroppo – dominante, rappresenta il riflesso di un modello penalistico oramai superato, appesantito da automatismi presuntivi e da categorie ormai difficilmente conciliabili con i principi fondanti della nostra architettura costituzionale.
Un diritto penale che possa realmente fregiarsi dell’attributo della tanto ambita “modernità” non può, tuttavia, prescindere da un accertamento autentico della colpevolezza, costruito in concreto, personalizzato, fondato sulla capacità dell’agente di realmente prevedere e scongiurare la verificazione di eventi lesivi.
In tale prospettiva, com’è facilmente intuibile, tanto alla riflessione scientifica, quanto al Legislatore spetterà l’arduo onere – non privo di complessità ma ormai ineludibile – di promuovere una profonda revisione organica della disciplina, tale da restituire al diritto punitivo, al di là di pure apparenze formali, la sua primaria funzione di presidio della persona e di strumento di equità sostanziale.
[1] Significative, in tal senso, risultano le pronunce nn. 364 e 1085 del 1988, Corte Cost.
[2] cfr. Cass. Sez. V, n. 43093 del 16/10/2024; Sez. V, n. 34342 del 05/07/2024; Sez. V, n. 23926 del 02/05/2024
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Gabriele Ferro
Laureato in giurisprudenza presso l'Università degli Studi di Siena, attualmente praticante avvocato, con predilezione per il settore del diritto penale sostanziale e processuale.
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