L’alienazione parentale, tra alterazione dello status familiae e la sintomatologia giuridica di relazione

L’alienazione parentale, tra alterazione dello status familiae e la sintomatologia giuridica di relazione

a cura della dr.ssa Lucia D’Angelo e dell’avv. Roberta Belli

Abstract. «Studi hanno condotto nel tempo, all’elaborazione di un costrutto scientifico di natura «giuridica» e «antropologica», la cui denominazione è «Parental Alienation Syndrome». Una psicopatologia comportamentale-motivazionale, i cui fondamenti, si radicalizzano, essenzialmente, nelle problematiche legali, legate, alle cause di «divorzio» o di «separazione». La riflessione in oggetto al presente lavoro, proporrà un percorso di analisi costruttiva, il cui sviluppo, ruoterà intorno agli inquadramenti «nosografici» della predetta patologia, a quelli tecnico-giuridici, approdando poi, attraverso una ricercatezza di carattere «finalistico» e «conclusivo» a una problematica prettamente giurisprudenziale.».

Sommario: 1. Le premesse «nosografiche» – 2. L’interpretazione «tecnico-giuridica» – 3. Un caso pratico – 4. La «PAS»: un illecito giuridico – 4.1. La giurisprudenza di merito e note conclusive

 

Normativa e giurisprudenza: art. 315-bis co. 2 e co. 3 c.c.; art. 316 co. 3 e co. 4 c.c.; art. 337-ter co. 1 c.c.; Cass. civ., sez. I, n. 19323/20; art. 8 co. 2 CEDU; «Convenzione sui diritti del fanciullo» del 1989; artt. 330 e 333 c.c.; Corte Cost. sentenza n. 31/2012; Corte Cost. sentenza n. 7/2013; Tribunale Milano, IX, sez. civ., decreto 9-11 marzo 2017.

 

1. Le premesse «nosografiche»[1]

La letteratura psicoforense[2], pone al centro del suo dibattito scientifico, inter alia, il questionato e controverso problema della PAS, o «Parental Alienation Syndrome».

Cosa tratta tale denominata «Sindrome da alienazione genitoriale»[3]? In quali casi essa sostanzialmente emerge, o, prende vita? E, in che modo, ne diventa partecipe la «psicoanalisi forense»?

Neuropsichiatri, psicologici-psicoterapeuti, o, psicologi clinici e giuridici, quanto, altresì, giuristi, o, criminologi, dei quali il presente approfondimento ha studiato le professionali testimonianze e deduzioni in materia, parlano di alterazioni a lungo termine nello sviluppo psico-emotivo dei figli, laddove pervengano problematiche legali inerenti alla custodia degli infanti o, degli adolescenti, e, al correlativo esercizio dei «diritti relazionali» di questi ultimi con i genitori, qualora si presentino forme di allontanamento tra i coniugi, rappresentate da un divorzio, o, una separazione.[4]

Secondo gli studi richiamati in tale sede riflessiva, «due» sono i «paradigmi» di natura «socio-sanitaria», che intervengono quali fondamentali elementi favorevoli al costituirsi di una «Parental Alienation Syndrome»:

 – la lesione nei «diritti relazionali» del figlio minorenne (infante, o, adolescente);

– l’alienazione genitoriale.

Gli stessi studi,[5] segnalano «due» versanti tra loro stringentemente correlati, internamente alla caratterizzazione della c.d. «PAS» (o, «Parental Alienation Syndrome»), e, più propriamente:

– il VERSANTE «ATTIVO-PROPOSITIVO» = ovvero, quello dell’affettività, della cura e dell’istruzione cui i genitori sono chiamati nei confronti dei figli minorenni;

– il VERSANTE «PASSIVO-PROBLEMATICO» = le cui caratteristiche «distintive» sono date dalla sofferenza personale, ovvero, dal turbamento dell’equilibrio psico-affettivo dei figli infanti, o, dei figli adolescenti, collocati questi ultimi, dagli studi in argomento, internamente a un segmento di età compreso tra i 7 o 14/15 anni.

Sempre gli stessi studi, descrivono la «Parental Alienation Syndrome», come derivante da una vigorosa azione «denigratoria», volta da un coniuge nei confronti del cosiddetto coniuge «bersaglio»[6], priva di riferimenti concreti, cui appellarsi, in qualità di esaustiva giustificazione, a simili atteggiamenti «offensivi» e «diffamatori».

Una «condotta» tendente a conferire «discredito» all’immagine del coniuge «bersaglio», agli occhi del proprio figlio. L’esecrabile effetto/conseguenza relativo all’esercizio di un simile atteggiamento di «diffidenza» e di «avversione», consta, essenzialmente, nell’alterazione psico-patologica dell’infante o dell’adolescente, attraverso «negative» risposte di natura psico-comportamentale.

Camerini, Pingitore e Lopez, autori di tale significativo e rilevante studio, rifacendosi internamente alla trattazione giuridico-disciplinare dagli stessi elaborata, alle teorizzazioni di Gardner, padre della presente analisi, evidenziano tre distinte patologie di alienazione genitoriale, individuate dallo stesso Gardner, nel seguente modo:

– LIEVE = ovvero, avversione «SUPERFICIALE» scaturente nei figli;

– MODERATA = ovvero, avversione «PROFONDA» scaturente nei figli;

– GRAVE = ovvero, avversione in qualità di «PERSECUZIONE/OSTILITÀ» scaturente nei figli.

Camerini, sottolinea, che, sussiste invero, in ciò, una sensibile relazione di tipo «circolare», di «logiche» o di «nessi causali», identificante, peraltro, i profili di responsabilità, la genesi multifattoriale della sintomatologia psicologica e comportamentale, la struttura, o, il c.d. «spettro» motivazionale di decifrazione socio-sanitaria e giuridico-disciplinare, da appurarsi debitamente.

2. L’interpretazione «tecnico-giuridica»

Ai sensi dell’art. 315-bis[7] co.2 c.c.:

«Il figlio ha diritto di crescere in famiglia e di mantenere rapporti significativi con i parenti».

Segnatamente, a tale articolo, cui al comma ivi rappresentato, in sede di analisi riportante un carattere di mera «interpretazione», o, di discendente «analiticità» critica, ai figli, al di là del loro originario status giuridico di figlio naturale, adottivo, nato internamente a un preposto contratto regime matrimoniale, ovvero, in presenza di una situazione di fatto in more uxorio, viene riconosciuto, per legge dello Stato, la facoltà di crescere custoditi dalla famiglia, «univocamente» considerata, e, quindi, non stringentemente riferibile, in termini esclusivi, alla «madre» o al «padre», bensì, altresì, in termini di ordine esplicitamente «estensivo», ai parenti «affini» e «congiunti» di entrambi i «genitori».

Tale facoltà, così, estensivamente, ad essi riconosciuta, viene in tale senso orientata nei prescritti termini di legge, poc’anzi rappresentati, al materiale «affettivo» sviluppo di relazione con la «potestà genitoriale» in essere, quanto con tutti i rispettivi membri della famiglia «materna» e «paterna».

I due perni principali, dunque, intorno cui ruota la «cogenza» codicistica di tale dispositivo di natura prevalentemente civilistica, sono:

– la «famiglia», quale reliquario di accoglienza e di custodia;

– lo «sviluppo relazionale» e «partecipativo» con i genitori, e i congiunti materni e paterni.

Lo stesso articolo, con riferimento specifico al suo co. 3, afferma che:

«Il figlio minore che abbia compiuto gli anni dodici, e anche di età inferiore ove capace di discernimento, ha diritto di essere ascoltato in tutte le questioni e le procedure che lo riguardano».

Tale comma, risulta essere particolarmente significativo e importante, ai sensi dello sviluppo della presente riflessione oggetto di studio.

Di fatto, il figlio minore, infante, o, in età pre-adolescenziale, in grado di elaborare, e, di esprimere, efficacemente, i propri pensieri, volontà, stati d’animo e sentimenti, per legge, è in grado di intervenire in qualsivoglia controversia genitoriale/parentale, che li riguardi, in punta di diritto «sostanziale» quanto «procedurale».

L’art. 316[8] co. 3 c.c., aggiunge, poi, che:

«Il giudice, sentiti i genitori e disposto l’ascolto del figlio minore che abbia compiuto gli anni dodici e anche di età inferiore ove capace di discernimento, suggerisce le determinazioni che ritiene più utili nell’interesse del figlio e dell’unità familiare. Se il contrasto permane il giudice attribuisce il potere di decisione a quello dei genitori che, nel singolo caso, ritiene il più idoneo a curare l’interesse del figlio».

Il co. 4, del medesimo articolo, precisa, che:

«Il genitore che ha riconosciuto il figlio esercita la responsabilità genitoriale su di lui. Se il riconoscimento del figlio, nato fuori del matrimonio, è fatto dai genitori, l’esercizio della responsabilità genitoriale spetta ad entrambi».

Da ciò discende, sensatamente, che, nei termini dell’accennato co. 3 cui al predetto articolo, giudizialmente, la tutela del figlio minore e l’unità familiare, prevalgono, internamente alle determinazioni legislative di «concetto» del sistema ordinamentale vigente.

Inoltre, il paragrafo 2, dello stesso, sottolinea, con evidente  valenza giuridica di «imprescindibilità», e, di pregnante esaustività «esecutiva», che, la compattezza decisionale, congiunta, dei coniugi, è elemento di saliente incisività, per quanto di inerenza a una predeterminazione di natura psico-empatica. Ciò è da sancirsi, come «valore» di decretabile interna «armonia» del nucleo familiare, quanto al medesimo tempo, di una equilibrata composizione delle divergenze, potenzialmente ascrivibili, alla vita di «relazione» dei componenti dello status familiae, di fatto e di diritto.

Il co. 4 dell’art. 316 c.c., rende se stesso, importante complemento di «integrazione» in quanto suddetto, e in rapporto a una riconosciuta responsabilità genitoriale, che venga a designarsi, de plano, in argomento di tutela, protezione, cura e sviluppo del figlio minore, ad opera del solo genitore cui sia accreditabile un simile riconoscimento in favore di tale figlio, o di entrambi, qualora in ragione di un regime di fatto, ovvero di more uxorio, intervenga un riconoscimento genitoriale «materno» e «paterno» al contempo stesso.

L’art. 337-ter[9] co.1 c.c., designa, in maniera conclusiva – nonché endemicamente risolvente la problematica dibattuta ai sensi del presente studio – che:

«Il figlio minore ha il diritto di mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno dei genitori, di ricevere cura, educazione, istruzione e assistenza morale da entrambi e di conservare rapporti significativi con gli ascendenti e con i parenti di ciascun ramo genitoriale».

La riservata declinazione codicistica, posta ai sensi degli artt. 315-bis co. 2 e co. 3 c.c., 316 co. 3 e co. 4 c.c., e 337-ter co. 1 c.c., è orientata a salvaguardare il costrutto giurisprudenziale soggiacente la ratio legis scaturente da un presupposto apparato cognitivo di «logicità», e, di «esecutività», quanto di mero riscontro giudiziale, di tutela del minore, così come contestualmente considerati; e, di c.d. «bigenitorialità», in ordine a quanto, peraltro, preso in considerazione dagli stessi studi scientifico-dottrinari in materia, per i quali, in specifico riferimento a quest’ultima:

«Il diritto alla bigenitorialità non va considerato solo dal punto di vista dei genitori, ma, soprattutto, da quella del figlio, il quale ha diritto di rapportarsi in maniera armonica ed equilibrata con entrambi».[10]

Una definizione attraverso la quale è resa visibile la valenza legale e legislativa del riconoscimento a una preesistente compartecipata genitorialità, quanto una vivibile tutela alla auspicabile preservazione della giuridica titolarità e della filiazione di un figlio minore.

3. Un caso pratico

Una recente sentenza curata dalla Corte di Appello di Messina, risalente al 10 giugno 2021, che ha visto impegnato nella fase interlocutoria lo scrivente Studio, ha avuto in oggetto di pronuncia giudiziale, una involontaria connaturata questionabilità di «Parental Alienation Syndrome», quanto di mero rafforzamento dell’istituto della «bigenitorialità», nella fattispecie riportata in sede di rappresentazione dibattimentale.

Il giudizio di legittimità della Corte di Appello di Messina, ha sostenuto in sede redigente, la pronuncia di cognizione per la quale:

«Il benessere e la crescita armoniosa del bambino deve essere, [omissis], al centro di qualsiasi provvedimento, che deve salvaguardare anche la qualità del rapporto del minore con il genitore non convivente il quale, per tale motivo, deve essere messo in condizione di esercitare con serenità il diritto di visita».

Tale Corte, radicalizza il merito di tale «legittimità», concordemente con quanto deciso dalla Suprema Corte di Cassazione Civile, sez. I, il 17.09.20, nella sentenza n. 19323, nei seguenti termini:

«…in ordine al diritto di visita al figlio minore da parte del genitore non convivente che risiede distante, [omissis] affermando il condivisibile principio secondo il quale la regolamentazione dei rapporti con il genitore non convivente non può avvenire sulla base di una simmetrica e paritaria ripartizione dei tempi di permanenza,  ma deve essere il risultato di una valutazione ponderata del giudice del merito che, partendo dall’esigenza di garantire al minore la situazione più confacente al suo benessere e alla sua crescita armoniosa e serena, tenga anche conto del suo diritto a una significativa e piena relazione con entrambi i genitori e del diritto di questi ultimi a una piena realizzazione della loro relazione con i figli e all’esplicazione del loro ruolo educativo. Deriva da quanto precede, pertanto, che se è vero che la condivisione – in mancanza di serie ragioni ostative – deve comportare una frequentazione dei genitori tendenzialmente paritaria, la cui significatività non sia vanificata da frammentazioni, è altrettanto vero che nell’interesse del minore, in presenza di serie ragioni (ad esempio, quando la distanza esistente tra i luoghi di vita dei genitori imponga al minore di sopportare tempi e sacrifici di viaggio tali da compromettere gli studi, il riposo e la vita di relazione) il giudice può individuare un assetto nella frequentazione che si discosti da questo principio tendenziale, al fine  di assicurare al bambino la situazione più confacente al suo benessere e alla sua crescita armoniosa e serena».

In maniera funzionale a ciò premesso, è indispensabile rendere evidente che, l’abilitante «principio di prevalenza del superiore interesse del minore», come notorio, diviene rilevante, inter alia, altresì, attraverso le stesse pronunce giudiziali dei giudici a quo.

È d’uopo, nondimeno, endemicamente alla presente sede riflessiva, fare riferimento alla giurisprudenza di Strasburgo, che studi dottrinari in materia segnalano in tema di violazione dell’effettivo «Diritto al rispetto della vita privata e familiare», conformemente all’art. 8 della CEDU,[11] ai sensi del cui comma 2, viene sancito che:

«Non può esservi ingerenza di una autorità pubblica nell’esercizio di tale diritto a meno che tale ingerenza sia prevista dalla legge e costituisca una misura che, in una società democratica, è necessaria alla sicurezza nazionale, alla pubblica sicurezza, al benessere economico del paese, alla difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute o della morale, o alla protezione dei diritti e delle libertà altrui».

 In ordine all’analisi di sintesi ivi rappresentata, il sostegno legale congiuntamente a un sistema di tutela, preservazione e sanzionamento, di comportamenti che aprioristicamente siano di natura «genitoriale», quanto «giudiziale», dei magistrati aditi nel rispondere adeguatamente e tempestivamente a una problematica di tale sistematicità, e rilevante risonanza, deve inderogabilmente  sottostare a dei principi di natura «sociale» e «giuridica», richiamanti la «protezione» e il «benessere» dei fanciulli,[12]  il valore culturale di una comunità sociale e civile nella quale questi ultimi sono inseriti,[13] il diritto alla vita dei medesimi,[14] quanto la stessa difesa all’identità personale e civile di questi ultimi.[15]

4. La «PAS», un illecito giuridico

Come noto, gli artt. 330[16] e 333[17] c.c. si interrogano, reciprocamente, appellandosi all’intervento di un giudice, rispettivamente, in materia di decadenza della «responsabilità genitoriale», o, di relativa «condotta pregiudizievole» degli stessi genitori nei confronti dei figli «minori» o «adolescenti».

Nel primo caso, il giudice di merito invoca la fondatezza della propria decisione allorquando:

«[…]può pronunziare la decadenza dalla ((responsabilità genitoriale)) quando il genitore viola o trascura i doveri ad essa inerenti o abusa dei relativi poteri con grave pregiudizio del figlio.

In tale caso, per gravi motivi, il giudice può ordinare l’allontanamento del figlio dalla residenza familiare ovvero l’allontanamento del genitore o convivente che maltratta o abusa del minore.».

A fronte di ciò, la legislazione codicistica ritiene «esaustiva» e «concludente», una relativa pronuncia di natura meramente afflittiva, nei confronti del congiunto esercizio della potestà genitoriale sui figli minori o adolescenti. Una pronuncia, quest’ultima, la cui misura, nei predisposti termini legislativi, ancorché stringentemente codicistici, sanziona con piena evidenza, il mancato adempimento o l’inerente violazione, o abuso, dei relativi doveri «potestativi».

Chiaramente, ciò, sensibilizza, nei predetti termini di legge, la messa in rilievo di una «triplice» classificazione da «illecito», da rendersi dovutamente perseguibile sia in termini civili quanto segnatamente penali, ovvero:

– la violazione nell’adempimento di una materiale quanto affettiva forma di «dovere parentale»;

– la trascuratezza nell’adempimento di una materiale quanto affettiva forma di «dovere parentale»;

– l’abuso nell’esercizio dell’autorità potestativa genitoriale.

Una «tripartita» espressione di illiceità, da documentarsi e rendersi perseguibile, nei seguenti inerenti profili «analitici» e «metodologici», interni alla manifesta:

– «alterazione» cognitivo-comportamentale;

– «disordine» cognitivo-comportamentale;

– «sproporzione» cognitivo-comportamentale.

L’art. 333 c.c., afferma che:

«Quando la condotta di uno o di entrambi i genitori non è tale da dare luogo alla pronuncia di decadenza prevista dall’art. 330, ma appare comunque pregiudizievole al figlio, il giudice, secondo le circostanze può adottare i provvedimenti convenienti e può anche disporre l’allontanamento di lui dalla residenza familiare ((ovvero l’allontanamento del genitore o convivente che maltratta o abusa del minore)).

Tali provvedimenti sono revocabili in qualsiasi momento.».

Ai sensi di quanto prescritto nei citati termini di legge riferiti a tale articolo, il sopraggiunto «pregiudizio» occorso al minore o al figlio adolescente, realizza, l’unità di misura «reale», cui fare riferimento. Un termine di riscontro di natura meno «afflittiva», nei distinguenti caratteri di rilevata irregolarità civile, o illegittimità penale, ma risolutiva, ugualmente, nel debito allontanamento del figlio o del genitore/ri, dalla dimora residenziale familiare.

In tale caso, però, il provvedimento cautelare non comportando «decadenza» dell’esercizio della potestà genitoriale, ne rende certamente esigibile l’inerente «revocabilità».

Viste le «coordinate» quanto «integrate» perseguibilità di natura «illecita», cui a un obiettivo rapporto di «filiazione», concernente il figlio minore o adolescente, nell’ambito di una conclamata «affettiva» bigenitorialità da esprimersi nei confronti di quest’ultimo, le determinazioni di natura nosografica e psico-forense, illustrate nei precedenti paragrafi del presente approfondimento di ricerca, vengono così, a canalizzarsi, endemicamente, a caratterizzazioni di «illegittimità», di «interdizione», di rilevante giuridico «divieto», svalutate nelle profilazioni di eminenza scientifica, poiché ancorché povere di elementi caratteristici strutturati e salienti, i quali possano tangibilmente dare origine a una concreta profilassi medico-scientifica di PAS, o «Parental Alienation Syndrome».

A supporto di una tale, alternativa, giuridica, quanto al medesimo tempo, giurisprudenziale «tesi», sussistono, invero, numerose sentenze, tra le quali, di rilievo, quelle «cassate» dalla suprema Corte, laddove, viene rilevato che, la più o meno grave «alterazione» cognitivo-comportamentale del genitore, influenzante, direttamente, o indirettamente, l’indirizzo «psico-affettivo» del figlio minore, o adolescente, è addebitabile a una significativa formulazione di illecito tout court.

A detta di tali sentenze, non è accertabile, dunque, un «diretto» rapporto di attiva causalità cognitiva, da attribuirsi a un’indagine di accertamento che vada a relazionarsi ai «fatti» o alle «azioni», messe in luce dall’attore; non sussiste, ancor più, una «positiva» resilienza nosografica, a sostegno di simili alterazioni «psico-cognitive» poste all’attenzione e alla discussione del giudice di merito.

4.1. La giurisprudenza di merito e note conclusive

In argomento, di difesa, alla «bigenitorialità» e all’inerente esercizio della preposta «potestà attiva» da correlarsi a quest’ultima, al di là di qualunque potenziale reato da ritenersi accertabile[18], è rilevante citare, come noto, la sentenza n. 31 curata dalla Corte costituzionale nella pronuncia di legittimità risalente al 23 febbraio 2012.

Nello specifico, la Suprema Corte, interviene con una pronuncia di condanna di dichiarata «incostituzionalità» caratterizzante l’art. 569 c.p., internamente all’attestazione di perdita della «responsabilità genitoriale» in caso di alterazione dello stato civile di un «neonato», ad opera del genitore colpevole dell’azione dolosa, così come sancito nel secondo comma dell’art. 567 c.p., secondo quanto riportato dalla stessa Corte nella pronuncia documentale ivi rappresentata.

Con la successiva pronuncia n. 7, la Corte Costituzionale, il 23 gennaio 2013[19], ne conferma la pregressa dichiarazione di «incostituzionalità» del medesimo comma, concernente il medesimo articolo, ma con specifica inerenza al corpus iuris dispositivo caratterizzante l’art. 566 c.p. per «Supposizione o soppressione di stato».

In entrambi i casi, «due», sono gli «elementi» di riflessione, e di concreta evidenza pratica, da sottolineare, e mettere in rilievo, in tale sede riflessiva, quale percorso progressivo di «tutela» della famiglia e dell’«integralità» oggettiva del pertinente status naturale originario, da attribuirsi a quest’ultima, ovvero:

– la tutela per l’azione giudiziale dirimente del giudice nel vedersi precludere qualsiasi possibilità di «valutazione dell’interesse del minore»;

– la difesa della «responsabilità genitoriale» anche in tema di «illiceità» comportamentale.

La «permeabilità» di prevalente natura penale, riferibile, all’intervento di «correzione», effettuato intrinsecamente alla sostanza «normativo-codicistica» del medesimo, si coordina, in parallelo, come noto, con l’ordinanza curata dalla nona sezione civile del Tribunale di Milano, attraverso il decreto 9-11 marzo 2017.

L’attribuibilità giuridico-documentale di una tale «genesi» normativa in materia di tutela all’integralità della «bigenitorialità», quanto della preservazione della responsabilità o potestà genitoriale, assume, ai sensi del secondo di tale ultimo giurisprudenziale riferimento, un «itinerario» di natura prettamente civilistica in materia di ex art. 96 co. 3 c.p.c. e di art. 337-ter c.c.

Con riferimento a tale articolo 337-ter c.c., si rivela interessante, ai fini del presente studio, l’indice di sostanzialità regolamentare, presentato in argomento del suo co. 2, ovvero:

«[…]nei procedimenti di cui all’art. 337-bis,[20] il giudice adotta i provvedimenti relativi alla prole con esclusivo riferimento all’interesse morale e materiale di essa. Valuta prioritariamente la possibilità che i figli minori restino affidati a entrambi i genitori oppure stabilisce a quale di essi i figli sono affidati, determina i tempi e le modalità della loro presenza presso ciascun genitore, fissando altresì la misura e il modo con cui ciascuno di essi deve contribuire al mantenimento, alla cura, all’istruzione e all’educazione dei figli. Prende atto, se non contrari all’interesse dei figli, degli accordi, intervenuti tra i genitori. Adotta ogni altro provvedimento relativo alla prole, ivi compreso, in caso di temporanea impossibilità di affidare il minore ad uno dei genitori, l’affidamento familiare. All’attuazione dei provvedimenti relativi all’affidamento della prole provvede il giudice nel merito e, nel caso di affidamento familiare, anche d’ufficio. A tal fine copia del provvedimento di affidamento è trasmessa, a cura del pubblico ministero, al giudice tutelare».

Il Tribunale di Milano, attraverso il decreto 9-11 marzo 2017, interviene, inoltre, sostenendo nell’ambito della sua preminente pronuncia, che:

«Il temine alienazione genitoriale – se non altro per la prevalente e più accreditata dottrina scientifica e per la migliore giurisprudenza – non integra una nozione di patologia clinicamente accertabile, bensì un insieme di comportamenti posti in essere dal genitore collocatario per emarginare e neutralizzare l’altra figura genitoriale; condotte che non abbisognano dell’elemento psicologico del dolo essendo sufficiente la colpa o la radice anche patologia delle condotte medesime. In caso di azione infondata posta in essere dal genitore che abbia attuato comportamenti alienanti, si impone una pronuncia di condanna ex art. 96 comma II c.p.c, registrandosi un grave abuso dello strumento processuale. In particolare, l’azione promossa dalla madre, la quale proponga ricorso contro il padre, per questioni relative ai figli, e risulti poi essere l’autrice di comportamenti alienanti, è da ritenere processualmente viziata da colpa grave e come tale meritevole di sanzione ex art. 96 III comma c.p.c.».

Concludendo, ad oggi, sussistono, invero, evidenti «discrepanze» di ordine   «discretivo-procedurale», in ordine alla tutela del minore, sia nel riconoscimento di una «bigenitorialità», la quale, sia potestativa, a un non residuale «arbitrio»,  indirizzato all’esercizio di una relativa  «responsabilità genitoriale», in vincolo di legge; sia in ciò che sia da considerarsi orogenesi medico-scientifico (anche se con non trascurabili orientamenti di natura tipologicamente «forense»), o, perentoriamente, concretizzante, la profilassi genetica e giurisprudenziale concernente la discussa «fattispecie» ivi presentata.

 

 

 

 

 


[1] G.B. CAMERINI, M. PINGITORE, G. LOPEZ, Alienazione parentale, Innovazioni cliniche e giuridiche, Milano, 2016.
[2] Si consulti in argomento lo studio analitico in materia di alienazione parentale cui alla citata opera di G.B. CAMERINI, M. PINGITORE, G. LOPEZ, Milano, 2016.
[3] R. GARDNER, forense psichiatra infantile statunitense, il quale coniò il termine di «Parental Alienation Syndrome», segnatamente ai suoi studi in materia.
[4] G.B. CAMERINI, M. PINGITORE, G. LOPEZ, Alienazione parentale, Innovazioni cliniche e giuridiche, Milano, 2016.
[5] Ibidem.
[6] G.B. CAMERINI, M. PINGITORE, G. LOPEZ, Alienazione parentale, Innovazioni cliniche e giuridiche, Milano, 2016.
[7] «Diritti e doveri del figlio», inserito nel Titolo IX, «Della responsabilità genitoriale e dei diritti e doveri del figlio», Capo I, portante la denominazione «Dei diritti e doveri del figlio».
[8] «Responsabilità genitoriale».
[9] «Provvedimenti riguardo ai figli».
[10] G.B. CAMERINI, M. PINGITORE, G. LOPEZ, Alienazione parentale, Innovazioni cliniche e giuridiche, Milano, 2016.
[11] G.B. CAMERINI, M. PINGITORE, G. LOPEZ, Alienazione parentale, Innovazioni cliniche e giuridiche, Milano, 2016.
[12] «Convenzione sui diritti del fanciullo» del 20 novembre del 1989.
[13] Ibidem.
[14] Art. 6 co. 1 della «Convenzione sui diritti del fanciullo».
[15] Art. 8 della «Convenzione sui diritti del fanciullo».
[16] «Decadenza dalla responsabilità genitoriale sui figli».
[17] «Condotta del genitore pregiudizievole ai figli».
[18] Così come reso stimabile dalle medesime fonti giuridiche, quale il «codice penale» commentato aggiornato al 2021, di L. ALIBRANDI, Piacenza, 2021, preso in considerazione nel presente studio.
[19] Il riferimento è reperibile nella nota n. 2 all’art. 569 c.p. «Pena accessoria», pag. 1557 del Codice Penale, curato da L. ALIBRANDI, commentato con riferimento alla giurisprudenza 2021, Piacenza, 2021.
[20] Ai sensi del cui testo normativo, si afferma che: «In caso di separazione, scioglimento, cessazione degli effetti civili, annullamento, nullità del matrimonio e nei procedimenti relativi ai figli nati fuori del matrimonio si applicano le disposizioni del presente capo»

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