Enti non commerciali. Determinazione del reddito imponibile

Enti non commerciali. Determinazione del reddito imponibile

Sommario: 1. I fatti di causa e l’iter processuale – 2. Perdita della qualifica di ente non commerciale. I requisiti normativi alla luce di recenti orientamenti giurisprudenziali – 3. Modalità di determinazione del reddito e (corretta) tassazione dei ricavi conseguiti – 4. Enti no profit e di Terzo settore. Il (rinnovato) rapporto tra attività commerciali e istituzionali

 

1. I fatti di causa e l’iter processuale

Nella fattispecie in esame, una società sportiva dilettantistica (ASD) che si qualifica “centro ippico”, propone ricorso al fine di contestare avviso di accertamento, emesso nei suoi confronti dall’Agenzia delle entrate per l’anno 2007, con cui si disconosceva peraltro la qualifica di ente non commerciale.

In particolare, in appello, il giudice adito evidenziava come le Entrate avessero riscontrato, tramite processo verbale di constatazione, la presenza nel centro ippico de quo di un elevato numero di cavalli, con ingenti spese sostenute per il loro mantenimento giornaliero, oltre alla presenza costante di due istruttori per lo svolgimento delle lezioni.

Inoltre, veniva posto in evidenza un ulteriore elemento: l’attività di custodia dei cavalli di proprietà di terzi, anche se associati, non rientrava nei fini istituzionali dell’associazione, sicché i corrispettivi ricevuti dovevano essere fatturati.

La sentenza di secondo grado, oltre dunque a disconoscere la natura non commerciale dell’ente, confermava la rideterminazione dei ricavi operata dai giudici di prime cure, concludendo che «non potevano essere considerati ricavi le quote associative e le lezioni di equitazione rese in favore degli associati, mentre vi rientravano, ma in misura ridotta rispetto a quanto stabilito dall’ufficio, le remunerazioni richieste per il mantenimento dei cavalli di proprietà»[1].

In Cassazione, adducendo un un unico motivo di impugnazione l’Agenzia delle entrate deduce la “violazione e falsa applicazione degli artt. 149, 81 e 55 Tuir e del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 13, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3”, in quanto il giudice d’appello, confermando la sentenza di primo grado e, pur classificando come prevalente l’attività commerciale rispetto a quello istituzionale[2], riteneva, però, che anche il recupero a tassazione dei relativi ricavi dovesse avvenire nella medesima percentuale, escludendo quindi dalla tassazione i ricavi derivanti dall’attività istituzionale.

In altri termini, le Entrate contestano l’errata applicazione del D.P.R. n. 917/1986 (TRUIR), art. 149, secondo cui «indipendentemente dalle previsioni statutarie, l’ente perde la qualifica di ente non commerciale qualora eserciti prevalentemente attività commerciale per un intero periodo di imposta».

In aggiunta, ai sensi dell’art. 81, TUIR, tutti i redditi percepiti dagli enti commerciali residenti si considerano redditi di impresa.

Pertanto, ogni provento conseguito dalla contribuente avrebbe dovuto essere assoggettato a tassazione ai sensi del richiamato art. 55, TUIR nonché del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 13, come correttamente emergeva dall’avviso di accertamento.

Al contrario, rilevano le Entrate la CTR ha effettuato una vera e propria ripartizione tra costi e ricavi dell’attività istituzionale e commerciale, sottoponendo a tassazione solo quelli afferenti alla seconda tipologia.

2. Perdita della qualifica di ente non commerciale. I requisiti normativi alla luce di recenti orientamenti giurisprudenziali

In riferimento al caso concreto, dall’iter giurisprudenziale si riscontra come l’accertamento compiuto sia in primo grado che in sede di appello sia confluito nel giudizio di svolgimento, da parte dell’ASD, di un’attività commerciale prevalente rispetto all’attività istituzionale[3].

La Corte di Cassazione delinea in primis la normativa applicabile alla fattispecie, evidenziando che si rientra nell’ambito di applicazione dell’art. 149, comma 1, TUIR (rubricato perdita della qualifica di ente non commerciale)[4], a mente del quale indipendentemente dalle previsioni statutarie, qualora il soggetto no profit eserciti prevalentemente attività di natura commerciale per un intero periodo di imposta, ne consegue l’immediata perdita della qualifica di ente non commerciale e la successiva attrazione nella sfera normativa dei soggetti for profit.

Tale articolo deve essere letto comunque in combinato disposto con  l’art. 73, comma 4, TUIR per cui «l’oggetto esclusivo o principale dell’ente residente è determinato in base alla legge, all’atto costitutivo o allo statuto, se esistenti in forma di atto pubblico o di scrittura privata autenticata o registrata. Per oggetto principale si intende l’attività essenziale per realizzare direttamente di scopi primari indicati dalla legge, dall’atto costitutivo o dallo statuto».

Da costante orientamento giurisprudenziale della Cassazione, infatti, in tema di agevolazioni tributarie, l’esenzione d’imposta prevista dall’art 148, in favore delle associazioni non lucrative dipende «non dall’elemento formale della veste giuridica assunta (nella specie, associazione sportiva dilettantistica), ma dall’effettivo svolgimento di attività senza fine di lucro, il cui onere probatorio incombe sulla contribuente e non può ritenersi soddisfatto dal dato del tutto estrinseco e neutrale dell’affiliazione alle federazioni sportive e al Coni, essendo invece rilevante che le associazioni interessate si conformino alle clausole relative al rapporto associativo, che devono essere inserite nell’atto costitutivo o nello statuto»[5].

Di conseguenza, la natura del soggetto giuridico deve essere verificata in termini non solo formali, ossia così come “dichiarata” nell’atto costitutivo o nello statuto, ma occorre accertare in concreto l’effettiva attività esercitata dall’ente, non essendo sufficiente la valutazione dei meri indici formali.

Si può affermare anche che, mentre il D.P.R. n. 917 del 1986, art. 73, comma 4, opera sul piano “esterno” della qualificazione dell’ente in base al sistema di norme dedicate agli enti non commerciali, gli indici quantitativi di cui al successivo art. 149 operano all’interno di tale sistema e quindi trovano applicazione solo dopo che l’ente è già stato qualificato (provvisoriamente) come non commerciale.

Inoltre, il secondo comma dell’art. 149, TUIR contiene specifici “indici di commercialità” da utilizzare ai fini del riscontro della perdita o meno di qualifica di ente non lucrativo[6]. Tali parametri, tuttavia, sono da considerare come meri indizi valutabili unitamente ad altri fattori, effettuando un giudizio più articolato sia sul ruolo assegnato alle attività commerciali svolte, sia sulle caratteristiche complessive dell’ente[7].

Sul punto si è espresso anche il Ministero delle Finanze, chiarendo proprio come la semplice prevalenza di elementi positivi derivanti dal legittimo svolgimento di attività diverse, da parte di enti non commerciali, non costituisce elemento significativo e decisivo ai fini della possibile perdita della qualifica giuridica di ente non commerciale[8].

La norma, in sostanza, non contiene presunzioni assolute di commercialità, ma traccia un percorso logico, anche se non vincolante quanto alle conclusioni, per la qualificazione dell’ente non commerciale, individuando parametri che costituiscono “fatti-indice di commercialità”, dei quali deve tenersi conto unitamente ad altri elementi di giudizio. Non è, pertanto, sufficiente il verificarsi di una o più delle condizioni stabilite dal citato art. 149, TUIR per poter ritenere avvenuto il mutamento di qualifica, ma sarà necessario, in ogni caso, un giudizio più complesso e articolato, che tenga conto anche di ulteriori elementi.

In definitiva, precisa il Ministero, il verificarsi di una o più delle circostanze indicate in capo ad enti la cui attività essenziale sia di natura obiettivamente non commerciale, non può di per sé far venir meno la qualifica non commerciale dell’ente, risultante dall’atto costitutivo o dallo statuto, purché l’attività effettivamente esercitata corrisponda in modo obiettivo a quella espressamente indicata nelle previsioni statutarie[9].

Il successivo quarto comma del citato art. 149 TUIR prevede però una importante deroga in quanto stabilisce che «le disposizioni di cui ai commi 1 e 2 non si applicano agli enti ecclesiastici riconosciuti come persone giuridiche agli effetti civili ed alle associazioni sportive dilettantistiche».

Recentemente la Cassazione[10] è intervenuta sul punto chiarendo come anche gli enti ecclesiastici civilmente riconosciuti come persone giuridiche e le associazioni sportive dilettantistiche possano perdere la qualifica di ente non commerciale, ma soltanto se l’esercizio prevalente di attività commerciale perdura per più di un periodo di imposta, e non soltanto per uno unico, come invece avviene per gli altri enti non commerciali[11].

Si specifica dunque che il legislatore non ha inteso attribuire ope legis agli enti religiosi (nonché alle ASD) la qualifica di enti non commerciali, dovendosi, comunque, applicare i criteri dell’art. 73, TUIR; in altri termini, non è ravvisabile nell’ordinamento statuale alcuna presunzione assoluta di non commercialità attribuibile a peculiari soggetti giuridici, tale da accordare un regime fiscale di favore iuris et de iure, esclusivamente in virtù di una specifica connotazione soggettiva.

Con riferimento, invece, al parametro connesso ai ricavi derivanti da attività commerciale, il raffronto va effettuato tra i componenti positivi del reddito di impresa e le entrate derivanti dalle attività istituzionali, da quantificare al valore normale, in quanto i beni o le prestazioni afferenti alle attività istituzionali possono anche essere cedute gratuitamente o per corrispettivi non remunerativi dei fattori produttivi impiegati.

Inoltre, anche con riguardo alle spese, il raffronto va operato tra le quelle inerenti l’attività commerciale e la somma di tutte le restanti spese medesime[12].

3. Modalità di determinazione del reddito e (corretta) tassazione dei ricavi conseguiti

L’errore commesso dal giudice d’appello, come pure da quello di prime cure, è stato quello di distinguere, ai fini del pagamento delle imposte, tra ricavi da attività commerciale assoggettabili a imposta, e quelli da attività istituzionale, invece esenti dalla stessa.

Invero, in conseguenza della perdita della qualifica di ente non commerciale, la modalità di determinazione del reddito per l’intero periodo di imposta è quella propria degli enti commerciali[13]. Ogni entrata viene quindi attratta nella categoria del reddito di impresa[14], con l’obbligo di annotazione nell’inventario di tutti i beni facenti parte del patrimonio dell’ente[15].

Tale iscrizione deve, inoltre, essere effettuata entro sessanta giorni dall’inizio del periodo d’imposta in cui ha effetto il mutamento di qualifica[16].

In conclusione con la sentenza in esame si chiarisce come la qualificazione del reddito non è determinata dalla oggettiva rilevanza della natura della fonte da cui proviene, né dal contenuto dell’attività svolta, ma solo dalla qualificazione soggettiva del produttore, ossia dal nesso di collegamento dell’attività esercitata con lo specifico assetto organizzativo.

Infatti, la natura commerciale dell’organizzazione denota l’esistenza di una struttura predisposta allo svolgimento di attività commerciale, idonea quindi a realizzare atti della medesima natura, con altri soggetti commerciali. Ciò perché la tutela dell’interesse al gettito fiscale costituzionalmente rilevante giustifica la presunzione assoluta dell’esistenza del connotato di commercialità dell’attività svolta dai soggetti organizzati in forma societaria[17].

Alla luce di quanto analizzato, la Suprema Corte cassa la sentenza impugnata, con rinvio alla CTR in diversa composizione, esprimendo il seguente principio di diritto: «in caso di perdita della qualifica di ente non commerciale da parte di un’associazione sportiva dilettantistica (…) per la prevalenza dell’attività commerciale rispetto a quella istituzionale, per almeno due periodi di imposta, tutti i proventi dell’ente devono essere assoggettati a tassazione come reddito di impresa, ai sensi del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 55 e 81, compresi quelli derivanti da attività non commerciale, come le quote associative e le lezioni equestri svolte in favore dei soci, senza corrispettivi specifici, non potendosi distinguere i proventi da attività istituzionale da quelli derivanti dalla attività commerciale prevalente».

4. Enti no profit e di Terzo settore. Il (rinnovato) rapporto tra attività commerciali e istituzionali

Con l’entrata in vigore del D.lgs. n. 117/2017 (Codice di terzo settore) la qualifica di commercialità o meno dell’ente risulta differente rispetto a quella tradizionalmente desumibile dal combinato disposto degli artt. 73 e 149 del Tuir[18].

L’ETS assume la qualifica di ente commerciale o non commerciale esclusivamente in base al criterio della prevalenza (o meno) delle entrate di natura commerciale, non rilevando dunque il criterio formale, fondato sulla formulazione delle disposizioni statutarie[19].

Infatti, il CTS individua parametri stringenti (art. 79, CTS) per qualificare «non commerciali» le attività di interesse generale; nel dettaglio le stesse devono essere svolte titolo gratuito o dietro versamento di corrispettivi che non superano i costi effettivi; tali attività, qualora rispettino i richiamati parametri, non sono soggetti a ordinaria tassazione.

I ricavi poi non devono superare di oltre il 5 per cento i relativi costi per ciascun periodo d’imposta e per non oltre due periodi d’imposta consecutivi[20].

Al riguardo, si potrebbe riflettere sul fatto che attribuire soltanto alla «gratuità» oppure alla «quasi gratuità» del servizio una rilevanza prevalente, ai fini della determinazione dell’assenza di scopi lucrativi, ci porti a considerare, paradossalmente, che solo gli enti in perdita o destinati a gestioni fallimentari, potranno essere annoverati tra gli enti di Terzo settore.

Di conseguenza, la possibilità di poter svolgere le cd. «attività diverse», che si identificano in sostanza con possibili attività commerciali, costituisce in concreto una importante forma di auto-finanziamento (e di sopravvivenza) per l’ETS.

La disposizione appare quindi decisamente orientata verso un allineamento con i principi comunitari, in rapporto ai quali la mancata distribuzione di eventuali avanzi di gestione tra i soci ovvero il reinvestimento nell’attività non escludono la natura economica dell’attività stessa[21].

Di recente, con Decreto ministeriale[22] sono stati individuati anche specifici criteri e limiti riferiti alle “attività diverse” esercitabili dagli enti del Terzo settore.

Il D.M. definisce i due tratti caratterizzanti delle richiamate attività diverse: la strumentalità e la secondarietà.

In particolare, le attività diverse sono considerate strumentali se, indipendentemente dal loro oggetto, vengono esercitate dall’ente del Terzo settore, per la realizzazione, in via esclusiva, delle finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale perseguite dall’ente medesimo.

La secondarietà, invece, ricorre in una delle seguenti ipotesi: a) i ricavi da attività diverse non sono superiori al 30% delle entrate complessive dell’ente del Terzo settore; b) i ricavi da attività diverse non sono superiori al 66% dei costi complessivi dell’ente del Terzo settore.

Tali criteri sono alternativi ed è dunque sufficiente il rispetto di uno dei due, affinché lo svolgimento delle predette attività diverse non violi la disposizione di legge.

In definitiva, la possibilità per l’ente no profit di svolgere anche attività commerciali consente all’organizzazione non lucrativa di finanziarsi autonomamente per poter continuare a svolgere la sua mission nel sociale e, al tempo stesso, affrancarsi da una eccessiva dipendenza dai finanziamenti pubblici che rischia di condizionare la vita stessa dell’ente no profit.

Del resto, sin dall’emanazione delle Linee guida (2014) appariva chiaro l’obiettivo della riforma di Terzo settore: valorizzare lo straordinario potenziale di crescita e di occupazione insito nell’economia sociale e nelle attività svolte dal Terzo settore; superare, inoltre, le vecchie dicotomie tra pubblico/privato e tra Stato/mercato e passare da un ordine civile bipolare a un rinnovato assetto “tripolare”.

In presenza di una crescente domanda di protezione sociale, appare necessario adottare nuovi modelli giuridici in cui l’azione pubblica possa essere affiancata in modo più incisivo dai soggetti operanti nel privato solidale. Pubblica amministrazione e Terzo settore devono dunque diventare due solidi pilastri su cui fondare una nuova welfare society[23].

 

 

 

 


[1] Cfr. Commissione tributaria regionale della Lombardia, sent. n. 177/7/2013, depositata il 19 novembre 2013.
[2] Il giudice di appello effettua un ricalcolo delle percentuali, ritenendo l’attività commerciale prevalente su quella istituzionale, nella misura, rispettivamente, del 52 e del 48%.
[3] Ivi, par. 1.4: «Nella specie, con accertamento di fatto, non censurabile in questa sede, il giudice d’appello, confermando quanto stabilito già dal giudice di prime cure, ha affermato che l’ente Centro Ippico Valle delle Azalee ha svolto attività commerciale prevalente sull’attività istituzionale (“nel merito dell’accertamento e in relazione alla ricostruzione dei maggiori ricavi e al disconoscimento della qualità ente non commerciale si osserva che, nel caso specifico, a fronte degli elementi sottolineati dall’amministrazione, prima nel PVC e poi nell’atto impositivo, e costituiti dalla verifica del numero di cavalli presenti nel centro ippico, il numero degli associati, le quote associative minime versate da questi ultimi e le spese sostenute per il mantenimento giornaliero degli equini, la contribuente non ha potuto contrastare le evidenze con adeguate prove documentali”). Inoltre, il giudice d’appello ha anche sottolineato che il centro ippico “custodisce un numero rilevante di cavalli, ha 294 associati in gran parte minorenni, ha due istruttori federali per lo svolgimento delle lezioni e ha cavalli di proprietà”. Ha aggiunto poi che “il ricovero di cavalli di proprietà di terzi, anche se associati, non rientra nei fini istituzionali dell’associazione e non i corrispettivi ricevuti dovevano essere regolarmente fatturati”. (par. 1.5) Del resto, quanto affermato dal giudice d’appello trova piena conferma in quanto riportato nell’avviso di accertamento, i cui contenuti sono trascritti all’interno del ricorso per cassazione. I ricavi complessivi dell’attività provenivano infatti dal servizio di “scuderizzazione” (Euro 486.720,00), mentre i ricavi derivanti dalle quote associative erano di Euro 29.400,00 ed i ricavi da lezioni di equitazione erano di Euro 202.176,00. Risulta, quindi, evidente che l’attività principale svolta era proprio quella commerciale».
[4] I giudici di legittimità sottolineano come la disposizione in esame sia una norma generale, applicabile a tutti gli enti non commerciali inseriti nel Capo III delle D.P.R. n. 917 del 1986 (enti non commerciali residenti), disciplinati dal medesimo D.P.R. n. 917 del 1986, artt. 143-150. Nel dettaglio, il D.P.R. n. 917 del 1986, art. 148, comma 1 (enti di tipo associativo), dispone che «non è considerata commerciale l’attività svolta nei confronti degli associati o partecipanti, in conformità alle finalità istituzionali, dalle associazioni, dai consorzi e dagli altri enti non commerciali di tipo associativo. Le somme versate dagli associati o partecipanti a titolo di quote o contributi associativi non concorrono a formare il reddito complessivo». L’art. 148, comma 2, prevede, poi, che «si considerano tuttavia effettuate nell’esercizio di attività commerciali, salvo il disposto del secondo periodo dell’art. 143, comma 1, le cessioni di beni e le prestazioni di servizi agli associati o partecipanti verso pagamento di corrispettivi specifici, compresi i contributi e le quote supplementari determinati in funzione delle maggiori o diverse prestazioni alle quali hanno diritto. Detti corrispettivi concorrono alla formazione del reddito complessivo come componenti del reddito di impresa o come redditi diversi secondo che le relative operazioni abbiano carattere di abitualità o di occasionalità». Inoltre, l’art. 148, comma 3, chiarisce che «per le associazioni politiche, sindacali e di categoria, religiose, assistenziali, culturali, sportive dilettantistiche, di promozione sociale e di formazione extra-scolastica della persona non si considerano commerciali le attività svolte in diretta attuazione degli scopi istituzionali, effettuate verso pagamento di corrispettivi specifici nei confronti degli iscritti, associati o partecipanti, di altre associazioni che svolgono la medesima attività e che per legge, regolamento, atto costitutivo o statuto fanno parte di un’unica organizzazione locale o nazionale, dei rispettivi associati o partecipanti e dei tesserati dalle rispettive organizzazioni nazionali nonchè le cessioni anche a terzi di proprie pubblicazioni cedute prevalentemente agli associati».
[5] Cfr., ex multis, Cass. n. 11492 del 2019; Cass. n. 10393 del 2018; Cass., n. 16449 del 5 2016, n. 16449. Sul tema, mi si permetta di richiamare F. Moroni, Associazioni sportive dilettantistiche (ASD). Tra recenti orientamenti giurisprudenziali e riforma del Terzo settore, in Il Tributario, Giuffrè, Milano, 3 agosto 2020. In dottrina v., inoltre P. Moretti, Enti, associazioni e società sportive dilettantistiche, Ipsoa, 2021; A. Fici, Terzo settore e sport dilettantistico, AICCON, Working Paper, 173, 2019; M. Basilavecchia, Sono imponibili le prestazioni rese dal bar di un circolo sportivo, in Corr. Trib., 2006, 41.
[6]Nel dettaglio, l’art. 149, comma 2, prevede che «ai fini della qualificazione commerciale dell’ente si tiene conto anche dei seguenti parametri: a) prevalenza delle immobilizzazioni relativi all’attività commerciale, al netto degli ammortamenti, rispetto alle restanti attività; b) prevalenza dei ricavi derivanti da attività commerciali rispetto al valore normale delle cessioni o prestazioni afferenti le attività istituzionali; c) prevalenza dei redditi derivanti da attività commerciali rispetto alle entrate istituzionali, intendendo per queste ultime i contributi, le sovvenzioni, le liberalità e le quote associative; d) prevalenza delle componenti negative inerenti all’attività commerciale rispetto alle restanti spese».
[7] Si può pacificamente affermare che il secondo comma dell’attuale art. 149 del TUIR, indica dunque alcuni parametri i quali non comportano automaticamente la perdita della qualifica di ente non commerciale.
[8] Cfr. Min. Finanze – Dip. Entrate Aff. Giuridici Serv. VI , Circolare 12 maggio 1998, n. 124 recante Decreto Legislativo 4 dicembre 1997, n. 460. Sez. I – Modifiche alla disciplina degli enti non commerciali in materia di imposte sul reddito e di imposta sul valore aggiunto. In dottrina, F. Amatucci, La identificazione degli enti non commerciali ai fini fiscali tra requisiti formali e sostanziali nel panorama europeo, in Rivista di Diritto tributario internazionale, n. 2, 2012, pp. 77-89.
[9] Per un approfondimento sul tema, v. G. Rivetti, Enti senza scopo di lucro. Terzo settore e impresa sociale. Profili di specialità tributaria tra attività no profit o for profit, Giuffrè, Milano, 2017, passim.
[10] Cfr.  Cass. n. 526, 14 gennaio 2021. Per un commento alla richiamata sentenza, v. F. Moroni, Enti ecclesiastici tra TUIR e Codice del Terzo Settore. Requisiti di non commercialità e obbligo di contabilità separata, in Il Tributario, Giuffrè, Milano, 24 giugno 2021. Per un approfondimento sul regime fiscale degli enti no profit, anche alla luce della recente riforma del Terzo settore v. G.M. Colombo, ETS: enti commerciali o enti non commerciali?, in Enti non profit, 1, 2020, pagg. 23-27; M.E. Roncato, S. Orlandi, La nuova disciplina fiscale degli ETS, Maggioli, Rimini, 2019; S. Buttus, L’ente del Terzo settore (ETS) quale “ente non commerciale” ai fini fiscali. La difficile convivenza tra D.lgs. n. 117/2017 e TUIR, in Riv. Dir. Trib., 12 luglio 2019; G.M. Colombo, Enti del Terzo settore (ETS), enti commerciali, enti non commerciali, in Corr. Trib., 4, 2018, p. 3102; V. Ficari, Prime osservazioni sulla ‘fiscalità’ degli enti del terzo settore e delle imprese sociali, in Riv. trim. dir. trib., 1, 2018, pagg. 57 e ss.; G. Sepio e F. M. Silvetti, La (non) commercialità degli enti nel nuovo Codice del Terzo Settore, in Il fisco, 38, 2017; A. Mazzullo, Il nuovo Codice del Terzo Settore. Profili civilistici e tributari, Giappichelli Editore, Torino, 2017.
[11] In particolare, per le associazioni sportive dilettantistiche, l’ambito applicativo del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 149, comma 4 viene applicato in seguito alla previsione di cui alla L. 27 dicembre 2002, n. 289, art. 90, comma 11.
[12]  Cfr. Cass. n. 17026/2021 qui in commento, par. 1.3.
[13] Cfr. D.P.R. n. 917 del 1986, art. 73, comma 1, lett. b): «Sono soggetti all’imposta sul reddito delle società gli enti pubblici e privati diversi dalle società, nonchè i trust, residenti nel territorio dello Stato, che hanno per oggetto esclusivo o principale l’esercizio di attività commerciali».
[14] Di conseguenza, si applica il D.P.R. n. 917 del 1986, artt. 55 e 81. Nel dettaglio, ai sensi del citato art. 55, comma 1, «sono redditi di impresa quelli che derivano dall’esercizio di imprese commerciali». L’art. 81 (reddito complessivo), invece dispone che «il reddito complessivo della società e degli enti commerciali di cui all’art. 73, comma 1, lett. a e b, da qualsiasi fonte provenga, è considerato reddito di impresa (…)».
[15] Cfr. D.P.R. n. 600 del 1973, art. 15, rubricato Inventario e bilancio.
[16] Quanto, poi, gli obblighi contabili, l’ente è tenuto a predisporre un prospetto delle attività e delle passività da redigere con i criteri di cui al D.P.R. n. 689/1974, nonché ad attivare le scritture contabili di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, artt. 14 e s.s., come indicato nel par. 1.8 della sentenza qui in commento.
[17] V. Cass. n. 17026/2021 qui in commento, par. 1.9. Inoltre, in relazione ad una vicenda analoga, che aveva coinvolto un centro ippico, quale associazione sportiva dilettantistica equestre, questa Corte ha affermato che, una volta «accertata la natura commerciale dell’attività esercitata, è affatto coerente che siano stati conteggiati fra i ricavi anche le quote associative» (Cass., sez. 5, 8 giugno 2011, n. 12449). Ovviamente, con detrazione delle spese ordinarie di gestione, qui avvenuta, come risulta dall’avviso di accertamento ritualmente trascritto.
[18] V, anche Cass. n. 526/2021, cit., par. 4.7: « Alle tre categorie fiscali individuate dall’art. 73 Tuir, comma 1, e quindi le società, gli enti commerciali diversi dalle società e gli enti non commerciali, se ne sono aggiunte due nuove, ossia gli enti del terzo settore non commerciali, ex art. 79 CTS (codice terzo settore) e gli enti del terzo settore commerciali».
[19] La “non commercialità” dell’ente di Terzo settore si fonda, come detto, su parametri collegati alla “capacità tributaria” dell’ente medesimo che viene valutata per ogni esercizio finanziario sulla base della prevalenza del reddito conseguito a seguito dell’esercizio dell’attività commerciale, senza riguardo alla qualificazione soggettiva dell’ente.
[20] Ivi, art. 79, D.lgs. n. 117/2017 (Codice di Terzo settore). In dottrina, v. G. Rivetti, La qualificazione tributaria delle attività degli “Enti di Terzo Settore” tra incertezze interpretative e ripensamenti legislativi, in Rivista di Dir. Tributario, n. 2, 2019, p. 446. Sul punto, l’A. osserva come «il legislatore ha introdotto l’art. 2 bis, per effetto dell’art. 24 ter, comma 3, d. l. 23 ottobre 2018, n. 119, convertito con modificazioni dalla l. 17 dicembre 2018, n. 136, che prevede la possibilità di mantenere la qualifica non commerciale quando i ricavi non superino il cinque per cento i relativi costi per ciascun periodo d’imposta e per non più di due periodi d’imposta consecutivi. Pertanto, solo oltre il secondo esercizio l’attività viene considerata commerciale, con attrazione nell’area del reddito d’impresa e mutamento della qualifica a decorrere dal periodo d’imposta in cui lo stesso assuma una diversa natura. La soluzione adottata sembra, comunque, essere solo parte del problema. L’innovazione legislativa, anche se tende a stemperare quelle rigidità di cui si parlava in precedenza, risulta ancorata a valori contabili non sempre in grado di svelare le reali ed effettive attività degli organismi in esame».
[21] Cfr. G. Rivetti, La qualificazione tributaria delle attività degli “Enti di terzo settore”, cit., l’A. osserva a ragione che «solo in presenza di un servizio offerto gratuitamente o quasi gratuitamente si può configurare una attività non commerciale (Cfr. Commissione europea, 19 dicembre 2012, n. 2013/284/UE)». Sul tema, F. Farri, Enti non commerciali e aiuti di Stato: limiti all’operatività del diritto europeo, in Riv. dir. Trib. on line, 3 ottobre 2016; M. Ingrosso, G. Tesauro (a cura di), Agevolazioni fiscali e aiuti di Stato, Jovene, Napoli, 2009; F. Amatucci, La identificazione degli enti non commerciali ai fini fiscali tra requisiti formali e sostanziali nel panorama europeo (Relazione al Convegno internazionale EATLP “Taxation of charities”, Rotterdam, 1° giugno 2012), in Rivista di Diritto tributario internazionale, n. 2, 2012, pp. 77-89.
[22] Cfr. Decreto del Ministero del Lavoro 26 luglio 2021, n. 177, recante Regolamento ai sensi dell’art. 6 del d.lgs. n. 117/2017 concernente l’individuazione di criteri e limiti delle attività diverse degli enti di Terzo settore. Sul tema, G. Rivetti, F. Moroni, Terzo settore. Pubblicato il D.M. sulle attività diverse, in Il Tributario, Milano, Giuffrè, 2 agosto 2021.
[23] Cfr. Governo, Linee Guida per una riforma del Terzo settore, 13 maggio 2014. In dottrina sulla recente riforma del Terzo settore, A. Fici, E. Rossi, G. Sepio, P. Venturi, Dalla parte del Terzo Settore. La Riforma letta dai suoi protagonisti, Laterza, Roma-Bari, 2020; S. Boffano, P. Cella, Enti no profit al bivio. Linee guida per orientarsi nella Riforma del Terzo Settore, Egea, Milano, 2019; A. Fici (a cura di), La riforma del terzo settore e dell’impresa sociale. Una introduzione, Esi, Napoli, 2018; P. Consorti, L. Gori, E. Rossi, Diritto del Terzo settore, Il Mulino, Bologna, 2018; F. Loffredo, Gli enti del Terzo settore, Giuffrè, Milano, 2018; F. Farri, Le modifiche strutturali al quadro normativo del Terzo settore, in Riv. Dir. Trib., 16 febbraio 2018

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Francesca Moroni

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