L’affidamento etero-familiare. Cosa c’è prima della vera e propria adozione e quali sono gli aspetti critici: un’analisi d’insieme

L’affidamento etero-familiare. Cosa c’è prima della vera e propria adozione e quali sono gli aspetti critici: un’analisi d’insieme

Presupposto indefettibile dal quale occorre partire è che l’adozione – piena – rappresenta a oggi una extrema ratio, il che vuol dire potere/dovere del giudice di ricorrere alla stessa esclusivamente nell’ipotesi in cui tutti gli strumenti di sostegno ovvero gli interventi a opera delle istituzioni[1] – predisposti dal nostro legislatore – non abbiano sortito l’effetto sperato.

Invero, come  ben argomentato dal Battelli, <<se già l’introduzione della legge del 1983 ha portato in primo piano il diritto del minore ad una propria famiglia, ponendo l’accento sugli interventi di sostegno, tale profilo è stato ancor più evidenziato dalla riforma del 2001, che ha cambiato la stessa intitolazione della legge (non più “Adozione”, ma “Diritto del minore ad una famiglia”), prevedendo garanzie processuali più efficaci e ha sottolineato l’obbligo positivo degli enti locali di farsi carico delle situazioni di disagio familiare per rendere effettivo il diritto del minore alla propria famiglia.>>[2]

Ruotando oramai tutta la normativa attorno all’interesse preminente del minore, si è avuto modo di constatare come – salvo ipotesi particolarmente gravi, quali abbandono o maltrattamenti – il primo sia rappresentato dall’esigenza di far crescere il bambino nella propria famiglia d’origine[3]. Difatti, il primo passo da compiere è quello di verificare la situazione familiare in cui versi lo stesso: se le condizioni di vita sono peculiari ma non disastrose e i genitori decidano di collaborare, si ammette in prima battuta l’intervento dei servizi sociali[4]. Questi ultimi, hanno quale obiettivo quello di intervenire a sostegno e tutela dell’intero nucleo familiare di modo da dar beneficio – indirettamente, invero anche direttamente – al minore stesso, garantendogli una continuità affettiva – ma anche pratica e materiale – con il proprio nucleo d’origine[5].

Non sempre però i genitori posseggono una simil capacità di coordinamento con chi tende loro la mano[6], non solo: è altresì probabile che le difficoltà che hanno richiesto un intervento esterno siano particolarmente gravose ma non definitive. Il discrimine fra affidamento e adozione è proprio costituito dalle differenti condizioni che ne rappresentano i presupposti: il secondo istituto interviene a oggi allorché le condizioni di difficoltà siano tali da non poter essere in alcun modo superate.

Per comprendere a pieno l’importanza dell’istituto quale intervento preliminare atto a evitare qualsivoglia brusca interruzione con il proprio filo rosso, meritano menzione le “Linee di indirizzo per l’affidamento familiare”[7] nate nell’ambito di un progetto più ampio tendente a far comprendere, su tutto il territorio nazionale, l’importanza dell’affidamento a tutti i soggetti coinvolti dall’esperienza (precipuamente genitori e minore). Fondamentali – poiché sintesi di ciò che si propone l’istituto – sono le “idee di riferimento” nella parte preliminare dell’opera, riportate integralmente di seguito:

<<- l’affidamento familiare si fonda su una visione positiva delle possibilità di cambiamento delle persone e in particolare dei bambini, concezione validata empiricamente dalle positive esperienze realizzate negli ultimi decenni e dai recenti studi sulla resilienza, che dimostrano che i bambini possono far fronte in maniera positiva a eventi traumatici di varia natura e intensità quando sono sostenuti da una rete sociale all’interno della quale sviluppano relazioni interpersonali significative e di effettivo sostegno alla crescita;

– la rilettura del principio del “supremo interesse del bambino” alla luce dell’importanza dei legami e delle relazioni;

– il fine ultimo dell’affidamento familiare è riunificare ed emancipare le famiglie, non quello di separare e può essere utilizzato anche per prevenire gli allontanamenti;

– l’affidamento familiare si configura come strumento di aiuto che supera la logica del controllo e della sanzione, soprattutto nei confronti della famiglia che va sostenuta nell’esercizio dei suoi diritti e delle sue responsabilità;

– il bambino, i suoi genitori – nella loro qualità di soggetti dell’intervento, portatori di risorse, piuttosto che oggetti di diagnosi e cura – gli affidatari, gli operatori dei diversi servizi implicati costituiscono il quadro unitario dei decisori e dei partner dell’intervento;

– l’affidamento familiare implica una reale sussidiarietà in cui i servizi pubblici e del privato sociale e le espressioni formali e informali della società civile si integrano reciprocamente nel rispetto delle specifiche competenze.>>[8]

Orbene, quali sono a questo punto i caratteri fondamentali dell’affidamento?

S’è già anticipato: le situazioni di disagio familiare sono molteplici e non sempre irrimediabili, anzi. È un compito arduo e pressoché inutile incasellare la realtà in fattispecie tipizzate poiché la realtà stessa è un continuo divenire e il nostro legislatore è chiamato a tener conto non solo dei mutamenti ma anche – e soprattutto – delle diverse sfaccettature di ogni situazione che – di per sé stesse– non possono mai esser uguali (solo talvolta e, apparentemente, simili) alle altre. Esiste però una certa gradazione di gravità e di intensità che può essere adoperata quale metro di giudizio: condizioni temporanee e non particolarmente gravi – non per il minore ma sul minore[9] – come malattie del genitore che ne impediscono per forza di cose[10] una cura maniacale psicofisica del bambino, nonché un intervento infruttuoso da parte delle istituzioni, non consentono di procedere all’adozione del minore ma – sempre nell’ottica di una sua protezione – permettono piuttosto di procedere all’allontanamento dello stesso dal suo nucleo di origine attraverso l’affidamento a una nuova famiglia ovvero a persona singola ovvero ancora a soggetti-istituzioni come le comunità di tipo familiare. (ex art. 2, l 184/1983)[11].

Naturalmente, come temporanee sono le condizioni che danno vita all’affidamento, specularmente, temporaneo è anche l’allontanamento stesso: le istituzioni devono agire in tal caso principalmente con una serie di interventi sugli stessi genitori di modo da eliminare ogni ostacolo a una serena e fruttuosa vita insieme.

Come già anticipato, relativamente all’individuazione dei soggetti affidatari, l’art 2 della citata legge 184/1983, crea una sorta di scala di preferenze: anzitutto è necessario verificare l’esistenza e la disponibilità di una famiglia[12], preferibilmente con figli minori, asserisce la norma. A parere di chi scrive, la ratio appare essere abbastanza intuitiva: non far sentire, nei limiti del possibile, il peso di un mutamento così grande che il minore si sta accingendo ad affrontare. Difatti, per quanto si possa trattare di una mera misura temporanea, l’allontanamento dal proprio focolare domestico rappresenta pur sempre un microtrauma che non sempre è semplice da superare[13]. Di certo diverso è vivere uno spaccato della propria esistenza in un contesto che il minore senta, a suo modo, come “amico” – proprio perché a sua volta trattasi di famiglia – grazie anche alla presenza di soggetti minori con cui instaurare dei nuovi e proficui legami affettivi.

La norma pone poi al secondo posto una persona singola e, solo nell’ipotesi di mancanza di una ovvero dell’altra ci si può rivolgere a una comunità di tipo familiare. Su cosa debba intendersi per comunità pare non esserci alcun dubbio: si tratta di quegli ambienti che tentano di riprodurre quello familiare, composti da una pluralità di minori e da una pluralità di figure professionali, che cercano di far crescere e maturare il minore – cercando di offrire loro anche gli strumenti necessari – esattamente come lo si farebbe in una vera famiglia. Mentre chiaro è cosa siano queste comunità, meno chiaro è il come si vive all’interno di una comunità familiare e cioè, si tratta di ambienti che assumono veramente le sembianze di una famiglia? Cosa ne pensano i minori che vi hanno veramente vissuto?

A tal proposito, le testimonianze rese da chi ha “soggiornato” per diverso tempo in una comunità appaiono essere, a parere di chi scrive, esaurienti risposte ai quesiti sopra esposti. Invero, a dar voce alla storia di molti ragazzi è stata la Consulta delle Associazioni e delle Organizzazioni, istituita presso l’Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza che ha optato per l’ascolto non solo dei minori ma anche degli operatori collocati in queste strutture – soggetti gravati da un compito particolarmente complesso sotto innumerevoli punti di vista. Ciò che emerge a chiare lettere è l’esigenza di vivere in un luogo che sia una vera e propria casa, capace di scaldare nei momenti di buio e di accogliere le richieste che qualsiasi bambino rivolgerebbe ai propri genitori, se vivesse con loro: dalla preparazione del piatto preferito all’invito dell’amico del cuore per i giochi pomeridiani.  “Come afferma Giacomo: <<All’inizio un po’ ci si vergogna di dire che siamo in comunità perché la gente ti guarda come un marziano e quasi ha paura. Poi quando vengono in comunità dicono: “ma è una casa! Hai la tua stanza, non ci sono le sbarre!>>[14]

Ed emerge con ancora più vividezza l’esigenza che gli operatori che si ritrovano a contatto con loro siano pronti all’ascolto e capaci di dire anche i no. “Angelo racconta: <<Sono sempre presenti e non in balia dei nostri voleri, ma attenti ad ascoltare i nostri bisogni” (…) afferma Andrea.”  “Luca, invece, sottolinea come <<il lavoro dell’educatore non è come fare l’operaio. L’educatore deve tenerci al suo posto, deve tenerci ai ragazzi, al rapporto con loro. Non ti deve tradire mai, anche se lo mandi a quel paese. Ecco: un buon educatore deve essere così>>. Anche Fabrizio spiega che <<gli educatori non lavorano e basta. Anche se non è di turno, ti pensa e fa delle cose per me e se lo chiami viene>>.[15]

Non mancano poi i racconti legati alle difficoltà ma anche alle seconde opportunità di vita che le comunità – e soprattutto chi ne fa parte, gli educatori – riescono a regalare: Scrive Marisa: <<Quando sono arrivata in comunità ero cicciottella e timida e a volte non tornavo a casa a dormire. Il primo giorno mi sono chiusa in camera, perché mica ti puoi fidare subito delle persone, è anche sbagliato. A casa mia è sempre stato un casino e ci si vuole bene a modo nostro (…). Io credo che mi sono salvata, i miei fratelli no”.>>[16]

Ancora e infine, non manca chi quella situazione non l’ha mai accettata, neppure a esperienza conclusa, così Giuseppe: <<Quando mi hanno detto che sarei entrato in comunità sono scappato. Mi hanno ripreso i carabinieri e gli educatori. Mi sentivo come un eroe braccato. Ci sono stato bene da subito in comunità ma non mi ci sono mai abituato. Sono scappato tante volte e sono sempre venuti a cercarmi. Non i carabinieri però: ti senti meglio se ti cerca qualcuno con cui vivi.>>[17]

Da quanto su esposto a chi scrive appare più chiaro: le comunità familiari sono organizzate in modo tale da non far mai sentire al minore di esser solo o in un contesto diverso da quello della famiglia. Di certo però, ogni situazione è a sé e non sempre si possiede una maturità tale che faccia comprendere l’importanza delle seconde possibilità. Il ruolo di chi allontana i figli dai genitori è sicuramente fra i più difficili che esistano ma, nella maggior parte dei casi (seppur non in tutti), l’intenzione è quella di ricostruire in itinere una famiglia ancora più solida e ricca della precedente.

Si fa infine riferimento all’inserimento in istituto di assistenza pubblico o privato ma, come expressis verbis disposto dalla stessa norma, tale modalità di affidamento è oramai superata considerata la disposizione di “trasformare” i ricoveri in istituto entro il 31 dicembre 2006 in affidamento ad una famiglia e, ove ciò non sia possibile, mediante inserimento in comunità di tipo familiare caratterizzate da organizzazione e da rapporti interpersonali analoghi a quelli di una famiglia[18].

Da un punto di vista pratico, è il servizio sociale locale a disporre l’affidamento etero-familiare[19] attraverso un provvedimento, reso successivamente esecutivo dal giudice tutelare e previo il consenso dei genitori ovvero di chi, fra i due, detiene al momento la responsabilità genitoriale ovvero del tutore[20].  Viceversa, laddove il consenso dovesse mancare – ma anche nell’ipotesi di contrasto fra i due circa la decisione da assumere – sarà il Tribunale per i minorenni[21] ad adottare il provvedimento all’uopo necessario[22] – che potrà contestualmente pronunziarsi circa la decadenza della responsabilità genitoriale avverso genitori che trascurino i loro doveri e abusino invece dei loro poteri con grave nocumento al minore.[23] In ambedue i casi è sempre fondamentale l’audizione del minore che abbia compiuto i dodici anni di età ovvero, se di età inferiore, se possegga in ogni caso capacità di discernimento.

Interessante è porre l’accento sul contenuto del provvedimento (ex art. 4, co. 3, l. 184/1983[24]) il quale deve contenere dettagliamene i motivi[25] che hanno indotto a ritenere necessaria una simil misura di allontanamento, le modalità attraverso le quali i soggetti affidatari dovranno esercitare i poteri loro conferiti, i tempi presumibili di durata della misura, un dettagliato programma di recupero della famiglia d’origine atto a far cessare i motivi del contendere nonché i modi attraverso i quali garantire la prosecuzione del legame affettivo fra la famiglia d’origine e il minore (si ricordi che obiettivo ultimo dell’affidamento è il reinserimento di quest’ultimo nel proprio nucleo).

A parere di chi scrive, meritano una più accurata esposizione taluni aspetti dei testé citati. Anzitutto, gli affidatari sono equiparati ai genitori – in termini di poteri/doveri – nelle more dell’affidamento?[26]

Dal punto di vista dei doveri, gli affidatari sono tenuti a far vivere sotto il proprio tetto il minore, mantenendolo[27] e a garantirgli un’istruzione ed educazione adeguata, seguendo quanto impartito dai genitori che non abbiano nel frattempo perso la responsabilità genitoriale. V’è da specificare che agli affidatari sono rimesse, dal punto di vista dei poteri, le decisioni attinenti al vivere quotidiano del minore quali – come expressis verbis disposto dall’art. 5, co. 1, della citata l. – gli “ordinari rapporti con la istituzione scolastica e con le autorità sanitarie”. Purtuttavia, l’assunzione di scelte di rango superiore rimane nella piena disponibilità dei genitori che, negli esempi su esposti, mantengono il potere di scegliere, in raccordo con il minore, l’indirizzo di studi più adeguato alle proprie capacità naturali ovvero il potere di scegliere quale percorso di cure predisporre nell’ipotesi di malattia del figlio.

Innovando poi rispetto alla disciplina precedente, l’art 5, co. 1. della citata legge, prevede il coinvolgimento degli affidatari in varie procedure.[28] Si pensi così, a titolo esemplificativo, all’ipotesi in cui il minore venga, nonostante la fase dell’affidamento, ritenuto adottabile poiché le situazioni che ne avevano legittimato l’allontanamento non sono né cessate, né mutate ma anzi peggiorate drasticamente. In tal caso, il Tribunale per i minorenni deve considerare il rapporto d’amore instauratosi in itinere con la famiglia affidataria e deve a pena di nullità convocarli, in tal caso, nell’aperto procedimento di adozione, avendo altresì possibilità di presentare memorie scritte nell’interesse preminente del minore. Tale spinta innovatrice si deve alla giurisprudenza creatrice della corte EDU[29]; importante è qui incastonare la casistica per meglio comprenderne, pragmaticamente, l’evoluzione: così, nel caso Moretti e Benetti c. Italia, un minore veniva abbandonato appena dopo la sua nascita e dato in affidamento temporaneo alla coppia di coniugi di cui sopra. Gli stessi, avevano nel frattempo avanzato domanda di adozione ma questa veniva analizzata con imperdonabile ritardo e anzi, nel frattempo, il minore veniva dichiarato adottabile con affidamento a nuova coppia. È a tal punto che proponendo ricorso avverso una simil decisione, la Corte EDU riconosceva la violazione dell’art. 8 della CEDU essendo “notamment regrettable” che la domanda proposta dalla coppia non fosse stata anzitempo esaminata e fosse stata rigettata successivamente senza apparente idonea motivazione.

Difatti, a parere di chi scrive, “particolarmente deplorevole” appare, nel caso di specie, il non tener minimamente in considerazione – in procedimenti così delicati – non solo l’interesse del minore che, essendo neonato, avrà maturato un attaccamento materno e simbiotico con la donna ma anche, e di pari, l’interesse della coppia che avrà considerato a tutti gli effetti quel bambino come figlio. Quello che appare, è il considerare tali situazioni come mere pratiche burocratiche da portare a termine senza alcuna – dovuta – attenzione agli aspetti emozionali che queste recano con sé.

L’affidamento familiare ha, infine, una durata massima di 24 mesi. Cessa attraverso l’adozione di un provvedimento da parte della medesima autorità che lo ha adottato o allo scadere del termine indicato nell’originario provvedimento ovvero anzitempo: nelle ipotesi cioè in cui siano venute meno le condizioni che ne avevano legittimato l’allontanamento ovvero nell’ipotesi in cui la prosecuzione della misura rechi pregiudizio al minore. Per gli stessi motivi, a contrario, è possibile procedere con una proroga che non potrà, inevitabilmente, prolungarsi sine die e questo perché verrebbe meno il carattere principale stesso della misura, la temporaneità. Ma non solo: si produrrebbe un effetto contrario sul minore che ha bisogno, se le condizioni sono cessate, di ristabilire un contatto di quotidiano vivere con la sua famiglia ovvero di ricostruire un legame familiare stabile e duraturo con un nuovo nucleo (in tal senso si dovrà procedere con la dichiarazione di adottabilità).[30]

Da quanto su esposto, appare chiara l’esigenza di evitare la cronicizzazione dell’affidamento etero-familiare. Dal presupposto che lo aveva reso possibile – la temporaneità del disagio familiare – si ricava conseguentemente la brevità della misura.

Purtuttavia, in innumerevoli casi[31], i Tribunali per i minorenni hanno spesso abusato della possibilità di proroga, producendo un affidamento indeterminato, senza non poche conseguenze.

Basti solo in tal senso ricordare che un affidamento che si prolunghi sino alla maggiore età del soggetto affidato potrebbe solo che rivelarsi contrario al suo interesse e al suo pieno sviluppo, soprattutto psico-emotivo.

È molto probabile che il Tribunale per i Minorenni abbia imboccato tale strada ritenendola la migliore fra quelle auspicabili, evitando la recisione dei legami tanto con i soggetti affidatari che con la famiglia d’origine. Ma senza mai assumere una decisone definitiva, si può veramente affermare di aver agito nell’interesse del bambino?

Seguendo l’esempio sopra esposto, appare evidente che non avendo costruito – verosimilmente solo per la legge – una nuova e definitiva famiglia il bambino divenuto maggiorenne perda tutti i vantaggi acquisiti in itinere, come il definire (e avere una) casa il luogo in cui si trovano i genitori affidatari. Appare lampante l’esistenza di più contro che pro.

Senza neppure considerare il nuovo – e forse più grave – trauma che si appresta a vivere un ormai giovane adulto: l’aver acquisito una quotidianità che viene poi bruscamente recisa a causa di una legislazione inappropriata.

La conseguenza fra le più nocive è l’aver perso, ancora una volta, una famiglia.[32]

Sulla questione ci si soffermerà più diffusamente nel terzo capitolo della trattazione: nel caso di specie si potrebbe infatti procedere con l’adozione del maggiorenne.

Come anticipato, terminato il periodo massimo di affidamento etero-familiare, o cessate le situazioni pregiudizievoli, il minore viene reinserito nella propria famiglia d’origine ovvero si procede con la sua dichiarazione di adottabilità. In tal senso, v’è da anticipare che oggi l’adozione piena ovvero legittimante è una forma di adozione riservata esclusivamente alle condizioni più gravi in cui è necessario recidere ogni tipologia di rapporto con i propri genitori. Difatti, la prassi è oramai orientata a forme più soft di adozione che permettano una continuità affettiva.

Ma, per comprendere a pieno cosa debba intendersi per forme di adozione più softrectius, mite – occorre partire, attraverso un’analisi a centri concentrici, dalla disamina del suo opposto.

 

 

 

 

 


[1] Si veda in tal senso: Cass., sez I, 26 gennaio 2011, n. 1837; Cass., sez. I, 29 marzo 2011, n. 7115; Cass., sez. I, 27 settembre 2017, n. 22589
[2] Sic. BATTELLI E., Il diritto del minore alla famiglia tra adottabilità e adozione, alla luce della giurisprudenza CEDU, in Diritto di famiglia e delle persone (II). Fasc.2, 1 giugno2021, pag. 838, in DEJURE. Ma si veda sempre in tal senso: BIANCA C.M., Una nuova pagina della Cassazione sul diritto fondamentale del minore di crescere nella sua famiglia, in commento a Cass., SEZ. un., 30 giugno 2016 n. 13435, in Foro it., 2017, 10, 3171 s.
[3] Ex art 1, co. 1, della l. 184/1983 come novellata dalla l. 149/2001: “il minore ha diritto di crescere ed essere educato nell’ambito della propria famiglia”
[4] Ex artt. 1 co. 2 e 3, della l. 184/1983 come novellata dalla l. 149/2001:
Art 1, co. 2: “Le condizioni di indigenza dei genitori o del genitore esercente la potestà genitoriale non possono essere di ostacolo all’esercizio del diritto del minore alla propria famiglia. A tal fine a favore della famiglia sono disposti interventi di sostegno e di aiuto”;
Art 1, co. 3: “Lo Stato, le regioni e gli enti locali, nell’ambito delle proprie competenze, sostengono, con idonei interventi, nel rispetto della loro autonomia e nei limiti delle risorse finanziarie disponibili, i nuclei familiari a rischio, al fine di prevenire l’abbandono e di consentire al minore di essere educato nell’ambito della propria famiglia. Essi promuovono altresì iniziative di formazione dell’opinione pubblica sull’affidamento e l’adozione e di sostegno all’attività delle comunità di tipo familiare, organizzano corsi di preparazione ed aggiornamento professionale degli operatori sociali nonché incontri di formazione e preparazione per le famiglie e le persone che intendono avere in affidamento o in adozione minori. I medesimi enti possono stipulare convenzioni con enti o associazioni senza fini di lucro che operano nel campo della tutela dei minori e delle famiglie per la realizzazione delle attività di cui al presente comma”
[5] Ex multis, BIANCA C.M., Quando possiamo togliere legittimamente un bambino alla sua famiglia?, nota a Cass. 14 febbraio 2018 n. 3594; Cass. 19 gennaio 2018 n. 1431, in Foro it., 2018, 3, 817 ss.
[6] Scriveva il padre della medicina, Ippocrate: “Prima di cercare la guarigione di qualcuno, chiedigli se è disposto a rinunciare alle cose che lo hanno fatto ammalare”
[7] “Le Linee di indirizzo per l’affidamento familiare si inseriscono nel progetto nazionale “Un percorso nell’affido”, attivato nel 2008 dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali in collaborazione con il Coordinamento Nazionale Servizi Affido, il Dipartimento per le Politiche della famiglia, la Conferenza delle Regioni e Province autonome, l’UPI, l’ANCI e il Centro nazionale di documentazione e analisi per l’infanzia e l’adolescenza.” Cit. dal sito del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, www.lavoro.gov.it da consultare ancora per ulteriori approfondimenti sul progetto di cui trattasi
[8]Da “Linee di indirizzo per l’affidamento familiare”, Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali
[9] Si pensi a tal proposito non solo alla possibilità di una sopraggiunta malattia del genitore ma anche alla perdita improvvisa del proprio posto di lavoro: si riesce a ben comprendere come la situazione che si prospetta sia comunque grave – poiché di sofferenza – per il minore che si ritrova una famiglia menomata ovvero in difficoltà ma si riesce altresì a ben comprendere come non si tratti di situazioni gravi verificatesi sul bambino (si pensi in tal caso ai maltrattamenti che legittimano invece la dichiarazione di adottabilità)
[10] Si sta ovviamente facendo riferimento a tutte quelle situazioni di forza maggiore che – essendo tali – non possono essere di per sé stesse imputate al genitore che si è ritrovato, suo malgrado, a vivere quella condizione senza alcun grado di colpevolezza
[11] Si riporta di seguito integralmente il testo del citato art. 2.:
«1. Il minore temporaneamente privo di un ambiente familiare idoneo, nonostante gli interventi di sostegno e aiuto disposti ai sensi dell’articolo 1, è affidato ad una famiglia, preferibilmente con figli minori, o ad una persona singola, in grado di assicurargli il mantenimento, l’educazione, l’istruzione e le relazioni affettive di cui egli ha bisogno. 2. Ove non sia possibile l’affidamento nei termini di cui al comma 1, è consentito l’inserimento del minore in una comunità di tipo familiare o, in mancanza, in un istituto di assistenza pubblico o privato, che abbia sede preferibilmente nel luogo più vicino a quello in cui stabilmente risiede il nucleo familiare di provenienza. Per i minori di età inferiore a sei anni l’inserimento può avvenire solo presso una comunità di tipo familiare. 3. In caso di necessità e urgenza l’affidamento può essere disposto anche senza porre in essere gli interventi di cui all’articolo 1, commi 2 e 3. 4. Il ricovero in istituto deve essere superato entro il 31 dicembre 2006 mediante affidamento ad una famiglia e, ove ciò non sia possibile, mediante inserimento in comunità di tipo familiare caratterizzate da organizzazione e da rapporti interpersonali analoghi a quelli di una famiglia. 5. Le regioni, nell’ambito delle proprie competenze e sulla base di criteri stabiliti dalla Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano, definiscono gli standard minimi dei servizi e dell’assistenza che devono essere forniti dalle comunità di tipo familiare e dagli istituti e verificano periodicamente il rispetto dei medesimi».
Per ulteriori approfondimenti sul tema: VECCHIONE G., Il punto di vista della giurisprudenza minorile su abbandono e ‘semiabbandono permanente’, affidamento a rischio giuridico, affidamento familiare e continuità affettiva” – relazione svolta nell’ambito del corso sul tema “Genitorialità e adozione alla luce della giurisprudenza delle Corti”, svoltosi a Scandicci il 20-22 febbraio 2019, presso la Scuola Superiore della Magistratura.
[12] Si badi bene: il concetto di famiglia è abbastanza ampio e non esclusivo intendendosi in tal senso qualsivoglia rapporto, purché stretto in un patto di amore nonché, però, sorretto anche da altro tipo di stabilità e concretezza
[13] Basti solo considerare le innumerevoli scomparse di minori che mai e poi mai avrebbero voluto allontanarsi dal proprio consolidato contesto e che non percepiscono l’affidamento come una misura attuata nel proprio interesse e a propria protezione ma come una vera e propria punizione – anche nei confronti dei propri genitori
[14] Fonte: il Redattore sociale, Le voci dei minori in comunità: “Qui si sta bene, ma non ci si abitua mai…” di LANZA M.G.
[15]Ibidem
[16] ibidem
[17] Ibidem
[18] Ex art 2., co. 4, l. 184/1983
[19] Ex art. 4, co. 1, l. 184/1983: “L’affidamento familiare è disposto dal servizio sociale locale, previo consenso manifestato dai genitori o dal genitore esercente la potestà, ovvero dal tutore, sentito il minore che ha compiuto gli anni dodici e anche il minore di età inferiore, in considerazione della sua capacità di discernimento. Il giudice tutelare del luogo ove si trova il minore rende esecutivo il provvedimento con decreto.”
[20]In tal caso il provvedimento assume la connotazione di provvedimento amministrativo
[21] Ex art. 4, co. 2, l. 184/1983: “Ove manchi l’assenso dei genitori esercenti la potestà o del tutore, provvede il tribunale per i minorenni. Si applicano gli articoli 330 e seguenti del Codice civile”
[22] Il provvedimento è qui di tipo giudiziario
[23] Si veda in tal senso: PERLINGIERI P., Manuale di Diritto Civile
[24] “Nel provvedimento di affidamento familiare devono essere indicate specificatamente le motivazioni di esso, nonché i tempi e i modi dell’esercizio dei poteri riconosciuti all’affidatario, e le modalità attraverso le quali i genitori e gli altri componenti il nucleo familiare possono mantenere i rapporti con il minore. Deve altresì essere indicato il servizio sociale locale cui è attribuita la responsabilità del programma di assistenza, nonché la vigilanza durante l’affidamento con l’obbligo di tenere costantemente informati il giudice tutelare o il tribunale per i minorenni, a seconda che si tratti di provvedimento emesso ai sensi dei commi 1 o 2. Il servizio sociale locale cui è attribuita la responsabilità del programma di assistenza, nonché la vigilanza durante l’affidamento, deve riferire senza indugio al giudice tutelare o al tribunale per i minorenni del luogo in cui il minore si trova, a seconda che si tratti di provvedimento emesso ai sensi dei commi 1 o 2, ogni evento di particolare rilevanza ed è tenuto a presentare una relazione semestrale sull’andamento del programma di assistenza, sulla sua presumibile ulteriore durata e sull’evoluzione delle condizioni di difficoltà del nucleo familiare di provenienza.”
[25] Qualsivoglia provvedimento deve contenere i motivi che hanno indotto alla sua adozione di modo da evidenziare l’iter logico seguito – in attuazione del principio chiave della trasparenza. In tal caso, l’esposizione delle motivazioni aiuta anche a comprendere se siano state adottate o meno le misure di aiuto e sostegno da considerare in via preliminare prima di procedere con l’allontanamento
[26] Si precisa che in materia sono state apportate rilevanti modifiche dalla l. 173/2015, principalmente agli artt. 4 (con introduzione del coma 5-bis, 5-ter e 5-quater), 5 (con modifiche al co. 1), 25 (introduzione del co. 1-bis) e 44 (modifiche al co.1) della l 184/1983
[27] Ex art. 5, co. 4., della l. 184/1983, per poter provvedere al mantenimento del minore gli affidatari sono oggetto di misure di sostegno e aiuti economici da parte delle istituzioni a ciò preposte
[28] “L’affidatario deve essere sentito nei procedimenti civili in materia di potestà, di affidamento e di adottabilità relativi al minore affidato”
[29] Caso Moretti e Benedetti c. Italia, Sez II, 27 Aprile 2010, n. 16318
[30] Su quanto detto relativamente all’affidamento etero familiare si veda: MATTEINI CHIARI S., Adozione, nazionale, internazionale e affidamento a terzi, Giuffrè Francis Lefebvre, Milano, 2019
[31] I casi possono essere i più disparati ma l’ipotesi emblematica è da rinvenirsi nell’impossibilità – divenuta definitiva – di far crescere il minore nel suo nucleo d’origine
[32]BATTELLI E., op. cit. Ma si veda sempre in tal senso: VERCELLONE P., L’affidamento, in Trattato di diritto di famiglia diretto da Zatti, Milano, 2002, VI, 140 ss; LANZA M.L., Quando l’affidamento familiare è sine die: opinioni e rappresentazioni nel Veneto, in Min. Giust., 2013, 13ss.

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