Danno da mobbing: accertamento ed allegazione probatoria

Danno da mobbing: accertamento ed allegazione probatoria

Il mobbing viene tradizionalmente identificato con la condotta del datore di lavoro, del superiore gerarchico e/o dei colleghi,  diretta a vessare, angustiare ovvero estromettere il lavoratore dal complesso aziendale.

Esso si concretizza in comportamenti, continuati e protratti nel tempo, intenzionalmente ostili, sfavorevoli, esorbitanti ed incongrui rispetto all’ordinaria gestione del rapporto lavorativo, espressivi di un reale disegno illecito, prettamente finalizzato alla persecuzione e vessazione del lavoratore e costituisce una tangibile violazione dell’obbligo di sicurezza che, ai sensi dell’art. 2087 cod. civ., è posto a carico del datore di lavoro.

Nell’ipotesi in cui i comportamenti afflittivi provengano dal datore di lavoro, ovvero ad opera di superiori gerarchici, esso si denomina “mobbing verticale”; nell’ipotesi di “mobbing orizzontale”, invece, la vessazione, che può consistere anche in comportamenti escludenti, è causata dai colleghi e compagni di lavoro. Viene, poi, utilizzato il termine “bossing” qualora sia attuata una vera, specifica e precisa strategia aziendale, collettivamente esercitata, volta esclusivamente all’allontanamento ed all’estromissione del lavoratore dall’impresa.

Non sono da qualificarsi, pertanto, espressione di mobbing quegli atteggiamenti del datore di lavoro giustificati da oggettive situazioni aziendali di dissesto ovvero originati da gravi inadempimenti imputabili al dipendente. Così come, secondo autorevole orientamento, non integra la fattispecie in esame la diversità di vedute tra il lavoratore ed il suo titolare.

Orbene, il lavoratore mobbizzato, che subisca tali comportamenti vessatori, lesivi e persecutori, ha diritto al risarcimento del c.d. danno biologico  ed è onerato dell’allegazione probatoria del nesso causale tra il comportamento tenuto dal datore di lavoro, o dai colleghi, ed il pregiudizio alla propria salute (come, ad esempio, la sorgenza di disturbi nervosi con somatizzazioni).

In tema di responsabilità del datore di lavoro per mobbing, difatti, il lavoratore non è tenuto a dimostrare materialmente la colpa del titolare ma è comunque soggetto all’onere di allegare e dimostrare l’esistenza del fatto materiale e delle regole di condotta che assume essere state violate, della nocività dell’ambiente di lavoro nonché il nesso eziologico tra la condotta del datore ed il pregiudizio all’integrità psico-fisica che lamenta d’aver sofferto (cfr. Cass. Civile nr. 13693/2015):  elementi, questi, che hanno indotto numerosi autori a definire l’allegazione probatoria richiesta quale vera e propria “probatio diabolica“.

L’esistenza del mobbing, difatti, deve essere desunta da una analisi complessiva dello scenario in cui si esplica la prestazione lavorativa e la valutazione giudiziale di tale analisi dev’essere compiuta mediante indici presuntivi precisi, quali la reiterazione di richiami e sanzioni disciplinari illegittime, la sottrazione ripetitiva di vantaggi precedentemente acquisiti, un eventuale illecito demansionamento o ripetitive dequalificazioni.

La fattispecie, altresì, sotto l’aspetto soggettivo, deve contenere la volontà dolosa di nuocere, infastidire, tediare o svilire il lavoratore nonché il dolo specifico volto all’allontanamento del mobbizzato dall’impresa.

L’accertamento del danno da mobbing lavorativo esige una valutazione complessiva degli episodi lamentati dal lavoratore, i quali devono essere valutati unitariamente, “tenuto conto soprattutto della idoneità offensiva della condotta del datore di lavoro, desunta dalle sue caratteristiche oggettive di persecuzione e discriminazione, risultanti, a loro volta, da una connotazione emulativa e pretestuosa” (cfr. Cass. Civile, nr. 4774/2006).

Ai fini della configurabilità del mobbing, pertanto, è necessario che ricorrano le seguenti condizioni: “a) una serie di comportamenti di carattere persecutorio – illeciti o anche leciti se considerati singolarmente – che, con intento vessatorio, siano posti in essere contro la vittima in modo miratamente sistematico e prolungato nel tempo, direttamente da parte del datore di lavoro o di un suo preposto o anche da parte di altri dipendenti, sottoposti al potere direttivo dei primi; b) l’evento lesivo della salute, della personalità o della dignità del dipendente; c) il nesso eziologico tra le descritte condotte e il pregiudizio subito dalla vittima nella propria integrità psico-fisica e/o nella propria dignità; d) l’elemento soggettivo, cioè l’intento persecutorio unificante di tutti i comportamenti lesivi” (cfr. Cass. Civile, nr. 17698/2014).

Sarà onere del datore di lavoro, invece, dimostrare di aver adottato tutte le cautele necessarie ad impedire l’insorgenza di tali pregiudizi nonché la dimostrazione tangibile  che la malattia del dipendente non è ricollegabile alla inosservanza degli obblighi giuridici posti a suo carico.


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Simona Vitale

Consulente legale, esperta in diritto civile e diritto di famiglia, appassionata di scrittura e buona lettura.

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