I controlli del fornitore sull’esportatore abituale: le best practices

I controlli del fornitore sull’esportatore abituale: le best practices

Sommario: I. Introduzione – II. La disciplina normativa – III. L’orientamento giurisprudenziale – IV. La best practice da osservare nei controlli – V. Conclusioni

 

I. Introduzione

Nel 2017, il T.f.m. Group, multinazionale del settore della consulenza fiscale e assicurativa, pubblicava il “Financial complexity index 2017”, ossia una classifica dei sistemi tributari – dai più ai meno complessi – stilata in base ad un’analisi effettuata su 94 ordinamenti tributari. Anche in quell’occasione l’Italia riuscì a conquistare il podio, vincendo il premio di bronzo, preceduta da Turchia e Brasile, come ordinamento dal sistema tributario più complesso.

Una tra le varie ragioni degli esiti di questa classificazione è certamente da ricondursi alla c.d. bulimia normativa da cui fluiscono disposizioni farraginose e in perenne mutamento, così come un’altra causa va individuata nell’esasperante burocraticità che caratterizza il Belpaese. Insomma, un sistema complesso e mal organizzato che non avvantaggia né il contribuente, né lo Stato.

A rendere questo quadro ancora più contorto e sibillino, si aggiunge, inoltre, la giurisprudenza, le cui decisioni finiscono sempre di più per costituire sempre più spesso e sempre di più una funzione surrogatoria del potere legislativo, comunque, fonti normative aggiuntive, da osservarsi come proprio come accade negli ordinamenti di common law, invece di svolgere il naturale compito esegetico, d’interpretazione delle norme e di giudizio sulla loro corretta applicazione ad un caso dato.

II. La disciplina normativa

Uno degli esempi più lampanti di questa chiara tendenza delle corti italiane è riscontrabile nella delicata disciplina dei controlli che un’impresa fornitrice deve eseguire sul proprio cliente – esportatore abituale, per potergli cedere beni in regime di esenzione IVA, ai sensi dell’art. 8, comma 2, lett. c), d.p.r. 633/1972.

Come noto agli operatori, la suddetta disposizione consente di fatturare in regime di sospensione di imposta “le cessioni, anche tramite commissionari, di beni diversi dai fabbricati e dalle aree edificabili, e le prestazioni di servizi rese a soggetti che, avendo effettuato cessioni all’esportazione od operazioni intracomunitarie, si avvalgono della facoltà di acquistare, anche tramite commissionari, o importare beni e servizi senza pagamento dell’imposta”. Tuttavia, perché possa operare l’esenzione, occorre che ricorrano alcuni presupposti dettati dall’art. 1 del d.p.r. 746/1983, ossia che il beneficiario, nell’anno precedente, abbia effettuato cessioni all’esportazione per un valore superiore al 10% del proprio volume d’affari e che l’esportatore abituale dichiari di volersi avvalere della possibilità di operare in regime di esenzione, mediante dichiarazione d’intenti da presentarsi, fino al 31.12.2019, sia al fornitore che all’Agenzia delle Entrate.

Il fornitore, invece, a norma di legge, dovrebbe avere l’esclusivo dovere di riscontrare, in via telematica, che la lettera d’intenti ricevuta dall’esportatore sia stata presentata all’Agenzia delle Entrate.

Tale conclusione, peraltro, sembrerebbe confermata sia dall’art. 7, comma 3, d.lgs. 18 dicembre 1997, n. 471, sia dal recentissimo comma 4 bis del medesimo articolo. In particolare, la prima norma dispone espressamente che “Qualora la dichiarazione sia stata rilasciata in mancanza dei presupposti richiesti dalla legge, dell’omesso pagamento del tributo rispondono esclusivamente i cessionari, i committenti e gli importatori che hanno rilasciato la dichiarazione stessa”, ciò che, del resto, a cui appare conformarsi anche il comma 4 bis, che testualmente recita: “È punito con la sanzione prevista al comma 3 il cedente o prestatore che effettua cessioni o prestazioni, di cui all’articolo 8, primo comma, lettera c), del decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 633, senza avere prima riscontrato per via telematica l’avvenuta presentazione all’Agenzia delle entrate della dichiarazione di cui all’articolo 1, comma 1, lettera c), del decreto-legge 29 dicembre 1983, n. 746, convertito, con modificazioni, dalla legge 27 febbraio 1984, n. 17”.

Un ulteriore recentissimo dato normativo, l’art. 12 septies del d.l. 34/2019, indurrebbe, inoltre, a ritenere che il fornitore non sia chiamato a sostituirsi all’amministrazione finanziaria nei controlli sull’esportatore abituale. Il c.d. Decreto Crescita ha, infatti, previsto che gli esportatori abituali non siano più tenuti a consegnare al proprio fornitore la dichiarazione d’intento e la copia della ricevuta telematica di trasmissione della dichiarazione all’Agenzia delle Entrate; in questo modo il fornitore dovrà soltanto verificare che l’esportatore abbia effettivamente trasmesso la dichiarazione all’Agenzia delle Entrate.

III. L’orientamento giurisprudenziale

Nonostante il quadro normativo anzi esposto sembrerebbe essere cristallino nell’escludere qualsivoglia ipotesi di responsabilità in capo al fornitore per eventuali false dichiarazioni effettuate dal cessionario nella dichiarazione di intenti, al contrario, la giurisprudenza si attesta nel senso di ritenere il fornitore responsabile dei controlli sulla veridicità della dichiarazione di intenti presentata dall’esportatore abituale, allontanando l’ipotesi che questi possa limitarsi ad una verifica meramente formale sulla dichiarazione stessa.

È evidente che un orientamento così congegnato garantisca all’Erario il recupero dell’IVA evasa dall’esportatore, ma con indiscutibile danno per il fornitore che, in buona fede, abbia fatto affidamento sulla veridicità della dichiarazione presentata dal suo cliente, il quale si trova a subire pesanti sanzioni dall’amministrazione finanziaria non solo nelle ipotesi di collusione – e, quindi, frode – poste in essere con l’esportatore, ma, paradossalmente, anche in quelle in cui è egli stesso ad essere raggirato.

Si è, così, chiarito che la non imponibilità delle cessioni di beni asseritamente destinati all’esportazione viene meno qualora si accerti che la dichiarazione d’intenti sia ideologicamente falsa, nel qual caso l’obbligo del fornitore di assolvere successivamente l’IVA su tali beni può essere escluso solo se risulti provato che lo stesso abbia adottato tutte le misure ragionevoli in suo potere, al fine di assicurarsi che la cessione effettuata non lo conducesse a partecipare alla frode (da ultimo, Cass. Civ. sez. trib., 24/01/2019, n.1988; Cass. Civ. sez. trib., 15/05/2015, n. 9940; Cass. n. 12751 del 2011; cfr. Corte giust., 27 settembre 2007, Teleos, punti 68 e 72).

Si tratta di un principio conforme alla normativa e alla giurisprudenza europee, che impongono alle autorità e ai giudici nazionali di negare benefici ed esenzioni se il soggetto passivo sapeva – o avrebbe dovuto sapere – di partecipare, tramite le operazioni invocate, a un’evasione dell’imposta, a prescindere dall’eventuale rispetto delle condizioni formali previste dalla normativa nazionale per il regime agevolato (v. Corte giust., 18 dicembre 2014, Italmoda).

In ogni caso, si registrano, ancorché minoritari, anche orientamenti meno restrittivi, volti a limitare la responsabilità del fornitore al solo vaglio di regolarità della dichiarazione d’intenti, senza richiedere accertamenti specifici circa la loro veridicità: “Per quanto riguarda la vendita in sospensione d’imposta ai sensi del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 8 oggetto del presente giudizio, la società cedente, una volta riscontrata la conformità alle disposizioni di legge delle dichiarazioni di intento presentate dalle società acquirenti, null’altro è tenuta ad eseguire, rimanendo la responsabilità, anche penale, derivante da un’eventuale falsità di tali attestazioni totalmente a carico di chi emette detta dichiarazione” (Cassazione civile sez. trib., 10/12/2008, n.28948).

In ogni caso, ed è bene sottolinearlo, anche la giurisprudenza più sfavorevole al fornitore precisa come l’amministrazione finanziaria non possa comunque pretendere da questi accertamenti esorbitanti le proprie possibilità e capacità, sostituendosi, di fatto, alla stessa amministrazione finanziaria. Nelle pronunce, infatti, si richiama costantemente il principio per cui “l’obbligo del cedente di assolvere successivamente l’IVA su tali beni [n.d.r.: quelli destinati all’esportazione] può essere escluso solo nella misura in cui risulti provato che egli abbia adottato tutte le misure ragionevoli in suo potere, al fine di assicurarsi che la cessione effettuata non lo conducesse a partecipare alla frode” (Cass. 31.03.2015, n. 6509). Pertanto, l’obbligo di diligenza posto in capo al fornitore non può comunque tradursi in un inesigibile dovere di accurata indagine che, per legge, è invece riservata all’A.F. (Cass. Sez. trib. 23.03.2001, n. 4284).

Nel commentare queste pronunce bisognerebbe, in ogni caso, tenere conto del dato fattuale che vede l’Agenzia delle Entrate come soggetto non in grado di eseguire compiutamente tutte le verifiche che, invece, per legge sarebbero attribuite alla sua competenza, sicché è ben evidente, nell’orientamento giurisprudenziale anzi descritto, la consapevolezza della magistratura di questa incapacità dell’amministrazione finanziaria e il tentativo equivocamente surrettizio del recupero delle imposte inevase anche superando, molto discutibilmente, quel principio di legalità tributaria costituzionalmente sancito dall’art. 23 Cost..

D’altronde, il 23 gennaio 2020, il quotidiano Italia Oggi pubblicava un articolo titolato “Bandiera bianca sull’Agenzia delle entrate”1, nel quale si dava notizia di una “nota di preoccupazione”, trasmessa ai direttori regionali dell’AE, mediante la quale molti direttori provinciali hanno rappresentato l’incapacità di presidiare l’attività dell’Agenzia. Non c’è da stupirsi, quindi, se attività di controllo, normativamente di competenza dell’Agenzia, vengano delegate a soggetti privati, ancorché in palmare contratto con il dettato normativo, peraltro nuovamente modificato dal Decreto Crescita.

IV. La best practice da osservare nei controlli

Se, dunque, da un lato, appare impervia, per il fornitore, la strada per sottrarsi alle approfondite e più complete pretese verifiche, occorre, dall’altro lato, rilevare come, nella pratica, sia ostica la comprensione delle misure di controllo che il fornitore è chiamato a porre in atto, onde evitare un futuro obbligo di versamento dell’imposta scaturente dalla una falsa dichiarazione d’intenti prodotta dall’esportatore abituale.

Ponendo mente alle pronunce giurisprudenziali in materia, è, però, possibile delineare una sorta di vademecum che il fornitore dovrebbe, in ogni caso, seguire in ordine ai controlli sul cessionario che chieda di operare in regime di esenzione.

Innanzitutto, è incontestabile come una visura dell’impresa cessionaria, esportatrice abituale, possa fornire, sin da subito, un quadro complessivo sulla situazione economica dell’impresa, al fine di analizzare l’effettiva sostenibilità da parte di questa delle operazioni in regime di esenzione. Sarà, quindi, buona prassi del fornitore verificare se l’impresa sia dotata di una struttura solida, avendo riguardo, ad esempio, alla compagine societaria, al numero degli addetti e alle sedi dell’impresa, ma anche all’anzianità d’iscrizione in Camera di Commercio nonché ai bilanci depositati.

Questi ultimi, infatti, sono fortemente indicativi della società, rappresentando una cartina di tornasole rispetto all’andamento economico dell’impresa e, quindi, alla credibilità e affidabilità della stessa e costituendo elementi importanti di scandaglio circa l’ipotesi, che il fornitore verrebbe indotto a verificare, del superamento del plafond entro i cui limiti il cliente può operare in regime di esenzione.

Il fornitore, quindi, nell’interfacciarsi con clienti che richiedono di operare in regime di esenzione IVA dovrebbe sempre adottare un approccio critico in sede di verifiche, non limitandosi ad un mero riscontro formale sulla dichiarazione d’intenti.

V. Conclusioni

Auspicando un revirement giurisprudenziale, in un futuro il più prossimo, o, quantomeno, una puntualizzazione e cristallizzazione, preferibilmente in via legislativa, degli obblighi di vigilanza in capo al fornitore dell’esportatore abituale, non può in questa sede non denunciarsi l’illegittima interpretazione generalmente seguita dalla giurisprudenza rispetto ad una normativa sufficientemente chiara nell’escludere responsabilità in capo al fornitore incolpevole.


Cristina Bartelli, “Bandiera bianca sull’Agenzia delle entrate”, ItaliaOggi, 23 gennaio 2020, n. 18, pag. 28. Link: https://www.italiaoggi.it/news/bandiera-bianca-sull-agenzia-delle-entrate-2418982

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