Brevi considerazioni de jure condendo sulla normativa giuslavoristica successiva alla pandemia

Brevi considerazioni de jure condendo sulla normativa giuslavoristica successiva alla pandemia

Come ampiamente noto, la diffusione epidemica (ben presto rivelatasi pandemica) del c.d. ‘coronavirus’, iniziata (almeno per quanto è dato sapere) in territorio italiano, se ci si attiene ai dati ufficiali, nel mese di febbraio del 2020, si è riflessa in modo disomogeneo nei vari rami che compongono il grande albero della scientia iuris, di talché essenzialmente l’intero ordinamento si può concettualmente dividere, relativamente ai riverberi, in tre macro categorie: la prima è costituita dai settori del diritto totalmente (o quasi totalmente) non interessati dalla diffusione pandemica, tra cui si potrebbe citare in larga parte l’ambito del diritto penale (a maggior ragione considerando che in larga parte la violazione delle normative restrittive delle libertà personali è stata presidiata, per ragioni che non è il caso di discorrere in questa sede, da sanzioni amministrative e non penali) e la relativa procedura; la seconda è costituita da settori che non hanno subìto particolari stravolgimenti, ma aggiustamenti contingenti, magari solo a livello interpretativo, come nel caso del diritto civile[1], ma senza che vi sia stata alcuna rivoluzione copernicana, alcuno stravolgimento del corpus normativo che, almeno per quanto riguarda la disciplina generale del contratto, resiste senza particolari variazioni sin dalla redazione, risalente al 1942, del Codice Civile;  altri ambiti giuridici, infine, hanno subìto un autentico terremoto: fra questi, oltre al diritto tributario, che evidentemente ha dovuto far fronte all’improvviso, drastico calo di disponibilità finanziarie (soprattutto degli esercenti attività d’impresa), un ruolo principe in questo panorama è certamente ricoperto dal diritto del lavoro.

Tale disciplina, come noto, nasce con l’espressa finalità di tutelare la ‘parte debole’ del contratto di lavoro, evitando che i mezzi di giustizia privata applicabili dal datore di lavoro possano sfociare in un arbitrio pregiudizievole per il prestatore di lavoro subordinato; le ramificazioni di tale disciplina, finalisticamente preordinate a quanto sopra espresso, prevedono dunque un’ampia gamma di prescrizioni, che variano dalla procedimentalizzazione dell’iter disciplinare (e delle conseguenti sanzioni adottate) alla previsione di minimi contrattuali inderogabili in peius, arrivando alla disposizione contenuta nell’art. 2087 cod. civ. in funzione del quale il datore di lavoro deve tutelare l’integrità fisica e la personalità morale del prestatore di lavoro.

Come era inevitabile che fosse, stante sia la delicatezza degli interessi in gioco (pertinenti ad ambiti di fondamentale importanza, e che in questa particolare fase storica si sono trovati in qualche modo contrapposti, quali sono il diritto alla salute e il diritto a una retribuzione sufficiente e dignitosa, entrambi costituzionalmente tutelati), tale ambito è stato fatto oggetto di ripetuti e massivi interventi; occorre però sottolineare sin da subito come detti interventi siano stati connotati non già da una visione prospettica d’insieme, bensì da un insieme più o meno disorganico di “toppe” finalizzate a tamponare la situazione emergenziale; come è già stato riscontrato, peraltro, la legislazione approntata ha avuto il “peccato originale”, mai rettificato, di poggiare sulla precedente produzione normativa (in particolar modo in tema di ammortizzatori sociali), creando una serie di inconvenienti burocratici che hanno reso più difficoltosa l’erogazione delle somme ai lavoratori dipendenti; principale ragione di tali inconvenienti è sicuramente costituita dalla eccessiva parcellizzazione degli ammortizzatori sociali disponibili, ognuno con le proprie regole e procedure (diversa validità dell’accordo sindacale; differenti modalità di rendicontazione delle assenze; possibilità o meno per il datore di lavoro di anticipare le somme ai lavoratori subordinati), che, unitamente alle difficoltà interpretative causate da provvedimenti spesso scritti in modo raffazzonato, e ai tempi ristretti per effettuare le varie procedure (con peraltro la previsione di significative sanzioni in ipotesi di mancato rispetto dei termini), hanno reso caotica la gestione degli ammortizzatori sociali e creato notevoli ritardi e sperequazioni[2]. Sulla necessità di riunificare le procedure di ammortizzazione sociale e sull’esigenza di semplificare l’accesso ai relativi trattamenti si sono già scritti fiumi di parole, prevalentemente da parte degli operatori sul campo (id est: i consulenti del lavoro, per tramite delle loro fondazioni studi), ma a tutt’ora tali istanze non sono ancora state recepite dal nuovo esecutivo nel primo Decreto Legge (D.L. n. 41/2020, c.d. “Decreto Sostegni”), che ha sostanzialmente confermato, per quel che attiene ai trattamenti di cassa integrazione, la precedente impostazione con tutti i difetti cui si è brevemente accennato.

Purtuttavia, la copiosa legislazione in tema di ammortizzatori sociali in costanza di rapporto di lavoro (e non solo, considerato l’elevato numero di proroghe concesse ai percettori di ammortizzatori in assenza di rapporto di lavoro, quali NASPI e reddito di cittadinanza) non esaurisce di per sé l’ampia platea di novità che hanno caratterizzato l’ambito giuslavoristico, concretizzatesi, come noto, in altre previsioni fondamentali quali la capillare diffusione (con contestuale semplificazione procedurale) dello smart working; il blocco dei licenziamenti per motivi economici; la deroga alla normativa in tema di contratti a tempo determinato.

In questo breve contributo ci si propone di analizzare sinteticamente quante e quali delle novità normative introdotte nell’ambito del diritto del lavoro sono vincolate a doppio filo allo stato emergenziale, e quante invece saranno suscettibili di permanere nell’ordinamento anche una volta raggiunta l’auspicabile stabilizzazione della situazione pandemica.

Iniziando l’analisi dalla già menzionata tematica degli ammortizzatori sociali, atteso l’evidente carattere emergenziale della normativa approntata, che prevede il superamento dell’accordo sindacale come inteso nella precedente legislazione sul tema, oltre all’assenza (tranne che in una delle varie tranches degli ammortizzatori sociali concessi) del pagamento del contributo addizionale, a parere di chi scrive non c’è dubbio alcuno che, una volta cessate le ragioni dell’emergenza, nonché le necessità di approntare delle chiusure coattive con conseguente impossibilità per i lavoratori di eseguire la prestazione oggetto del loro contratto, anche le suddette previsioni e procedure verranno meno; resta tuttavia auspicabile che la conflittuale esperienza con tale sistema, i problemi causati dalla sua granularità, le incognite sulla disparità di trattamento rispetto alle varie categorie di lavoratori (si pensi ai requisiti di accesso al Fondo Bilaterale dell’Artigianato; alle complicazioni dovute al riparto delle competenze tra INPS e Regioni per fruire del trattamento di cassa integrazione in deroga nei primi mesi di pandemia) possano fungere da insegnamento per il futuro: a parere di chi scrive ormai si è andati troppo in là, e cambiare l’impalcatura normativa degli ammortizzatori sociali dopo più di un anno di emergenza appare proibitivo; si auspica però che, a problematica superata, si provveda ad una riforma complessiva dello strumento che porti nella direzione dell’unificazione e dell’omogeneizzazione dei (fin troppo) numerosi strumenti disponibili, con il vincolo teleologico del raggiungimento di processi maggiormente spediti e di un’erogazione più puntuale degli importi dovuti a soggetti che, nella stragrande maggioranza dei casi, non hanno redditi ulteriori rispetto a quelli da lavoro dipendente.

Secondo, ma non meno importante profilo, è quello relativo al blocco dei licenziamenti per motivi economici: come noto, tale divieto vige ininterrottamente, con misura senza precedenti sia nel nostro ordinamento, sia nella grande maggioranza degli ordinamenti internazionali, dal 23 febbraio 2020; com’era inevitabile, nemmeno una previsione così rigida e dirompente è riuscita nel (lodevole, considerando il fine ultimo perseguito, cioè quello della salvaguardia occupazionale “whatever it takes”) suo intento di “congelare” il mercato del lavoro, bloccandone legislativamente le fuoriuscite, attirando anche alcune critiche per la presunta violazione del principio programmatico contenuto nell’art. 41 Cost., atteso che palesemente l’applicazione di siffatto divieto comporta una sorta di paralisi dell’attività organizzativa dell’imprenditore, in particolar modo a fronte di un contesto macroeconomico così significativamente mutato.

Si rileva, infatti, che a fronte del rigido e inderogabile divieto di licenziamenti per motivi economici, un certo calo del volume occupazionale (nell’ordine delle centinaia di migliaia di posti di lavoro) è stato comunque registrato, sia per la scadenza di numerosi contratti a tempo determinato (su cui si dirà ulteriormente infra), sia per la presenza di vari licenziamenti disciplinari, alcuni dei quali assolutamente autentici (non potendo naturalmente la legge prevenire, neanche in tempo di pandemia, la possibilità di effettuare procedure disciplinari e, nell’eventuale genuina sussistenza dei requisiti previsti e del rispetto del principio di proporzionalità,  anche di procedere al licenziamento disciplinare in ipotesi di commissione da parte del prestatore di lavoro di un comportamento idoneo a ledere irreparabilmente il vincolo fiduciario che lo lega al datore di lavoro), altri invece sottesi ad un accordo inter partes con il quale di fatto l’intero iter disciplinare viene simulato, e, previa negoziazione di una buonuscita (e previo l’inevitabile pagamento da parte del datore di lavoro del c.d. ticket di licenziamento, su cui peraltro, in casi del genere, la giurisprudenza più recente si è mostrata, a parere di chi scrive in modo condivisibile, assai scettica[3]) compatibile con le possibilità economiche del datore di lavoro che procede al licenziamento (concordato), si accordano per l’espulsione dall’organizzazione aziendale, sostituendo tutte le incognite relative al buon fine delle varie procedure di cassa integrazione con la certezza, per il lavoratore, della percezione della NASPI.

È evidente che questa stortura dovrà in qualche modo essere governata dal legislatore (ovvero dall’esecutivo da esso delegato, come sempre più frequentemente avviene), almeno fintantoché il blocco dei licenziamenti resterà in vigore; e appare altresì evidente come il dipanamento di questa matassa  sia legato a doppio filo al miglioramento delle procedure degli ammortizzatori sociali, che renderebbero (per quanto paradossale possa apparire un’affermazione del genere) meno “attrattiva” la prospettiva della disoccupazione rispetto a quella della sospensione del rapporto di lavoro per “factum principiis”; naturalmente siffatta auspicabile correzione non sarà sufficiente a prevenire la totalità dei “licenziamenti concordati” (da tenere ben distinti dalla risoluzione consensuale, che per sua stessa natura non comporta una perdita involontaria dell’occupazione e pertanto non costituisce valido titolo per la percezione della NASPI, che frequentemente costituisce l’ago della bilancia nella dinamica negoziale tra datore di lavoro e lavoratore), permanendo comunque delle situazioni di logorio reciproco che l’ingessatura ex lege del mercato del lavoro non può certamente contenere in toto.

Per tirare le fila del nostro discorso, appare fin troppo banale concludere che, tra le varie novità legislative conseguenti all’emergenza epidemiologica, quella relativa al divieto dei licenziamenti ha certamente una natura transeunte, e, benché il termine finale della stessa sia stato continuamente prorogato, allontanandosi progressivamente dalla disponibilità del datore di lavoro che intendesse procedere al recesso un po’ come avviene nella metafora della tartaruga e Achille del filosofo greco Zenone; e tuttavia, per quante proroghe potranno stratificarsi sopra a quelle già varate, sembra inevitabile, in un sistema che oltre alla componente ideologica socialdemocratica e improntata al welfare rispetta in qualche modo i principi liberali, il ripristino, a emergenza cessata, della possibilità per le imprese di recedere dai rapporti di lavoro per giustificato motivo oggettivo, seguendo i criteri e le regole stabilite originariamente dall’art. 3 della legge n. 604/66.

Terza tematica che ha subito notevoli modifiche è, come anticipato, quella dei contratti a termine: come noto, nel 2018 la materia era stata fatta oggetto di una significativa riforma, finalizzata principalmente a circoscrivere quanto più possibile il ricorso a tale strumento, interpretato secondo la visione del legislatore “pro tempore” come fonte di precarietà per i lavoratori, e non, almeno secondo il profilo assiologico del predetto legislatore, come uno strumento di flessibilità per le imprese; pur nella sussistenza del precedente organo legislativo (e conseguentemente della sua scala valoriale), il dirompente impatto pandemico ha comportato un – forse inevitabile – annacquamento delle prescrizioni restrittive contenute nel c.d. “Decreto Dignità”, con particolare riguardo al già assai discusso profilo della necessità della causale per la stipulazione di un contratto a tempo determinato avente durata superiore all’anno.

Tale profilo era stato già criticato – e ciò sia detto al di fuori di ogni cornice ideologica – dalla dottrina e dagli operatori sin dal momento della entrata in vigore del Decreto, atteso che la previsione della causale, già a più riprese inserita ed espunta dall’ordinamento in funzione delle priorità dei vari legislatori succedutisi nel tempo, si è rivelata spesso foriera, nella pratica, di contenziosi ed incomprensioni, risultando frequentemente difficile specificare ex ante e con l’elevato grado di specificità richiesto dalle norme la ragione di carattere tecnico – organizzativo che giustifichi l’assunzione sottoposta ad un termine finale; ebbene, nelle more del periodo pandemico, è apparso quasi inevitabile il ritorno a un approccio maggiormente flessibile alla fattispecie del contratto a termine,   e siffatta “liberalizzazione” non poteva che passare dall’espunzione della causale: e infatti, la successione di decreti tesi alla riforma del diritto del lavoro nel corso dell’ultimo anno è stata connotata da una continua estensione della possibilità di prorogare i contratti a tempo determinato senza la necessità di apporre a tale proroga la ragione di carattere tecnico-organizzativo che doveva porsene a fondamento.

Relativamente alla modifica del contratto a tempo determinato e alle sue possibilità di permanere nell’ordinamento, i rilievi che appaiono più naturali sono i seguenti: è verosimile che la normativa, una volta raggiunta la stabilizzazione epidemiologica, verrà nuovamente modificata; tuttavia è altresì presumibile che tali modifiche continuino a mantenere un certo carattere di fluidità e che prescindano da una connessione funzionale con l’andamento pandemico, rivestendo, almeno in tale ambito, una posizione di preminenza l’oscillazione politico – ideologica, al di là degli adeguamenti contingenti dovuti alla limitazione delle esternalità (per quanto gravi e pervasive) verificatesi.

Non si può infine non menzionare, tra le novità più dirompenti introdotte nell’ordinamento in seguito allo scoppio pandemico, l’applicazione massiva (e, da un punto di vista normativo, la semplificazione procedurale ad essa connessa) dello strumento dello smart working, il quale come noto era già legislativamente regolamentato da qualche anno (segnatamente dalla l. 81/2017), ma, sia per ragioni culturali, sia per ragioni tecniche connesse anche al fenomeno del c.d. “digital divide”, tale strumento non aveva attecchito particolarmente nel tessuto produttivo italiano, ricoprendo un ruolo residuale nel mondo del lavoro italiano.

A partire dal mese di marzo 2020, il ricorso a tale strumento è stato a tratti caldamente consigliato per tutte le mansioni compatibili con questa peculiare modalità di svolgimento della prestazione lavorativa (classificabile, secondo le ordinarie categorie civilistiche, come un diverso luogo di adempimento dell’obbligazione ai sensi dell’art. 1182 cod. civ.), e a tratti – tipicamente in corrispondenza di periodi particolarmente gravi dal punto di vista della diffusione epidemica, ovvero in ipotesi tipizzate quali la condizione di contagiato asintomatico del lavoratore adibito a mansioni eseguibili in smart working – lo ha reso un obbligo per il datore di lavoro, ovvero (corrispondentemente) un diritto per il lavoratore, generalmente connesso alla situazione familiare dello stesso.

Ancor oggi, a più di un anno trascorso dall’inizio “ufficiale” dell’epidemia di coronavirus in suolo italiano, il ricorso alle modalità di lavoro agile gode di una diffusione insperata (sia pur per ragioni ancora emergenziali); tra tutte le innovazioni che abbiamo brevemente analizzato nel presente contributo, certamente il ricorso semplificato e massivo allo smart working appare suscettibile di permanere anche dopo la auspicabilmente vicina conclusione dell’emergenza sanitaria, stanti gli effetti positivi, sia in termini di qualità della vita, sia in termini di  contenimento dei costi.

Purtuttavia, considerati tali effetti positivi, non bisogna trascurare il fatto che, al di là delle semplificazioni procedurali, la già citata fonte normativa preposta a disciplinare lo smart working è stata scritta in un’epoca storica cronologicamente vicina ma “socialmente” distantissima, sicché diventerà impellente, una volta che si intenda procedere a una revisione sistematica dello strumento, riformarne alcuni profili critici che si sono manifestati nella prassi, quali la necessità di approntare il c.d. “diritto alla disconnessione” per i lavoratori interessati, nonché di adeguare a tale ipotesi la previsione contenuta nell’art. 4 della l. 300/1970, atteso che, nonostante la grande lungimiranza del legislatore che scrisse lo Statuto dei lavoratori, la possibilità di eseguire la prestazione lavorativa da casa propria (o da altro luogo all’uopo indicato) era chiaramente non perscrutabile illo tempore; né le modifiche introdotte con il D.Lgs. 151/2015 hanno avuto un’incidenza sulla compatibilità tra i controlli a distanza del datore di lavoro e lo smart working (anche perché la novella legislativa contenuta nel c.d. “Jobs Act” è comunque cronologicamente antecedente alla legge di introduzione del lavoro agile).

Alla luce delle riflessioni svolte, si può concludere, in sintesi e in definitiva, quanto segue: il diritto del lavoro, avendo per oggetto di disciplina non tanto la regolamentazione in senso oggettivo degli accordi e dei contratti, bensì la persona del lavoratore in senso soggettivo e la concretizzazione della sua aspirazione a vivere un’esistenza libera e dignitosa, come da precetto costituzionale, è stato significativamente modificato in modo da tutelare i lavoratori in esito all’imprevedibile e dirompente esplosione pandemica; nella rosa delle novelle introdotte, si ritiene che la disciplina emergenziale degli ammortizzatori sociali verrà caducata, ma che l’esperienza fatta sarà utile per il legislatore, gli operatori e le imprese per migliorare le procedure nel futuro, ove si ritiene che il procedimento verrà comunque snellito e reso più funzionale; il blocco dei licenziamenti dovrà, proprio per le finalità sociali della normativa giuslavoristica appena esposte, essere dismesso con grande cautela e verosimilmente con una certa gradualità, ma verosimilmente, a situazione stabilizzata, si avrà un ritorno allo status quo ante; la deroga alle regole sui contratti a termine cesserà, ma ciò non sancirà un punto di caduta definitivo tra le diverse tendenze politico – ideologiche nel dibattito sociale e parlamentare; infine, la diffusione dello smart working appare come un processo irreversibile, degno di attenzione e ulteriori adeguamenti e modifiche nel “mondo che verrà”.

 

 

 

 

 


[1] Si pensi, ad esempio, al diritto delle locazioni, ove i Tribunali di merito (nell’attesa, inevitabile per motivi di carattere meramente cronologico, di una pronuncia definitiva della Corte di Cassazione) hanno espresso massime sovrapponibili a quella di Trib. Roma, 27/08/2020, in DeJure, che afferma: “ Si ritiene possibile modificare, sebbene per il momento ancora soltanto in sede cautelare, i termini di un contratto di locazione se il conduttore ha visto la propria attività ridotta a causa delle misure emergenziali (Covid-19) disponendo la riduzione dei canoni di locazione del 40% per i mesi di aprile e maggio 2020 e del 20 % per i mesi da giugno 2020 a marzo 2021 nonché la sospensione della garanzia fideiussoria fino ad un’esposizione debitoria di 30.000 euro.”
Si noti peraltro che il medesimo Tribunale, con sentenza di qualche mese successiva (16/12/2020), in senso opposto ma confermativo della tesi di cui al presente contributo che tende a sminuire la rilevanza dei riverberi dell’emergenza epidemiologica su alcuni ambiti giuridici, ha affermato esplicitamente quanto segue: “In presenza di un’acclarata morosità, nonostante l’emergenza epidemiologica da Covid-19, deve essere ordinato il rilascio dell’immobile in locazione in mancanza di opposizione fondata su prova scritta. Difatti, il danno ricevuto dal conduttore non può qualificarsi come danno da emergenza sanitaria, ma danno da attività provvedimentale, che si reputa illegittima. Danno che, in tal senso, la parte non si è attivata in alcun modo per rimuovere al fine di eliminarne gli effetti dannosi, che dunque avrebbe potuto evitare.”
[2] Per quanto paradossale, costituisce fatto notorio che molti lavoratori a tempo determinato, confrontandosi con i propri datori di lavoro, hanno – legittimamente, considerato quanto stava e sta avvenendo – chiesto di lasciar scadere il contratto invece di prorogarlo, giacché la percezione della NASPI non è mai stata in discussione, mentre la corresponsione della cassa integrazione è sempre suscettibile, nell’esperienza contemporanea, di ritardi e incomprensioni
[3] Il riferimento va a Trib. Udine, n. 106/2020

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Luigi Antonio Beccaria è nato a Melzo nel 1990. Laureato in Scienze Politiche e Giurisprudenza, è avvocato e consulente del lavoro. La sua principale area di attività è quella giuslavoristica, che esercita presso lo Studio Elit S.a.s. di Melzo, ove esercita l'attività di consulente del lavoro (iscritto all'albo di Milano al n. 2659) e presso lo Studio Legale Camilletti a Milano, ove ha svolto la pratica forense. Collabora da anni con la cattedra di Diritto Privato e con la cattedra di Diritto del Lavoro rispettivamente nelle facoltà di Scienze Politiche e di Economia e Giurisprudenza presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano.

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