La Cassazione conferma la predilezione per i “comparabili interni” nel transfer pricing: brevi riflessioni sulla sentenza n. 11625/2023

La Cassazione conferma la predilezione per i “comparabili interni” nel transfer pricing: brevi riflessioni sulla sentenza n. 11625/2023

Sommario: 1. Il transfer pricing ed il principio di libera concorrenza – 2. L’art. 110, comma 7, TUIR – 3. Recenti sviluppi giurisprudenziali: la sentenza n.11625/2023 della Corte di Cassazione

 

1. Il transfer pricing ed il principio di libera concorrenza

La sempre crescente rilevanza attribuita alle imprese multinazionali nel panorama mondiale, soprattutto in relazione al tema della tassazione, non ha fatto altro che accrescere l’importanza che, di pari passo, hanno avuto tutte le questioni ad esse collegate. Per la sua pericolosità, in quanto strumento estremamente duttile ed altrettanto facilmente manipolabile, il tema dei prezzi di trasferimento nell’ambito di “cross-border infragroup transactions” è stato spesso oggetto di attenzione non solo dei regolatori nazionali e sovranazionali, ma anche delle autorità fiscali e degli organi giurisdizionali. I principi guida in materia, poi recepiti e trasposti nei vari ordinamenti, sono quelli contenuti nelle linee-guida pubblicate dall’OCSE. Esse, tra le altre cose, prevedono una serie di metodi attraverso i quali alle autorità si permette di accertare ed eventualmente rettificare il reddito dichiarato alla luce del principio di “libera concorrenza”[1]. I metodi elaborati dall’OCSE ai fini della corretta determinazione del prezzo di libera concorrenza possono essere suddivisi in due macrocategorie: da un lato i metodi cosiddetti “tradizionali” e dall’altro i metodi “alternativi”. Della prima categoria fanno parte tre metodi principali, i quali guardano alla transazione in sé e prendono il nome di: “Comparable Uncontrolled Price” (CUP), “Resale Price Method” (RPM) e “Cost Plus Method” (CPM); nel secondo gruppo, invece, troviamo tutti quei metodi che guardano agli utili derivanti dalla transazione, come ad esempio il “Profit Split Method” (PSM) ed il “Transactional Net Margin Method” (TNMM).  Tra di essi non sussiste alcun rapporto gerarchico ma, anzi, è l’OCSE stessa ad incoraggiare verso la ricerca del metodo più idoneo in relazione al caso da esaminare. Tuttavia, risulta evidente che i metodi tradizionali, in quanto diretti all’analisi delle transazioni stesse e non degli utili che ne derivano, debbano essere considerate come più diretti, o comunque più immediati, poiché grazie ad essi si può procedere ad una sostituzione automatica dell’“arm’s length price” rispetto al prezzo dichiarato dalle “tested parties”. Il primo dei metodi tradizionali è il “metodo del confronto del prezzo” (anche detto “CUP” nella definizione inglese), in base al quale si procede direttamente al confronto fra il prezzo praticato fra le “related parties” e quello che, invece, viene praticato in una transazione non controllata, cioè fra soggetti indipendenti. In tal senso, come esposto in precedenza, l’analisi può seguire la normale strada del confronto interno, qualora sussistano anche transazioni comparabili che l’impresa esaminanda ha realizzato con terze parti, o si deve ricorrere alla strada del confronto esterno qualora tali condizioni non sussistano; in quest’ultima ipotesi si guarderà al prezzo normalmente praticato fra imprese indipendenti che operano sul mercato in condizioni analoghe. Proprio per le sue caratteristiche, il “CUP” risulta essere particolarmente sensibile alle differenze circa le caratteristiche dei prodotti, le quali risultano essenziali ai fini della determinazione del prezzo. Pertanto, questo metodo è particolarmente usato quando si tratta di transazioni relative a beni materiali o royalties. Al fine di poter operare una stima corretta degli elementi essenziali che porteranno poi alla determinazione del prezzo di libera concorrenza, così come definito dall’OCSE, gioca un ruolo fondamentale la cosiddetta “analisi di comparabilità”. È chiaro, infatti, che l’opera di rettificazione dei prezzi sia tutt’altro che scevra da difficoltà e che anzi richieda la sapiente individuazione degli aspetti che determinano il funzionamento del gruppo, nonché del ruolo assunto dalle imprese coinvolte nelle transazioni da esaminare. L’analisi di comparabilità, dunque, parte dalla determinazione delle funzioni svolte da ciascuna impresa e dai relativi rischi assunti e prosegue con il confronto fra le “controlled transactions”, cioè realizzate fra le imprese appartenenti allo stesso gruppo, con le “uncontrolled transactions”, ossia quelle poste in essere dall’impresa esaminanda con altre imprese indipendenti in circostanze comparabili. In realtà, il confronto può essere tanto “interno”, cioè come quello appena descritto ove si prendono in considerazioni altre transazioni comparabili concluse dalla stessa impresa, quanto “esterno”, in riferimento ai casi in cui, non essendo disponibili le transazioni di cui sopra con le quali effettuare un adeguato confronto o essendo esse in numero eccessivamente esiguo, si procede all’analisi di operazioni realizzate in circostanze comparabili ma tra imprese esterne al gruppo. In aggiunta, perché si possa procedere ad un confronto soddisfacente, è necessario che siano verificate due ulteriori condizioni: a) non devono sussistere differenze tra le transazioni esaminate che potrebbero influenzare in modo sostanziale sui fattori dei quali è necessario tener conto in relazione alla metodologia adottata; b) al fine di eliminare alcune delle conseguenze dovute all’esistenza delle differenze di cui sopra, è comunque possibile il ricorso a “correzioni economicamente accettabili”[2].

2. L’art. 110, comma 7, TUIR

Il tema dei prezzi di trasferimento nell’ambito di “cross-border infragroup transactions”  ha ricevuto un’attenzione particolare anche da parte del legislatore italiano, il quale, seguendo la strada già tracciata dall’OCSE, ha inteso predisporre una apposita normativa, volta ad evitare che le stesse imprese potessero sfruttare a loro vantaggio vuoti normativi o la disattenzione delle autorità fiscali, dotando queste ultime di adeguati strumenti di contrasto. La disciplina relativa ai prezzi di trasferimento è stata pertanto inserita nell’articolo 110, comma 7, del TUIR, in cui vengono esplicitati i presupposti soggettivi e oggettivi di applicazione. In base al testo del predetto articolo, la normativa sul transfer pricing in Italia trova applicazione nel caso in cui vengano realizzate transazioni commerciali tra un’impresa residente ed una società non residente, tra le quali sussista un rapporto di controllo. Al riguardo, nonostante la formulazione della norma possa sembrare apparentemente chiara, alcune precisazioni si rendono necessarie. Innanzitutto, quanto al concetto di “impresa residente”, ogni dubbio circa la portata della definizione viene risolto dall’Agenzia delle Entrate che, con apposita circolare, ha precisato che il termine impresa vada inteso nella sua accezione più ampia e che quindi la disciplina si applichi a “tutti i soggetti residenti nel territorio dello Stato indipendentemente dalla loro forma giuridica”; ciò che rileva ai fini tributari è piuttosto la necessaria produzione di “reddito di impresa”, in quanto si tratta di transazioni commerciali. Per quanto attiene, invece, alla controparte della transazione, ossia al soggetto non residente nel territorio italiano, è evidente l’ambiguità del dettato normativo che rinvia al concetto di “società non residente”, in maniera difforme da quanto asserito in relazione al soggetto residente a cui ci si era riferiti con il termine “impresa”. Da qui il dibattito dottrinario sull’inclusione o meno, nell’ambito del campo di applicazione della normativa, di quei soggetti non residenti che abbiano una veste giuridica diversa da quella societaria. Secondo l’interpretazione prevalente, comunque, devono essere inclusi, in maniera speculare a quanto deciso per l’impresa residente, tutti i soggetti esteri, indipendentemente dalla forma giuridica assunta[3].

3. Recenti sviluppi giurisprudenziali: la sentenza n.11625/2023 della Corte di Cassazione

Recentemente, la Cassazione, con la sentenza n. 11625 del 04.05.2023, si è espressa sulle modalità con cui procedere ad una corretta analisi di comparabilità propedeutica alle rettifiche reddituali derivanti dalla disciplina del transfer pricing. Il giudizio esaminato nel presente scritto trae origine da un accertamento sui redditi dichiarati da un’impresa italiana, facente parte di un gruppo multinazionale, nel 2005. La questione, in particolare, verteva sulla deducibilità o meno di interessi relativi ad un finanziamento concesso dalla società tedesca a quella italiana, esclusa dall’Agenzia delle Entrate sulla base di una presunta violazione della disciplina di cui all’art. 110, comma 7, del TUIR. La decisione della Suprema Corte, intervenuta a ribadire in parte quanto già espresso nei precedenti gradi di giudizio, assume una notevole importanza poiché ribadisce alcuni principi fondamentali in materia di transfer pricing, utili tanto per l’Amministrazione finanziaria quanto per il contribuente.  In particolare, di fondamentale importanza è la valutazione della Cassazione sull’utilizzo del metodo del CUP: la Corte, procedendo ad un’attenta analisi della normativa sui prezzi di trasferimento, ha infatti rimarcato che, dall’analisi dell’articolo 9 del DPR 617/1986, emerge una chiara predilezione verso l’utilizzo di “comparabili interni” quando la valutazione da compiersi verte sulla corresponsione di eventuali interessi. In tal senso, i giudici della Suprema Corte hanno evidenziato come, in assenza di specifiche ragioni relative al caso concreto, le quali tra l’altro dovrebbero essere comunque debitamente motivate, l’Agenzia delle Entrate non possa arbitrariamente utilizzare i “comparabili esterni”, rilevando in tal senso un primo e decisivo errore ai fini del giudizio sulla validità della contestazione mossa da quest’ultima all’impresa. Inoltre, in sede decisionale la Suprema Corte ha anche inteso ribadire che, alla luce della normativa interna e delle linee guida elaborate dall’OCSE, la scelta del metodo più appropriato dipende strettamente dalle circostanze che riguardano la transazione contestata e che tale analisi non possa prescindere dalle caratteristiche proprie dei comparabili interni e esterni; a giudizio della Cassazione, infatti, non può e non deve essere sottostimato il vantaggio di compiere valutazioni e confronti basati su comparabili interni, soprattutto in quanto essi consentono di avere accesso ad una maggiore quantità di informazioni e di prendere coscienza delle ragioni che si celano dietro ad una determinata transazione, analizzando bisogni e disponibilità propri delle imprese che fanno parte di quel determinato gruppo multinazionale. Ai comparabili esterni, invece, deve essere riconosciuta più che altro una funzione suppletiva, volta a rimediare all’assenza di informazioni fondamentali internamente al gruppo e a permettere all’Amministrazione finanziaria di procedere comunque al controllo del rispetto del principio di libera concorrenza. In definitiva, l’uso dei comparabili interni deve essere preferito perché più specifico e chiaro, in quanto idoneo a valorizzare la realtà del gruppo al cui interno le transazioni si sono verificate, nonché strumentale a ridurre le differenze esistenti tra le caratteristiche e le disponibilità delle varie società, dovendosi altresì sempre tener presente che la realtà degli scambi di beni e servizi infragruppo potrebbe essere notevolmente differente rispetto a quella praticata nell’”open market”.

 

 

 

 

 

 


[1] L’“arm’s length principle”, adottato praticamente in tutte le Convenzioni contro le doppie imposizioni stipulate dai Paesi OCSE, prevede che – ai fini fiscali – l’allocazione del reddito relativo ad operazioni tra soggetti appartenenti al medesimo gruppo multinazionale, debba essere effettuata secondo “modalità applicabili tra soggetti terzi indipendenti, operanti in circostanze comparabili”. “Scopo di tale previsione è di evitare che le imprese multinazionali pervengano, attraverso una sovrastima o sottostima dei prezzi, al trasferimento di porzioni di reddito imponibile in Stati a più bassa fiscalità. Tale principio, assunto alla stregua di principale driver di valutazione delle transazioni infragruppo, si contrappone all’approccio statunitense cd profit sharing, ove i prezzi relativi a transazioni infragruppo dovevano essere valutati in ragione del valore normale, determinato in base ai metodi ammessi dall’Amministrazione Finanziaria statunitense con riferimento alle singole transazioni”, così VALENTE P., Manuale del Transfer Pricing, IPSOA, 2021, p.22.
[2] La comparabilità è dunque l’elemento cardine della fattispecie, tanto che l’OCSE, nelle guidelines più volte menzionate, ha anche individuato cinque “fattori di comparabilità” in base ai quali è possibile determinare il grado di affinità delle transazioni in esame, alla ricerca del giusto “comparable”. Essi sono:
1) caratteristiche dei beni e servizi oggetto della transazione: per determinare correttamente il valore di un bene o di un servizio non si può prescindere da una attenta analisi delle caratteristiche degli stessi. In particolare, nell’ambito dei beni la distinzione più netta è quella tra beni materiali e immateriali; nel primo caso, infatti, sarà necessario concentrarsi sulle caratteristiche fisiche degli stessi, a cui vanno inevitabilmente aggiunte le valutazioni relative alla loro reperibilità e disponibilità sul mercato, nonché alla loro qualità e al volume delle transazioni che generalmente li riguardano. Per quanto concerne i beni immateriali, invece, l’analisi sarà incentrata all’individuazione della forma giuridica della transazione, della tipologia di bene (brevetto, marchio, know-how, ecc..), nonché alla durata prevista e al grado di protezione offerto. Per i servizi, infine, si guarderà a concetti quali la natura dello stesso e, ancora, alla durata del contratto e alla tipologia;
2) l’analisi funzionale: tale analisi, alla quale abbiamo già accennato, risulta di fondamentale importanza poiché permette l’individuazione del ruolo assunto dall’impresa, sia in relazione alla transazione esaminata che nel contesto della catena di produzione del gruppo stesso. In altri termini, è attraverso tale analisi che si determina il ruolo dell’impresa nella “value chain” e dunque la remunerazione che le spetta in relazione a funzioni svolte, rischi sopportati ed asset impiegati;
3) le condizioni contrattuali della transazione in esame: seguendo quanto previsto dalle linee guida OCSE, qualora risultino dei contratti scritti allora è da questi che deve partire l’analisi di responsabilità, rischi e funzioni delle parti. Dunque, è da qui che si parte per poi valutare se, in base alla loro effettiva condotta, le parti si siano attenute o meno alle condizioni sottoscritte. Al contrario, in assenza di esse, l’analisi si concentrerà direttamente sul dato fattuale rappresentato dalla condotta avuta dalle parti;
4) il contesto economico: il quadro economico in cui le operazioni vengono realizzate non deve essere sottovalutato ma, anzi, riveste importanza centrale nell’analisi poiché “a parità di condizioni economiche i prezzi di libera concorrenza variano in funzione del mercato”;
5) le business strategies: in ultima istanza, anche concetti quali lo sviluppo e l’innovazione tecnologica o il tentativo di penetrazione in un mercato di nuova emissione, sono aspetti che vanno adeguatamente considerati. In sostanza, nel procedere ad un’attenta analisi, non si può prescindere dal considerare eventuali politiche di espansione o di difesa della quota di mercato perseguite dal gruppo multinazionale o dall’impresa stessa. A tal fattori si affiancano, inoltre, il grado di diversificazione della produzione, il clima politico, l’apparato burocratico ed eventuali situazioni di instabilità ad esso connesse.
[3] DELLA VALLE E., Il Transfer Price nel sistema di imposizione sul reddito, Rivista di diritto tributario n.19/2009.

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