Lavoro, politica, legislatore: chi condiziona chi?

Lavoro, politica, legislatore: chi condiziona chi?

Che rapporto esiste tra politica, legislatore e lavoro? Si tratta di un interrogativo che appare evidente ad ogni ascolto di un telegiornale o lettura critica di un quotidiano.

È chiaro infatti che qualunque provvedimento in materia giuslavoristica nasce da questa dialettica: le manifestazioni delle associazioni sindacali avvengono di regola sotto ai palazzi del potere, i dibattiti politici nascono dalle istanze dei lavoratori, la gestione del personale nelle aziende segue logiche naturalmente basate sui provvedimenti legislativi in materia di lavoro.

Alla luce di questo viene spontaneo chiedersi se “sia nato prima l’uovo o la gallina” e soprattutto se, cosa che più interessa, allo stato attuale siano le leggi che condizionano l’andamento del mercato del lavoro o quest’ultimo a determinare l’operato del legislatore.

Al primo di questi due quesiti può rispondere la storia: se guardiamo all’embrione della legislazione sociale possiamo affermare che è stata la dialettica tra associazionismo politico e quello professionale a determinare il superamento della neutralità dello Stato in materia.

Quanto al secondo quesito la soluzione si può rintracciare da un lato nelle dinamiche sinergiche che regolano il mercato del lavoro e sono ad esso sottese, dall’altro nel dibattito sempre più vivo in materia di salario minimo.

Sotto il primo versante, il mercato, come sappiamo, si basa sull’interazione tra domanda ed offerta.

Analizzandole separatamente è evidente l’impatto su di esse e, conseguentemente, sul mercato nella sua interezza, della legislazione.

Questo è elementare per quanto attiene alla domanda di lavoro: le imprese nel determinarla sono condizionate dalla legislazione lavoristica e fiscale che incide sui costi del personale e sulla sua gestione, nonché dalla politica economica generale che ha ovvie conseguenze sul tessuto sociale che inevitabilmente si ripercuotono in termini numerici sulla domanda di prodotti, che a sua volta, provoca un aumento dei profitti aziendali e contestualmente un crescente fabbisogno di personale.

Stessa relazione esiste altresì tra opera del legislatore ed offerta di lavoro.

Essa però è meno nitida all’occhio più distratto: se semplicemente cerchiamo su internet gli elementi che condizionano quantitativamente l’offerta presente sul mercato esaminato, a meno che non ci si imbatta in trattati scritti da esperti della materia, i primi risultati riguardano più il tessuto sociale, con riferimenti ad esempio ad età e densità della popolazione, che quello normativo.

Ma non è così. Cos’è che plasma il tessuto sociale se non, tra gli altri elementi, l’operato del legislatore?

Per capirlo pensiamo a quello che sta accadendo con il reddito di cittadinanza.

Pur essendo esso intervenuto anche a sostegno di persone in effettiva difficoltà, dall’altro lato ha portato numerose imprese a lamentare l’assenza di personale.

In secondo luogo si pensi alla formazione.

È il disallineamento tra le competenze possedute dai lavoratori e quelle richieste dal tessuto produttivo, c.d. skill gap o skill mismatch, a determinare vaste aree di disoccupazione e vuoti in organico nelle aziende o ancora emarginazione di lavoratori non tecnologicamente aggiornati.

Come precedentemente accennato, tuttavia, non è solo la legislazione ad incidere sul lavoro, ma avviene anche il contrario.

L’esempio tangibile è dato dal salario minimo.

Il fatto che quasi il 50% dei lavoratori non sia coperto dalla contrattazione collettiva e quindi soffra condizioni di effettiva difficoltà, nonché l’eventuale opportunità di disincentivare sia pure in minima misura, data la convenienza per il datore, il sommerso, spinge all’adeguamento italiano all’esperienza già sperimentata dalla maggioranza dei Paesi europei.

È dunque di interrelazione il rapporto esistente tra legislazione e lavoro all’interno del quale, sotto forma di filtro e talvolta di leva, si inseriscono politica e sindacati.

La politica si fa portavoce alle istanze della società, a volte le fa proprie altre le condiziona e le fomenta; e i sindacati?

Pensiamo sempre al salario minimo.

La delega al governo in materia, già contenuta nel Jobs Act, non ebbe seguito in quando ostacolata dai sindacati stessi, che adesso sul tema appaiono divisi: convergenza tra Cgil e Confindustria, entrambe favorevoli, mentre Ugl è decisamente contraria.

La loro funzione è quella di inserirsi in questa complessa dialettica: il legislatore ed il lavoro dialogano e si influenzano, la politica fa proprie le istanze dell’elettorato, talvolta le sposa, talaltra le combatte, ed i sindacati più vicini al tessuto sociale e produttivo dovrebbero costituire un filtro necessario a fare ordine: depurare la politica del superfluo ed elettoralmente convincente ed indirizzare il legislatore verso quanto realmente necessario.

Tutto questo però, come San Giovanni Paolo II, con visionaria ed illuminata lucidità, affermava nell’enciclica Laborem Exercens, funziona soltanto se essi sono in grado di non perdere di vista il loro compito di tutela, non avendo contatti troppo stretti con la politica, che li renderebbero un mero strumento al servizio di altri scopi, ammettendosi uno sconfinamento in quell’ambito solo se dominato da una prudente sollecitudine per il bene comune.


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