Gesù e Pilato. Digressioni sulla democrazia

Gesù e Pilato. Digressioni sulla democrazia

Sommario: 1. La versione di Bulgakov – 2. Pilato democratico? – 3. Gesù, vero amico della democrazia – 4. Conclusioni

 

1. La versione di Bulgakov

In tunica bianca, foderata di porpora, con un’andatura strascicata, un mattino di primavera, il quattordici del mese nisan, uscì dal colonnato chiuso fra le due ali del palazzo di Erode il Grande, il procuratore della Giudea, Ponzio Pilato“.

Così l’incipit del secondo capitolo dello straordinario Il Maestro e Margherita di Michail Bulgakov. Storico, politico e satirico, fantastico, magico e metafisico, un romanzo non incasellabile in un genere univoco.

A dire di un incantato Eugenio Montale, questo il capitolo “più stupefacente del libro”.

In un giorno che si preannuncia pessimo, Ponzio Pilato si ritrova a dover processare un uomo che sembra ribellarsi al potere di Roma. Si tratta di Gesù il Nazareno.

Pilato è afflitto nel fisico e nell’anima: è tormentato dall’emicrania, ormai insofferente verso l’establishment teocratico giudaico e la provincia che si trova costretto a governare (“odiosa città…”). È disincantato dagli uomini in genere. È affezionato – e ricambiato – unicamente dal suo enorme cane Bangà.

Cinico, scettico, svogliato, viene a poco a poco conquistato da quel “profeta” che riesce a frugare e leggere tra i suoi pensieri. Sedotto da quell’uomo, in apparenza semplice, che, oltre al proprio aramaico, parla greco e latino, e che ritiene che, al mondo, non vi siano esseri cattivi. E soprattutto da colui che, alla fatidica domanda, “Che cos’è questa verità?”, a differenza del Gesù silenzioso narrato nei vangeli, risponde candidamente “La verità è, prima di tutto, che ti duole la testa, e ti duole così forte che tu pensi vilmente alla morte”, e così finisce sorprendentemente per guarirlo.

Pilato è così stregato da quell’uomo che vorrebbe renderlo libero, fino ad immaginare, in un delirante proposito, di tenerlo con sé per sempre, confinandolo a Cesarea, presso la sua residenza ufficiale.

Tuttavia, Gesù (Yeshua, nel libro) riconosce di avere proclamato “che ogni potere appare una violenza contro gli uomini e che verrà il tempo in cui non ci saranno più né il potere di Cesare né altri poteri. L’uomo si trasferirà nel regno della verità e della giustizia dove non sarà necessario nessun potere”. Pilato si ritrova costretto, suo malgrado, a condannarlo, per il timore di essere segnalato da Caifa, all’imperatore Tiberio, nel caso di clemenza. Da quell’incontro folgorante, e dalla successiva condanna – misteriosamente percepita ingiusta –, matura infine la folle convinzione di essere divenuto immortale, ma di un’angosciante senso di immortalità che gli gela l’anima sotto il gran sole della Giudea.

Lo stesso terribile presentimento a cui allude il personaggio di Pilato, nel famoso musical Jesus Christ Superstar, quando canta angosciato nella notte: “Poi ho sognato migliaia di milioni che piangevano per quell’uomo. E poi li ho sentiti ripetere ogni giorno il mio nome. E dare la colpa a me” (Pilato’s dream). Prefigurazione del Credo, in cui il nome di Ponzio Pilato viene ripetuto come un mantra ogni giorno da milioni di persone da venti secoli.

2. Pilato democratico?

A prescindere dal dramma interiore del procuratore romano, tutti sappiamo, poi, come è andata a finire nei racconti evangelici. Pilato, nell’estremo tentativo di salvare l’uomo che reputa innocuo o anche solo per decolpevolizzarsi, ricorre al privilegium paschale. In omaggio alla consuetudine di rilasciare un condannato a morte in occasione della Pasqua, rimette alla folla la decisione se graziare Gesù o Barabba, confidando che la folla, tutto sommato, avrebbe preferito l’innocente al criminale. Senonché le dinamiche che conducono alla determinazione collettiva sono tali da conseguire una decisione imprevista e per certi versi aberrante.

È su tale punto che taluni studiosi (Kelsen su tutti) evidenziano che la scelta di Pilato costituirebbe, pur sempre, una atto di democrazia.

Si impone, tuttavia, una criticità immediata: la decisione assunta dalla moltitudine porta a giustiziare un innocente. Pertanto la democrazia sembrerebbe non giusta. Il sillogismo che pare evocato è il seguente: se rimettere alla folla la decisione (democrazia) conduce la folla a scegliere di graziare Barabba (il criminale) in luogo di Gesù (l’innocente), allora possiamo ragionevolmente dedurre che la folla (democrazia) non sceglie bene (è ingiusta).

Il rapporto tra democrazia e giustizia si presenta pertanto in tutta la sua drammaticità.

La democrazia è, per forza di cose, formale, in quanto delegata dal popolo (demos) a pochi (i rappresentanti) secondo regole di rappresentanza predeterminate e condivise (Costituzione).

La rappresentanza è senza vincolo di mandato, nel senso che i rappresentanti non rendono conto giuridicamente delle decisioni che adottano: nell’esercizio della loro funzione rappresentativa, per tutta la durata dell’incarico, le loro determinazioni sono connotate dalla libertà di scelta e di fini, connaturata all’azione politica.

Nessuno può perseguire legalmente un parlamentare o un delegato politico che disattenda il programma o il proclama elettorale. Non può esserne revocato il mandato, semmai il delegato renderà conto politicamente: se cioè le sue determinazioni non saranno state condivise dagli elettori, ex post non sarà più rieletto.

La democrazia è, quindi, indiretta, a parte eccezioni molto residuali (referendum popolare). L’esercizio del potere e delle facoltà dell’azione politica sono svolte non da chi detiene la sovranità (demos) ma da chi è stato scelto (rappresentante) in esito al voto popolare (es. elezione dei parlamentari) o mediante l’esercizio di un potere di nomina (es. nomina del capo dello stato o del capo del governo).

La democrazia, per sua natura, è pluralismo, ossia eguale diritto di espressione per tutte le idee, opinioni e ragioni. Ciò conduce, ineludibilmente, a tener conto di una pluralità di modi di vedere la realtà, di ideologie politiche, di scale di valori, in ultima analisi ad una pluralità di verità. In tal senso il pluralismo della democrazia è in sé stesso relativismo.

Ma la democrazia è anche maggioritaria: le scelte adottate dal contesto democratico fondano su di un principio di prevalenza della maggioranza sulla minoranza.

Questo lo sapeva bene il grande filosofo del diritto Hans Kelsen quando ha iniziato a porsi interrogativi sulla relazione tra la democrazia (formale, indiretta, pluralistica, relativistica, maggioritaria) e la giustizia (sostanziale, unica, assoluta).

A proposito della democrazia, egli prospetta l’esistenza di un vero e proprio trilemma, sintetizzabile in tre asserzioni:

  • la democrazia è formale e implica il relativismo come garanzia di pluralismo;

  • il relativismo non può escludere a priori l’affermarsi di valori contrari alla democrazia stessa, pena la perdita del suo stesso carattere di relativismo;

  • la salvaguardia della democrazia presuppone che la maggioranza scelga sempre il valore della libertà nel pluralismo, scelta che mai può essere imposta a priori se non a discapito della libertà politica stessa.

La Giustizia atterrebbe, invece, alle alte sfere, all’iperuranio platonico: avendo i caratteri dell’assoluto, è da considerarsi parente stretto della Verità. Non avrebbe a che fare con le forme di potere (incluso quello democratico): del resto, il Gesù di Bulgakov auspica proprio che “L’uomo si trasferirà nel regno della verità e della giustizia dove non sarà necessario nessun potere”. Verità e giustizia vanno a braccetto in un regno dove non sono previste autorità che esercitano il potere. In ultima analisi, ogni concetto assoluto è prima di tutto vero, parte di un unico concetto polivalente, faccia di un unico grande poliedro che è la Verità. Potremmo affermare che la Verità, nel campo del giudizio sulle condotte e sui fatti, ha come faccia precipua la Giustizia.

Quid est veritas? Chiede Pilato a Gesù.

Il Gesù di Bulgakov è pratico e diretto nel chiarire che la verità è prima di tutto il mal di testa del procuratore, ossia una cosa che Pilato sa essere vera perché sperimentata in prima persona sulla propria pelle. Non appena costui ne assume consapevolezza, guarisce dal male. Un modo diverso per affermare il potere salvifico della Verità.

Nella narrazione evangelica, la domanda invece non trova risposta. Non la trova per l’agnosticismo di fondo sotteso alla domanda, la quale finisce per assumere un risvolto meramente retorico, ben colto da Gesù. Non la trova per la fretta pragmatica di Pilato che lo induce a passare subito oltre nella procedura giudiziaria in corso. Non la trova perché la risposta in realtà c’è: è proprio il silenzio di Gesù che si impone come assoluto che non necessita di espressione ma che ontologicamente è.

Sta di fatto che, sottesa, vi è la domanda di fondo, la domanda delle domande: cosa è, in fin dei conti, la giustizia?

Nello scontro tra democrazia e verità-dogma, tra relativismo ed assoluto, la risposta a tale domanda esige ancora maggiore urgenza.

Nell’emblematica vicenda narrata, da un lato Gesù propugna la “verità assoluta” che incarna di fronte agli uomini nel proclamarsi “Figlio di Dio”, “venuto al mondo […] per rendere testimonianza alla verità”.

Dall’altro, si pone il relativismo scettico di Pilato (Ratzinger) che, non sapendo cosa sia la Verità assoluta testimoniata da Gesù, pone sì la nota domanda, ma poi agisce in senso democratico: o meglio, si affida alla democrazia, traslando ogni determinazione alla folla, coacervo relativista di idee, opinioni, tendenze ed influenze. Egli è definito da Kelsen come il “rappresentante di una civiltà vecchia, stanca e perciò divenuta scettica”, che proprio non sa – perché non gli interessa –   cosa sia la verità: da romano è avvezzo a parlare democraticamente e dunque “si appella al popolo e organizza un plebiscito”.

Proprio l’estraneità al concetto di verità assoluta, il non riscontrare “alcuna colpa” in Gesù ed il conseguente appello alla folla rendono, a dire di Kelsen, la figura di Pilato profondamente “democratica”, per cui – evidenzia il giurista austriaco – ogni forma di obiezione alla decisione del procuratore romano si può porre e condividere solo nella misura in cui si adotti un approccio assolutista, e non relativista, ossia un approccio sostanzialmente non democratico.

Pilato, nella lettura kelseniana rifletterebbe l’attitudine liberale, proprio perché non reputa rilevante il problema della verità. Per questo, invero, il prefetto chiede a Gesù “Cosa è la verità?”: come per sottolineare che la verità, in fin dei conti, non ha importanza.

L’Impero romano, pragmaticamente, tollerava tutte le credenze (pluralismo), piegandole all’occorrenza unicamente in funzione della pax. Al contrario, nella visione rabbinica (e purtroppo in alcune, troppe, visioni odierne), la verità di una convinzione, se si vuole di una fede, esclude tutte le altre (integralismo, fondamentalismo).

Certamente, per coloro che credono nel figlio di Dio e re dei Giudei come testimone della Verità assoluta, questa sorta di “plebiscito” si appalesa come un serio argomento contro l’efficacia e la bontà della democrazia, appunto per il relativismo che contiene.

Lo scrittore francese Anatole France, Nobel per la letteratura nel 1921, nel suo Il procuratore della Giudea, immaginando un Pilato, ormai in pensione, a curare i reumatismi dell’età presso le terme di Baia fuori Napoli, ne tratteggia magistralmente un profilo umano, inedito ma ulteriormente illuminante. Lamia, un amico di gioventù, gli chiede di quella volta che da prefetto della Giudea, dovette decidere sulla condanna a morte di un messia di nome Gesù. Ebbene, Pilato, aggrottando la fronte come per frugare e scavare nello scrigno della memoria qualche ricordo, dopo istanti di un silenzio che sembra interminabile, mormora “Jesus? Vouz avez dit Jesus de Nazareth? Je ne me rappele pass…”.

Non ricordo.

Il relativismo ha in sé il rischio di dimenticare la verità, finanche la verità storica dei fatti (l’evidenza). L’oblio che vi è connaturato talvolta è la prova indiretta che il relativismo può condurre all’ingiustizia, all’errore, a non vedere e riconoscere e tutelare la Verità e, con essa, la Giustizia. Pilato non ricorda, perché è meglio non ricordarle, certe cose.

La vicenda in esame costituisce, tra l’altro, esempio lampante del rischio insito nel processo decisionale che fondi su di un principio maggioritario e che rimarchi come l’agire democratico tenda, in re ipsa, a detestare l’affermazione di verità assolute.

Il rifiuto di verità assolute è, per Kelsen, il presupposto sotteso al dominio della maggioranza e alla dialettica tra maggioranza e minoranza, in quanto maggiormente funzionale all’ordinamento democratico-rappresentativo, basato inevitabilmente sul compromesso, sulla mediazione tra le posizioni e gli interessi molteplici conviventi nella società.

Un effetto collaterale di tale rifiuto – effetto che la storia ha più volte mostrato – si coglie quando, dal relativismo, tipico della competizione democratica tra idee e punti di vista differenti, può emergere, fino ad imporsi, un’ideologia radicale, anti-democratica, totalitaria.

In breve, se la democrazia politica riconosce la libertà politica, se si caratterizza per una visione relativista che riconosce ad ogni punto di vista di esprimersi, se si basa sul principio di maggioranza, e soprattutto se resta “fedele a sé stessa”, ossia ai suindicati caratteri, allora, allargato a tutti tale potere, anche ai gruppi anti-democratici o ai fautori di visioni assolutiste, diviene più che ragionevole ipotizzare il pericolo di derive idonee a compromettere l’esistenza stessa del regime democratico. La democrazia secondo Kelsen, deve paradossalmente “sopportare anche un movimento volto alla distruzione della democrazia, deve garantire a questo movimento, come ad ogni altra convinzione politica, le stesse possibilità di sviluppo”, con gli inevitabili rischi connessi alla sopravvivenza della stessa democrazia stessa.

I peggiori conflitti, che inficiano la pacifica convivenza nelle comunità umane, hanno spesso la loro origine proprio in divergenze sui valori ultimi che ispirano le azioni degli uomini, soprattutto in divergenze su cosa sia vero e giusto. Ebbene, secondo Kelsen, la migliore soluzione resta quella offerta dalla democrazia, come ordinamento politico e giuridico che prevede il più elevato grado di autodeterminazione tra i consociati.

Contro la democrazia si contrappone, tuttavia, una consistente barriera: la convinzione religiosa di detenere una verità assoluta e il vederla compromessa dalla deliberazione maggioritaria.

Per i cristiani, il ricorso alla folla conduce alla preferenza per il sedizioso Barabba in luogo della testimonianza di Verità dell’innocente Gesù. Può essere questo considerato di per sé un argomento contro la democrazia? Può esserlo, in particolare, solo perché intacchi ciò in cui crediamo?

Nessuno può essere sicuro della verità di una visione politica che discende dalla fede religiosa. Non vi sono prove e argomenti razionali sufficienti per questa sicurezza. Dobbiamo, di conseguenza, “accontentarci” della democrazia, che permette, nel suo ambito, la coesistenza del numero più vasto di assertori di valori politici diversi e di fedi contrapposte, purché tolleranti dell’altrui sentire.

3. Gesù, vero amico della democrazia

Le critiche contro le tesi kelseniane sono accese. Qualche tempo fa, il grande giurista Gustavo Zagrebelsky, presidente emerito della Corte costituzionale, ha definito inaccettabile la conclusione di Kelsen secondo per la quale “la democrazia, inammissibile per lo spirito dogmatico, verrebbe giustificata solo in un contesto spirituale scettico e relativistico”.

Restando nel discorso allegorico, Kelsen avrebbe frainteso: il “vero amico della democrazia” non è Pilato, ma proprio Gesù.

Pilato sarebbe un opportunista che si appella demagogicamente al popolo, anzi alla folla, per prevenire tumulti, in ultima analisi per conservare il potere. È uno scettico, essenzialmente non crede in nulla, nemmeno nella democrazia, ma sa come servirsene.

Gesù è “interamente preso dalla sua verità”, ma resta “silente” e il suo silenzio è misura della vera democrazia. Egli si mostra restio ad imporre tale verità. Punta sull’eloquenza del suo silenzio tenuto fino alla fine, cioè fino alla morte in croce.

Con stoicismo e fermezza, Gesù, durante l’intero corso del processo a suo carico, tanto di fronte al Sinedrio che ad Erode e infine a Pilato, resta fondamentalmente silenzioso, salvo pronunciare alcune asserzioni che non vengono comprese appieno dai suoi interlocutori. La sua sembrerebbe, dapprima, una strategia difensiva, anche se diversa da quella a cui si è portati a ricorrere. Persino Socrate non tace, ma si difende con ardore ed eloquenza nella sua apologia fondata sul contrasto tra verità e falsità, smontando le accuse (ingiuste) a suo carico. Di fronte all’accusa Gesù, invece, tace. Perché?

La soluzione dell’enigma è la seguente: Gesù crede tanto nella sua verità che ne diventa una personificazione. La Verità assoluta non può essere sostenuta con argomenti, perché questi possono essere ribattuti con altri argomenti, dunque relativizzati. Il silenzio è testimonianza dell’integralità della Verità che Egli, tuttavia, non impone. Anzi, accetta di tacere per far posto alla parola dell’altro e rendere possibile il dialogo e, in definitiva, il compromesso. Finanche l’ingiustizia finale. La condotta tenuta da Gesù, nel passo esaminato, sperimenta così che fede e democrazia sono compatibili. Affermare apoditticamente che in democrazia non trovino luogo le verità assolute, non può significare, per ciò stesso, rinunciare alla propria personale verità, ma essere disponibile a proporla, condividendola in un contesto civile di pubblico confronto, senza violenza o sopraffazione o intransigenza aprioristica.

La condanna di Gesù potrebbe essere un argomento solo per chi è certo della verità ed è disposto a imporla ad ogni costo. Essa allora costituirebbe la riprova storica e fattuale più convincente dell’insensatezza di rimettere al numero e alle opinioni, e quindi alla democrazia, la decisione di ciò che è vero o falso. Ma così diverrebbe solo “uno pseudoargomento che non prova nulla, né a favore né contro la democrazia”. Secondo Zagrebelsky, in sostanza, Kelsen finisce per considerare la democrazia inammissibile per lo spirito dogmatico, perché rivolgendosi alle oscillazioni e alle decisioni del numero si giustificherebbe solo in un contesto spirituale scettico. Democrazia e scetticismo verrebbero così intimamente collegati, essendo la prima esclusivamente la conseguenza del secondo.

Ma una tale conclusione unilaterale si dimostra, storicamente e razionalmente, inaccettabile. Sia l’assolutismo del dogma ad ogni costo che il relativismo più estremo possono convivere con la democrazia, ma entrambi strumentalizzandola. Sia il dogmatico che lo scettico possono apparire amici della democrazia, “ma solo come falsi amici, in quanto se ne servono”. Il dogmatico può accettare la democrazia, e servirsene, se funzionale alla verità. Lo scettico, d’altro canto, non credendo in nulla, può accettarla quanto ripudiarla secondo gli scopi che si prefigge

Restando nella vicenda evangelica, vi sono due autorità che, in qualche misura, pilotano gli eventi. Il Sinedrio, ancorato al dogma (assolutismo), ed il prefetto romano, aggrappato allo scetticismo ed all’opportunismo (relativismo). Ebbene, entrambi, in qualche misura, si rivolgono alla moltitudine e ne accettano la decisione. Siamo al cospetto di “una convergenza nella folla e partire da posizioni radicalmente opposte”.

Ma la folla è usata. Il Sinedrio intende superare i dubbi di Pilato. Quest’ultimo tenta invece di salvare Gesù, a danno di Barabba, mettendo il Sinedrio di fronte all’evidenza della scelta imposta dalla folla. Il fine ultimo verso cui sono orientate entrambe le autorità è lo stesso: mantenere l’ordine e conservare il proprio potere.

4. Conclusioni

Concludendo, una cosa è non credere a nulla, come Pilato, altra cosa è dare spazio alle credenze di tutti. La democrazia “non chiede a nessuno di rinunciare alle proprie convinzioni. Ma partendo da queste, richiede che nel dibattito pubblico i dogmi non vengano fatti valere come tali perché altrimenti le regole della democrazia si inceppano” (Zagrebelsky). In pratica, una cosa è essere relativista, altra cosa è che relativiste siano le istituzioni. Per le istituzioni, essere relativiste costituisce un valore, non un disvalore da censurare. Col suo silenzio, le accettò persino il Figlio di Dio.

Argomento contro la democrazia, semmai, sarebbe la decisione di appellarsi a una massa popolare limitata, indistinta, disinformata, manipolabile e forse manipolata. Nel vangelo di Marco, la parola in greco è ochlos, che significa quantità di gente, massa informe. Spesso è usata nell’accezione dispregiativa di plebaglia, in ogni caso non indica il popolo (demos), ma “i sostenitori di Barabba mobilitati per l’amnistia”, mentre gli amici e seguaci di Gesù “per paura rimanevano nascosti” e “in questo modo la voce del popolo su cui il diritto romano contava era presentata in modo unilaterale” (Ratzinger).

La folla che grida i crucifige! costituisce una parte e, per quanto potesse essere numerosa, una parte davvero infima del popolo tutto intero. È una massa sobillata dal Sinedrio. È palesemente ondivaga, passata nel giro di pochi giorni dagli osanna al messia alla infamante condanna. È informe ed incapace di un orientamento proprio, e dunque maggiormente esposta alle influenze esterne.

La conclusione è dunque che la folla “usata” crede di decidere, ma in realtà decide quello che altri hanno disposto per lei. Le è concessa la parola unicamente per sostenere la verità del Sinedrio o gli interessi di Pilato: “uno scontro fra due autorità autocratiche nel quale il ricorso alla folla è solo un’arma nelle mani di tali autorità”. Si è al cospetto di una falsa democrazia in cui entrambe e autorità sono, a dispetto delle apparenze, “falsi amici della democrazia perché intendono solo farsi sgabello della folla” (Zagrebelsky).

Il vero amico della democrazia resta Gesù che non impone la sua verità ma accetta la decisione delle istituzioni e della folla. Il suo tentativo silenzioso e fino alla Croce di stabilire un dialogo comprova l’intento di trasfondere ciò che costituisce un assoluto e categorico nel proprio essere e nel proprio intimo (Verità) in una proposta nella dimensione collettiva, nella quale in democrazia non c’è posto per Verità assolute ma per opinioni che si confrontano.

Ci piace credere che la sorte di Gesù sarebbe stata probabilmente diversa in un contesto realmente democratico, ove cioè fosse stato possibile il dibattito, l’analisi in buona fede dei fatti e  soprattutto la possibilità di dissentire. Gli apostoli, alcuni membri del Sinedrio stesso (Nicodemo, Giuseppe di Arimatea), tanti altri seguaci di Gesù, nella vicenda narrata, infatti, non sono messi in condizione di esprimere democraticamente il proprio dissenso, indotti al silenzio dalla paura.

La morte di Gesù, in definitiva, può sembrare un fallimento della democrazia. Ma di quale democrazia? Quella falsa, dogmatica o scettica, quella dei finti amici (Sinedrio e Pilato) che prevalse allora.

 

 

 

 

 

 


Bibliografia essenziale
Bulgakov Michail, Il maestro e Margherita, Biblioteca Universale Rizzoli, Milano, 1992.
France Anatole, Il procuratore della Giudea, Sellerio Editore, Palermo, 1980.
Kelsen Hans, I fondamenti della democrazia, Il Mulino, Bologna, 1995.
Ratzinger Joseph, Gesù di Nazaret, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano, 2011.
Zagrebelsky Gustavo, “Il crucifige!” e la democrazia, Einaudi, Milano, 1995.

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