L’accertamento basato sul Redditometro non viola la privacy del contribuente

L’accertamento basato sul Redditometro non viola la privacy del contribuente

La Corte di Cassazione con l’ordinanza n° 17485 dello scorso 4 luglio 2018 ha accolto il ricorso presentato dall’Agenzia delle Entrate contro la decisione del tribunale di Napoli che limitava le sue prerogative relativamente all’attività di ricerca e trattamento dei dati per gli scopi precipui dello strumento accertativo, cioè la determinazione del reddito complessivo del soggetto controllato. Questo in quanto l’attività di controllo e accertamento del Fisco è strettamente regolata dal norme imperative.

I presupposti di fatto della decisione della Corte

La vicenda trae origine da un ricorso di un contribuente al Tribunale di Napoli che lamentava la lesione del suo diritto alla privacy a causa dell’applicazione del Decreto ministeriale 24 dicembre 2012 contenente la disciplina del Redditometro. Più precisamente, il Dm 24 dicembre 2012, costituito da soli 5 articoli, disciplina il “Contenuto induttivo degli elementi di capacità contributiva sulla base dei quali può essere fondata la determinazione sintetica del reddito”.

Il contribuente, ovviamente, chiedeva che l’amministrazione finanziaria interrompesse i comportamenti accertativi e qualunque tipo di raccolta dei dati e informazioni. Come anche dal monitorare le movimentazioni e le spese effettuate dal contribuente e, nello stesso tempo, archiviare le informazioni suddette. Gli Ermellini hanno completamente ribaltato la decisione del Tribunale di merito partenopeo.

Le ragioni del ricorso dell’Agenzia delle Entrate

L’amministrazione finanziaria ha presentato ricorso in Cassazione contro la sentenza dei giudici di merito basando la propria azione su una serie di ragioni giuridiche e fattuali che, sinteticamente, elenchiamo ed esplicitiamo di seguito.

Innanzi tutto, l’Amministrazione finanziaria sosteneva l’inammissibilità della domanda giudiziale in quanto il giudice di merito partenopeo avrebbe sorpassato i limiti della sua potestà giurisdizionale. Infatti, il giudice oltre a intimare all’Agenzia delle Entrate di disapplicare il Dm 65648/2012 avrebbe imposto anche di non intraprendere le azioni accertative.

In secondo luogo, l’amministrazione finanziaria avrebbe sollevato l’incompetenza del Tribunale di Napoli sia dal punto di vista territoriale ma anche funzionale e, in ultima istanza, inderogabile rispetto al Tribunale di Roma. Questo, infatti, avrebbe dovuto essere competente per il giudizio in quanto il titolare del trattamento dei dati, in questo caso l’Agenzia delle Entrate, aveva residenza legale nella Capitale. Per di più, l’elaborazione dei dati avveniva, di fatto, negli uffici romani dell’Agenzia delle Entrate.

In terzo luogo, l’Agenzia delle Entrate evidenzia come il Tribunale partenopeo abbia errato affermando che sarebbero stati violati o falsamente applicati gli articoli 53 Cost sulla capacità contributiva e progressività delle imposte, l’articolo 101 Cost sulla responsabilità generale dei magistrati di fronte alle legge.  Non solo, ma sarebbero stati erroneamente interpretati dal Tribunale di Napoli anche  le norme del Dpr 600/73 che regolano sia l’accertamento sintetico puro che, più specificamente, quello redditometrico. Cioè l’articolo 38commi 4 e 5. Nello specifico, per l’amministrazione finanziaria, deve essere esclusa qualsivoglia tutela preventiva contro le disposizioni del Dm 24 dicembre 2012, in quanto non è in base a questo che viene avviata l’attività di accertamento. Inoltre viene fatto rilevare che il bene giuridico esposto a rischio non rientra nei diritti della personalità.

Le motivazioni della decisione della Corte di Cassazione

A parte un rilievo procedurale relativamente al ricorso immediato al giudice di legittimità successivamente al primo grado di giudizio per tutte le controversie vertenti sull’applicazione del codice  in materia di protezione dei dati personali, gli Ermellini fanno notare come il potere dell’Agenzia delle Entrate di procedere ad attività di accertamento deriva non dal Dm 24 dicembre 2012 che disciplina, esclusivamente, le modalità di trattamento dei dati, ma proprio dall’articolo 38 del Dpr 600/73 e, più in generale, sulla potestà impositiva dell’amministrazione finanziaria basata sull’articolo 53 Cost.

Se anche, secondo la Corte, si facesse riferimento all’articolo 7 del dlgs 196/2003 per sostenere il trattamento illegittimo dei dati personali, gli Ermellini fanno notare come questa disposizione protegge, esclusivamente, il trattamento di dati specifici e non della generalità dei dati personali genericamente identificati. Una possibilità del genere, in capo al contribuente, impedirebbe all’amministrazione finanziaria di esercitare le potestà ad essa attribuite dalla legge. Di conseguenza, il Supremo Giudice ha accolto il ricorso dell’Agenzia delle Entrate e cassato la decisione del tribunale di merito.


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