Licenziamento del lavoratore disabile e inadempimento dell’obbligo di repêchage da parte del datore di lavoro: note a margine di Cass. Civ., Sez. Lavoro, sent. 9 marzo 2021, n. 6497
di Ciro Punzo, Francesca di Santo, MariaGiusy Guarente, Marcello Abbondandolo[1]
Abstract: Il presente lavoro vuole esaminare l’inadempimento dell’obbligo di repechage del datore di lavoro, unica del suo genere
Abstrat: This work aims to examine the employer’s failure to comply with the repechage obligation, the only one of its kind.
Sommario: 1. Introduzione – 2. Il caso oggetto della sentenza n. 6497/2021– 3. La definizione di “disabilità” in ambito giuslavoristico – 4. Il licenziamento del lavoratore disabile – 5. Tutela del lavoratore disabile e obbligo di repêchage: l’orientamento della Suprema Corte – 6. Conclusioni
1. Introduzione
Il presente lavoro si propone di offrire una lettura critica della sentenza n. 6497/2021 della Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, con l’obiettivo di illustrare la ratio della disciplina degli accomodamenti ragionevoli, alla luce di una prospettiva più ampia di protezione del lavoratore disabile nell’ordinamento italiano e sovranazionale. La prima parte dell’elaborato esamina il caso di specie, ponendo l’attenzione sui motivi del ricorso e sui fatti oggetto del giudizio. Segue, poi, un focus sulla nozione di disabilità nell’ordinamento italiano, con precipui richiami anche al diritto sovranazionale, con particolare riferimento alla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità e alle fonti di diritto derivato dell’Unione europea.
In terzo luogo, il lavoro offre una breve analisi della disciplina normativa in materia di cc.dd. obbligo di repêchage del lavoratore disabile da parte del datore di lavoro, con riferimento alla motivazione illustrata dalla Suprema Corte nella sentenza in commento.
In conclusione, il lavoro si prefigge di ripercorrere e commentare opportunamente l’iter argomentativo illustrato dalla Corte di Cassazione con sentenza n. 6497/2021 per porre l’attenzione sulla ratio della disciplina degli accomodamenti ragionevoli, alla luce della necessità di tutelare il lavoratore disabile quale soggetto vulnerabile la cui protezione è richiesta tanto dalla normativa italiana, quanto a livello sovranazionale.
2. Il caso oggetto della sentenza n. 6497/2021
La sentenza n. 6497 del 9 marzo 2021 della Suprema Corte concerne la tutela del lavoratore con disabilità, in particolare nel caso di licenziamento.
La Corte di Cassazione ha confermato l’orientamento delineato dalla Corte di appello di Milano, che con sentenza del 1° ottobre 2018[2], aveva ritenuto illegittimo il licenziamento di un lavoratore disabile, dipendente della società ASF Autolinee S.r.l. Il licenziamento avveniva il 31 marzo 2016, a fronte della condizione di impossibilità fisica sopravvenuta del lavoratore, che rendeva quest’ultimo inabile a svolgere determinate mansioni. Il prestatore di lavoro, G. V., era difatti divenuto inidoneo a ricoprire la funzione assegnata entro l’organigramma aziendale quale addetto al servizio di biglietteria.
Il Giudice di merito aveva dunque valutato quale illegittimo il licenziamento intimato dal datore di lavoro, condannando quest’ultimo alla reintegrazione del lavoratore ai sensi dell’art. 18, comma 4, dello Statuto dei Lavoratori, come modificato dalla Legge n. 92 del 28 giugno 2012 (Disposizioni in materia di riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita)[3].
Inoltre, la Società era condannata alla corresponsione al lavoratore “a titolo risarcitorio” delle “retribuzioni globali di fatto maturate dal giorno del licenziamento a quello dell’effettiva reintegrazione (nei limiti delle dodici mensilità globali di fatto)”[4].
La tutela reintegratoria attenuata si risolve in una sanzione conservativa a carico del datore di lavoro e a beneficio del lavoratore, che viene reintegrato nel posto di lavoro.
Tuttavia, come sottolineato da attenta dottrina, nel caso di specie appare complesso “negare che, in quanto costituisce infrazione del principio paritario” la “violazione” posta in essere dalla Società “non possa essere sanzionata che con la piena tutela reintegratoria, indipendentemente dalle dimensioni dell’impresa, dall’epoca del licenziamento e anche dell’assunzione del dipendente”[5].
La illegittimità del licenziamento era fondata sulla omissione, da parte del datore di lavoro, dell’adozione dei cc.dd. “ragionevoli accomodamenti”, ossia modifiche alla organizzazione aziendale atte a evitare la cessazione del rapporto di lavoro e permettere il repêchage del prestatore di lavoro divenuto inidoneo a svolgere le mansioni a esso assegnate.
Le ragioni addotte dal datore di lavoro, consistenti nella presenza di una situazione di organico al completo, da cui derivava la inesistenza di posti disponibili presso la biglietteria delle autostazioni o al servizio di bus washing, è stata ritenuta insufficiente da parte del Giudice di Appello.
Invero, il datore di lavoro avrebbe dovuto dimostrare che l’adibizione del lavoratore a mansioni diverse rispetto a quelle precedentemente individuate – consistenti nello svolgimento del servizio di biglietteria – avrebbe comportato un onere finanziario sproporzionato ovvero eccessivo, anche rispetto alla formazione di tipo professionale che il lavoratore avrebbe dovuto acquisire per raggiungere un livello di inquadramento superiore, richiesto ai fini dello svolgimento di determinate mansioni. Diversamente, il datore di lavoro aveva intimato il licenziamento, limitandosi ad asserire la impossibilità di ricollocare il prestatore di lavoro. Alla luce della documentazione medica presentata dalla parte lesa, la Corte di Appello aveva rilevato come la Società non avesse provveduto a identificare soluzioni alternative per la ricollocazione del datore di lavoro.
Dalla documentazione emergeva che il datore di lavoro non avesse richiesto al medico competente di esprimersi circa la opportunità per il lavoratore disabile di svolgere altre mansioni compatibili con il suo stato di salute.
La Società ASF Autolinee S.r.l. proponeva ricorso in Cassazione avverso la sentenza della Corte di Appello di Milano. La Suprema Corte avallava la decisione della Corte territoriale, sostenendo che “in tema di licenziamento per inidoneità fisica sopravvenuta del lavoratore, derivante da una condizione di handicap, sussiste l’obbligo della previa verifica, a carico del datore di lavoro, della possibilità di adattamenti organizzativi ragionevoli nei luoghi di lavoro ai fini della legittimità del recesso”, ai sensi dell’art. 5 della Direttiva 2000/78/CE[6].
La Corte di Cassazione si sofferma sull’analisi dell’art. 5, che stabilisce: “per garantire il rispetto del principio della parità di trattamento dei disabili, sono previste soluzioni ragionevoli. Ciò significa che il datore di lavoro prende i provvedimenti appropriati, in funzione delle esigenze delle situazioni concrete, per consentire ai disabili di accedere ad un lavoro, di svolgerlo o di avere una promozione o perché possano ricevere una formazione, a meno che tali provvedimenti richiedano da parte del datore di lavoro un onere finanziario sproporzionato […]”.
Il riferimento è a un, ribadito anche dai considerando venti[7] e ventuno[8] della Direttiva in esame.
Nel diritto nazionale, l’art. 5 della Direttiva è stato attuato in seguito della condanna che la Corte di giustizia di Lussemburgo ha inflitto all’Italia con sentenza Commissione c. Repubblica Italiana del 4 luglio 2013.
Il recepimento è avvenuto con il Decreto-legge n. 76 del 28 giugno 2013, convertito con modifiche in Legge del 9 agosto 2013, che ha previsto l’introduzione del comma 3 bis nel testo dell’art. 3 del D. Lgs. n. 216/2003, recante norme di Attuazione della direttiva 2000/78/CE per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro.
Il primo motivo di ricorso concerne la violazione e falsa applicazione di tale disposizione da parte del Giudice di merito. In particolare, la parte ricorrente asseriva che la Corte di Appello di Milano avrebbe valutato la possibilità di adibizione del prestatore di lavoro, G. V. ad altre mansioni, così sostituendosi, di fatto, al datore di lavoro. Essa, inoltre, riteneva erroneo attribuire al medico competente il computo di valutare le potenziali mansioni a cui adibire il lavoratore disabile.
Il secondo motivo di ricorso, formulato ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c., verteva sulla violazione dell’art. 2697 c.c., disposizione che regola l’onus probandi[9]. Nel caso di specie, il datore di lavoro era tenuto a dimostrare di aver valutato l’adozione di un accomodamento ragionevole ovvero di un’alternativa organizzativa per evitare il licenziamento del lavoratore. Egli aveva l’obbligo di verificare se i luoghi di lavoro potessero essere adattati alla situazione di disabilità in cui versava il lavoratore e se quest’ultimo potesse essere adibito ad altre mansioni, purchè compatibili con il nuovo stato psico-fisico della persona.
La parte ricorrente asseriva di aver provato la condizione di pieno organico in cui versava l’azienda e da cui discendeva la impossibilità di ricollocazione del lavoratore G.V. Tuttavia, queste condizioni non sarebbero state adeguatamente valutate in sede di giudizio e il Giudice di merito avrebbe posto a carico della parte convenuta un onere eccessivo rispetto a quanto già dimostrato.
La Suprema Corte ha rilevato la infondatezza dei motivi di ricorso, tra loro connessi perché relativi all’applicazione e all’interpretazione dell’art. 3, comma 3 bis, del D. Lgs. n. 216/2003, norma che, come sarà evidenziato nel prosieguo di questa trattazione[10], pone a carico del datore di lavoro l’“obbligo generale di adottare tutte quelle misure […] atte ad evitare il licenziamento, anche quando queste incidano sull’organizzazione dell’azienda”.
Infatti, la sopravvenuta inidoneità del lavoratore a svolgere la prestazione di lavoro non può costituire giustificato motivo di licenziamento quando sia possibile adibire il prestatore a mansioni diverse (equivalenti ovvero, in mancanza, inferiori). Si tratta del c.d. obbligo repêchage, già previsto dall’art. 4, comma 4, della Legge n. 68 del 12 marzo 1999[11], norma che si applica ai “lavoratori che divengono inabili allo svolgimento delle proprie mansioni in conseguenza di infortunio o malattia”.
Nel caso in cui essi vengano destinati a “a mansioni inferiori”, hanno diritto alla conservazione del più favorevole trattamento corrispondente alle mansioni di provenienza”.
Tuttavia, nel caso qui esaminato, la Corte di Cassazione ha osservato che “evidentemente l’impossibilità di ricollocare il disabile, adibendolo a diverse mansioni comunque compatibili con il suo stato di salute, non esaurisce gli obblighi del datore di lavoro che intenda licenziarlo, perché, laddove ricorrano i presupposti di applicabilità dell’art. 3, c. 3-bis del D. Lgs. n. 216 del 2003, dovrà comunque ricercare possibili accomodamenti ragionevoli che consentano il mantenimento del posto di lavoro, in un’ottica di ottimizzazione delle tutele giustificata dall’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà sociale (art. 2 della Costituzione), tanto più pregnanti in caso di sostegno a chi versa in condizioni di svantaggio”[12].
Come evidenziato dalla dottrina, nel caso analizzato è necessario operare un contemperamento tra “i contrapposti interessi del lavoratore disabile, al mantenimento dell’impiego adeguato al suo stato fisico e psichico nella situazione di oggettiva ed incolpevole difficoltà, e del datore di lavoro, di ottenere una prestazione lavorativa utile per l’impresa, considerando, in ogni caso, che ex art. 23 della Costituzione non possono essere previste prestazioni assistenziali non contemplate dalla legge[13]”[14].
Inoltre, “il Considerando 17 della Direttiva 2000/78/CE non prescrive il mantenimento dell’occupazione di un lavoratore non competente, non capace o non disponibile ad effettuare le funzioni essenziali del lavoro in questione”[15].
La Corte Suprema non si sofferma sull’aspetto discriminatorio del licenziamento intimato al prestatore di lavoro, ritenendo questo profilo estraneo al thema decidendum, stante il fatto che la tutela applicata era già stata indicata dal Giudice di merito nel senso della reintegrazione.
3. La definizione di “disabilità” in ambito giuslavoristico
Nel costruire e illustrare il percorso logico posto alla base della motivazione della sentenza n. 6497/2021, la Suprema Corte prende le mosse da un iter ricognitivo delle fonti che regolano la materia sottoposta alla sua cognizione, relativamente alla rilevanza delle medesime per l’oggetto del contendere.
Nella precedente giurisprudenza, la Corte aveva evidenziato il valore di una prospettiva di “integrazione tra fonti di protezione dei diritti fondamentali interne, convenzionali, sovranazionali ed internazionali […] senza rotture con il dato letterale delle norme nazionali […] (ma) in modo che sia coerente con i vincoli liberamente assunti dal nostro Paese in sede Europea e internazionale”[16].
Il primo riferimento presentato dalla Corte è al diritto sovranazionale. Invero, in ambito giuslavoristico, la nozione di disabilità è stata tratteggiata dal legislatore nazionale in conseguenza dei richiami operati al diritto dell’Unione europea e alle fonti di diritto internazionale.
Ai sensi dell’art. 1, comma 2, della Convenzione sui diritti delle persone con disabilità (United Nations Convention on the Rights of Persons with Disabilities – UNCRPD), adottata a New York il 13 dicembre 2006 dall’Assemblea Generale della Nazioni Unite e ratificata dall’Italia con legge del 3 marzo 2009, n. 18[17], sono disabili i soggetti che presentano “minorazioni fisiche, mentali intellettuali o sensoriali a lungo termine che in interazione con varie barriere possono impedire la loro piena ed effettiva partecipazione nella società su una base di eguaglianza con gli altri”. Si tratta della prima definizione di disabilità presente in una fonte di diritto internazionale dalla portata vincolante per gli Stati parte[18]. Essa è basata “sul presupposto […] che tutti i diritti umani e le libertà fondamentali sono universali e includono senza riserve le persone disabili, la cui differenza va rispettata e accettata come parte della diversità umana e dell’umanità stessa”[19].
Invero, fino alla stipula della UNCRPD, l’interesse del legislatore internazionale per la disabilità si è manifestato solo attraverso atti di soft law, quali la Dichiarazione sui diritti delle persone con ritardo mentale (1971), la Dichiarazione dei diritti delle persone con disabilità (1975) e le Regole per le pari opportunità delle persone disabili adottate dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite (1993).
La Convenzione disciplina anche il diritto al lavoro, attraverso le disposizioni degli artt. 27 e 28: la prima norma prevede che gli Stati parte riconoscano il “diritto delle persone con disabilità al lavoro, su base di parità con gli altri; ciò include il diritto al lavoro che esse scelgono o accettano liberamente in un mercato del lavoro e in un ambiente lavorativo aperto, che favorisca l’inclusione e l’accessibilità delle persone con disabilità”.
Gli Stati devono altresì “garantire e favorire l’esercizio del diritto al lavoro, incluso per coloro che hanno acquisito una disabilità durante il proprio lavoro”, nonché “proibire la discriminazione […], incluse le condizioni di reclutamento, assunzione e impiego, il mantenimento dell’impiego, l’avanzamento di carriera e le condizioni di sicurezza e igiene sul lavoro”, riconoscere “l’eguaglianza delle opportunità, e la parità di remunerazione per un lavoro di pari valore” (c.d. principio di equal pay for equal work), permettere ai lavoratori disabili di “esercitare i propri diritti del lavoro e sindacali”, di accedere “ai servizi per l’impiego e alla formazione professionale e continua offerti a tutti”, promuovendo “l’avanzamento di carriera per le persone con disabilità, […] come pure l’assistenza nel trovare, ottenere e mantenere e reintegrarsi nel lavoro” e “la possibilità di esercitare un’attività indipendente”.
Le assunzioni dei lavoratori disabili devono avvenire, secondo la Convenzione, non solo “nel settore pubblico”, ma anche in quello privato.
L’art. 27 della Convenzione detta una ulteriore norma a tutela dei lavoratori disabili, considerati vulnerabili più di altri, ponendo in capo agli Stati l’obbligo di assicurare che tali prestatori di lavoro non siano ridotti “in schiavitù o in stato servile e siano protett[i], su base di parità con gli altri, dal lavoro forzato o coatto”.
A seguito dell’avvenuta ratifica della Convenzione anche da parte dell’allora Comunità europea[20], la giurisprudenza della Corte di giustizia, attraverso la propria attività interpretativa, ha contribuito a chiarire la portata e l’estensione del concetto di disabilità. I Giudici di Lussemburgo hanno affermato che tale concetto “si riferisce ad una limitazione, risultante in particolare da menomazioni fisiche, mentali o psichiche, che, in interazione con barriere di diversa natura, può ostacolare la piena ed effettiva partecipazione della persona interessata alla vita professionale su base di uguaglianza con gli altri lavoratori. Inoltre, dall’articolo 1, secondo comma, della Convenzione dell’ONU risulta che le menomazioni fisiche, mentali, intellettuali o sensoriali debbano essere ‘durature’”[21], quindi non meramente transitorie.
Come rilevato dalla Corte, la disabilità non comporta solo “un’impossibilità di esercitare un’attività professionale, ma altresì ad un ostacolo a svolgere una simile attività”[22]; pertanto, “se una malattia, curabile o incurabile, comporta una limitazione, risultante in particolare da menomazioni fisiche, mentali o psichiche, che, in interazione con barriere di diversa natura, può ostacolare la piena ed effettiva partecipazione della persona interessata alla vita professionale su base di uguaglianza con gli altri lavoratori e se tale limitazione è di lunga durata, una siffatta malattia può ricadere nella nozione di “handicap” ai sensi della direttiva 2000/78”[23].
La Direttiva non contiene una definizione di “disabilità” e presenta un ambito di applicazione non limitato alla tutela dei lavoratori con handicap.
Essa, infatti, ai sensi dell’art. 1, “mira a stabilire un quadro generale per la lotta alle discriminazioni fondate” su vari motivi (ossia, “sulla religione o le convinzioni personali, gli handicap, l’età o le tendenze sessuali, per quanto concerne l’occupazione e le condizioni di lavoro al fine di rendere effettivo negli Stati membri il principio della parità di trattamento”)[24].
L’ampia operatività del principio di non discriminazione è accolta anche nel testo della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU) del 4 novembre 1950[25], la quale non menziona la disabilità, ma enuncia il principio di non discriminazione nel “godimento dei diritti e delle libertà”, senza distinzioni basate su motivi specifici, elencati in via tassativa (sesso, razza, colore, lingua, religione, opinioni personali, nazionalità, ceto sociale o appartenenza a una minoranza, status economico, nascita).
La norma, di cui all’art. 14 della CEDU, si chiude con un riferimento a “ogni altra condizione” e, dunque, latamente, anche l’handicap, come posto in evidenza dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo[26].
La Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (c.d. Carta di Nizza, adottata il 17 dicembre 2000), invece, contiene un esplicito richiamo ai soggetti con disabilità; invero, l’art. 26 recita: “L’Unione riconosce e rispetta il diritto dei disabili di beneficiare di misure intese a garantirne l’autonomia, l’inserimento sociale e professionale e la partecipazione alla vita della comunità”[27].
Rilevante è anche l’impatto della Carta Sociale Europea, adottata in seno al Consiglio d’Europa nel 1961, e riveduta a Strasburgo nel 1996. La Carta, ratificata dall’Italia con Legge n. 30 del 9 febbraio 1999, riconosce all’art. 15 a “ogni persona portatrice di handicap” il “diritto all’autonomia, all’integrazione sociale ed alla partecipazione alla vita della comunità”.
Essa inoltre pone a carico dei datori di lavoro l’obbligo “di assumere e mantenere in attività persone inabili o minorate in un normale ambiente di lavoro e di adattare le condizioni di lavoro ai loro bisogni o, se ciò fosse impossibile per via del loro handicap, mediante la sistemazione o la creazione di posti di lavoro protetti in funzione del grado di incapacità”[28].
Progressivamente, l’attenzione del legislatore europeo per la protezione della disabilità si è ampliata fino ad arrivare alla previsione di norme ad hoc, operanti in materia giuslavoristica[29].
Prima ancora dell’adozione della Direttiva 2000/78/CE, si ricordano alcuni atti di soft law: in particolare, la Raccomandazione 86/379/CEE del 24 luglio 1986, relativa alla occupazione dei disabili nella Comunità europea, che detta indicazioni per favorire l’accesso al mercato del lavoro da parte di soggetti portatori di handicap, e la Risoluzione parlamentare del 1999 sulle pari opportunità per i lavoratori disabili.
Tale Risoluzione risponde alla necessità per il prestatore di lavoro di conservare e mantenere la propria occupazione. Questi documenti, anche se privi di valore vincolante, operano un “primo riconoscimento della disabilità come ambito della policy europea e la prima vera affermazione della necessità di tutelare i diritti delle persone con disabilità tramite una serie di azioni integrate e coordinate tra loro”.
Quanto alla Direttiva 2000/78/CE, i Giudici di Lussemburgo hanno sottolineato come l’art. 1 contenga un riferimento all’handicap[30], inteso come menomazione psico-fisica.
Si tratta di una definizione che evidenzia la carenza insita in una situazione di handicap e costruisce il relativo concetto secondo un approccio “in negativo”[31].
Essa non è lontana dall’approccio adottato dal legislatore italiano con la Legge n. 104 del 5 febbraio 1992 (Legge-quadro per l’assistenza e l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate)[32].
Composta da quarantaquattro articoli, la legge si propone di tutelare le persone con handicap[33], non solo in ambito lavoristico.
L’art. 3, comma 1, della legge definisce come “persona handicappata colui che presenta una minorazione fisica, psichica o sensoriale, stabilizzata o progressiva, che è causa di difficoltà di apprendimento, di relazione o di integrazione lavorativa e tale da determinare un processo di svantaggio sociale o emarginazione”.
L’handicap è grave quando “la minorazione, singola o plurima, correlata all’età, abbia ridotto l’autonomia personale in modo da rendere necessario un intervento assistenziale permanente, continuativo e globale nella sfera individuale o in quella di relazione” (art. 3, comma 3).
In dottrina, si osserva come, “gli accertamenti relativi alla minorazione e alla capacità residua sono effettuati dalle commissioni mediche preposte all’accertamento dell’invalidità civile, integrate, però, da un operatore sociale e da un esperto selezionato in relazione al particolare caso da esaminare”[34].
La legge n. 68 del 1999 ha provveduto a delineare una prima definizione di disabilità in ambito lavoristico.
Ai sensi dell’art. 1 di tale legge, sono disabili “le persone in età lavorativa affette da minorazioni fisiche, psichiche o sensoriali e i portatori di handicap intellettivi che comportino una riduzione della capacità lavorativa superiore al 45% accertata dalle competenti commissioni per il riconoscimento dell’invalidità civile sulla base della classificazione internazionale delle menomazioni elaborata dall’OMS; le persone invalide del lavoro, con riduzione della capacità lavorativa superiore
al 33%, come accertato dall’INAIL; le persone non vedenti e sordomute, così come definite dalle Leggi n. 381 del 1970 e n. 382 del 1970; le persone invalide di guerra e civili di guerra e invalide per servizio con minorazione dalla prima alla ottava categoria”. Secondo la dottrina, questa definizione individua ogni “abilità, capacità residua, che non viene come in passato pregiudizialmente negata ma, al contrario, riconosciuta, da un lato, come esistente pur con tutte le sue particolarità e, dall’altro, come meritevole di valorizzazione e di proficuo impiego nell’organizzazione del lavoro”[35].
L’accertamento medico-sanitario è necessario per poter qualificare un lavoratore come disabile e approntare le necessarie tutele in un’ottica egualitaria.
Ai fini dell’accertamento, opera una Commissione analoga a quella prevista dalla legge n. 104/1992 per la valutazione dell’handicap.
Il D.P.C.M del 13 gennaio 2000 ha previsto che la Commissione debba acquisire “le notizie utili per individuare la posizione della persona disabile nel suo ambiente, la sua situazione familiare, di scolarità e di lavoro”, prendendo in esame “i dati attinenti alla diagnosi funzionale e al profilo dinamico funzionale” (art. 1, commi 1 e 2).
Nonostante questi interventi legislativi, la frammentarietà dei riferimenti e l’assenza di un intervento chiarificatore sulla disabilità permangono. Come è stato rimarcato dalla dottrina, la legislazione italiana, sebbene considerata all’avanguardia, si caratterizza per la varietà e la stratificazione di terminologie e definizioni giuridiche ancorate a modelli ormai superati che non facilitano l’affermazione di una chiara cornice concettuale[36], soprattutto in materia di tutela dei lavoratori disabili.
Alla luce di tali considerazioni, la Corte di Cassazione, con sentenza, ha valorizzato l’impatto della giurisprudenza europea in ordine alla comprensione della nozione di disabilità, sottolineando come, per applicare l’obbligo di “ragionevoli accomodamenti” a favore del lavoratore disabile, occorra recepire il concetto di handicap e disabilità delineato a livello comunitario e ricostruito attraverso l’interpretazione offerta della Corte di giustizia dell’Unione europea.
Pertanto, le norme applicabili alla lite rimessa al giudizio della Corte di Cassazione trovano un riferimento nel diritto della UE, sul quale, a sua volta, è modellata la normativa interna (di attuazione), in particolare il D. Lgs. n. 216/2003.
La nozione di handicap rilevante ai fini della sottoposta alla cognizione della Corte deve essere quindi costruita in base alle fonti sovranazionali e, solo in secondo ordine, in relazione al diritto nazionale.
4. Il licenziamento del lavoratore disabile
Il caso portato all’attenzione della Corte di Cassazione e deciso con sentenza n. 6497/2021 concerne un lavoratore con sopravvenuta disabilità. L’illegittimità del licenziamento intimato dal datore di lavoro trova fondamento nella mancanza di un giustificato motivo oggettivo, che – in quanto tale – prescinde dalla condizione di salute del lavoratore[37].
Come sottolineato da autorevole dottrina, tale motivo “costituisce un limite al potere di licenziamento individuale del datore di lavoro” ai sensi dell’art. 3 della Legge n. 604/1966, “e la ragione ben si comprende per la rilevanza pratica della questione”[38], che è accresciuta nel caso in cui il lavoratore sia disabile.
Del resto, la tutela del lavoratore disabile, soggetto debole del rapporto di lavoro, sussiste in ordine alla cessazione del rapporto stesso, ma anche ab origine e nello svolgimento della prestazione lavorativa.
Ogni datore di lavoro è tenuto ad assumere “provvedimenti appropriati e pratici, in funzione delle esigenze delle situazioni concrete, a favore di tutti i disabili”[39].
È pur vero, d’altro canto, che la condizione di disabilità del lavoratore non ne impedisce il licenziamento.
La legge n. 68/1999 contempla soluzioni per facilitare e permettere l’inserimento in ambito lavorativo dei disabili e appronta speciali tutele a favore di essi, affinchè possano accedere al mercato del lavoro in condizioni di eguaglianza e parità di trattamento rispetto ai lavoratori normodotati. L’obiettivo del legislatore, quindi, è quello di garantire la tutela antidiscriminatoria per coloro che presentano una disabilità[40].
Come già rilevato, la protezione predisposta a livello normativo per il lavoratore disabile appare rafforzata rispetto a quella prevista per gli altri lavoratori, proprio in virtù della particolare vulnerabilità del soggetto con disabilità. Appare rilevante considerare anche il fatto che il lavoratore disabile, rispetto a quello normodotato, è più facilmente esposto al rischio di malattia e di aggravamento delle proprie condizioni di salute.
Si tratta, in altri termini, di soggetti fragili, per cui il legislatore è chiamato ad apprestare un’adeguata protezione.
Tale tutela è anche orientata a un principio di equilibrio e bilanciamento rispetto agli interessi del datore di lavoro: quest’ultimo, difatti, deve potersi procurare prestazioni lavorative funzionali per l’impresa, eliminando quelle non utili.
La protezione di questo interesse è il riflesso della tutela costituzionale assegnata alla libertà di iniziativa economica privata (art. 41 Cost.)[41]. A essa si contrappone l’interesse del lavoratore – sia esso disabile o normodotato – alla conservazione del posto di lavoro.
La Suprema Corte ha sottolineato come il favor per il lavoratore disabile non possa compromettere le “esigenze di produttività” dell’impresa. Essa ha dunque ritenuto “legittima la decisione del datore di lavoro di licenziare un dipendente portatore di handicap a causa della sopravvenuta inidoneità di quest’ultimo a svolgere la mansione per la quale era sempre stato impiegato nella struttura aziendale e della impossibilità di affidargli incarichi diversi”[42].
In aggiunta, come osservato dal legislatore europeo al considerando n. 17 della Direttiva 2000/78/CE, non è dato imporre al datore di lavoro “il mantenimento dell’occupazione […] di un individuo non competente, non capace o non disponibile ad effettuare le funzioni essenziali del lavoro in questione”.
Occorre poi ricordare che ai sensi e per gli effetti dell’art. 23 Cost., le prestazioni assistenziali sono vietate, anche da parte del datore di lavoro.
Entrando nel dettaglio della questione, è necessario in primo luogo individuare i riferimenti normativi in tema di licenziamento illegittimo.
Essi sono contenuti nell’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori e nell’art. 2, ultimo comma, del D. Lgs. n. 23/2015.
Un’altra norma di particolare importanza è rappresentata dall’art. 10 della legge n. 68/1999, riguardante l’ipotesi di inidoneità allo svolgimento delle mansioni da parte del lavoratore. Si tratta di una disposizione che prevede, in primo luogo, l’accertamento dello stato di salute del prestatore di lavoro, tanto in presenza di una minorazione, che in caso di aggravamento della stessa ovvero di mutamenti nella organizzazione aziendale.
L’accertamento è effettuato da una commissione di esperti (c.d. commissione sanitaria ai sensi della legge n. 104/1992) e può concludersi con un rilievo circa la non compatibilità tra la condizione psico-fisica del lavoratore e lo svolgimento di attività lavorativa.
Anche la Corte di Cassazione ha più volte ribadito il principio per cui “un soggetto invalido, assunto tramite le liste di collocamento per disabili, può essere licenziato solo se l’impossibilità di reinserimento all’interno dell’azienda viene accertata da una apposita Commissione medica”[43].
La soluzione offerta dal legislatore è quella della sospensione dal rapporto di lavoro, senza corresponsione della retribuzione, per il periodo di permanenza della incompatibilità. La risoluzione del contratto di lavoro si verifica qualora non sia possibile reinserire il lavoratore all’interno della struttura aziendale, nonostante gli accomodamenti proposti dal datore di lavoro rispetto all’organizzazione del lavoro. La previsione di un adeguamento della organizzazione aziendale ai bisogni del lavoratore disabile è valorizzata anche in fase di assunzione[44].
Il lavoratore disabile non può essere chiamato a svolgere mansioni incompatibili con il proprio stato di salute e, se demansionato, ha diritto alla retribuzione corrispondente alla categoria a cui appartiene. Tuttavia, laddove potesse essere adibito a nuove e diverse mansioni rispetto a quelle di iniziale inquadramento, il datore di lavoro ha l’onere di provvedervi. Questa conclusione è stata prospettata anche dalla Suprema Corte, la quale ha sostenuto la tesi del giudice di merito, ritenendo “illegittimo il licenziamento intimato” dal datore di lavoro “per sopravvenuta inidoneità fisica alle mansioni” del lavoratore, in quanto il datore di lavoro aveva “dimostrato di poter adibire il lavoratore ad altre mansioni, compatibili con le menomazioni fisiche, il che coincide con gli accorgimenti ragionevoli esigibili in base”[45] alla legge. D’altra parte, la giurisprudenza rileva come “la sussistenza del giustificato motivo oggettivo di licenziamento, consistente nell’inidoneità permanente del lavoratore allo svolgimento delle mansioni per sopravvenuta infermità, implica l’impossibilità di adibizione del lavoratore medesimo ad altra attività riconducibile, alla stregua dell’interpretazione del contratto secondo buona fede, alle mansioni assegnate o a quelle equivalenti, ovvero, in mancanza, riconducibile a mansioni inferiori, purché tale diversa attività sia utilizzabile nell’impresa secondo l’assetto organizzativo insindacabilmente stabilito dall’imprenditore”[46].
A questo proposito, la Corte di Cassazione ha sancito il principio per cui “nel caso di licenziamento di un invalido per mancanza di posti compatibili con la sua menomazione […] l’onere probatorio gravante sul datore di lavoro riguarda l’impossibilità di utilizzare il prestatore di lavoro licenziato in altre mansioni compatibili con la qualifica rivestita”[47].
La protezione del lavoratore contro il licenziamento illegittimo è oggetto delle sopracitate disposizioni di cui al Jobs Act e all’art. 18 della legge n. 300/1970, che si applica ai prestatori di lavoro assunti prima del 7 marzo 2015, termine previsto dal regime transitorio di cui al D. Lgs. n. 23/2015.
Tale protezione si fonda sul motivo del licenziamento: invero, in assenza di una giustificazione oggettiva, è prevista la reintegrazione nel posto di lavoro, con condanna del datore di lavoro al pagamento delle retribuzioni – pari ad almeno cinque mensilità –, al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali e dei premi di natura assicurativa.
Tuttavia, il lavoratore può rinunciare alla reintegrazione, ricevendo, a titolo di indennità con funzione di risarcimento, il pagamento di una somma corrispondente a quindici mensilità, in base all’ultima busta paga utile per la determinazione del trattamento di fine rapporto (TFR).
Se il rapporto di lavoro ha avuto inizio a far data dal 7 marzo 2015, si applica la norma di cui all’art. 2 del D. Lgs. n. 23/2015, con reintegrazione e indennità risarcitoria, come indicato in precedenza.
Questa soluzione opera anche nel caso di licenziamento intimato per riduzione del personale in base ai criteri previsti dall’accordo sindacale o, in mancanza di esso, dalla legge ex art. 5, comma 1, legge n. 223/1991.
Nell’ipotesi di licenziamento ai sensi dell’art. 4, comma 12, della legge n. 223/1991, ossia affetto da vizi procedurali ovvero da erronea scelta del prestatore di lavoro secondo quanto stabilito dall’accordo sindacale o dalla legge (il riferimento è all’art. 5, comma primo, della medesima legge), si applica l’art. 3, comma 1, del D. Lgs. n. 23/2015, letto nella prospettiva della giurisprudenza costituzionale[48], per cui è corrisposta al lavoratore un’indennità risarcitoria consistente nella corresponsione di una somma pari a tre mesi di retribuzione per ogni anno di attività lavorativa, a partire da un minimum di sei mesi e fino a un massimo di trentasei mensilità, senza oneri contributivi. Questa indennità non deve essere calcolata solo alla stregua degli anni di servizio (anzianità), ma secondo la Corte costituzionale può essere aumentata in base ad altri criteri, indicati all’art. 8 della legge n. 604/1996, quali – per esempio – il numero di lavoratori dipendenti occupati dall’impresa, la condotta delle parti del rapporto di lavoro e l’ambito socio-economico in cui opera l’azienda.
5. Tutela del lavoratore disabile e obbligo di repêchage: l’orientamento della Suprema Corte
Come rilevato in precedenza, il datore di lavoro è gravato dall’onere di dimostrare ex art. 5 della legge n. 604/1966 l’esistenza di un giustificato motivo per il licenziamento del lavoratore.
Nel caso del lavoratore disabile, occorre anche provare che all’interno dell’organigramma aziendale e rispetto alle mansioni di competenze dei singoli lavoratori, non sia possibile procedere a una ricollocazione del lavoratore, per esempio adibendo lo stesso a mansioni diverse, equivalenti o inferiori, rispetto a quella svolta fino all’insorgere della condizione di disabilità. La mansione, come già ricordato, deve essere infatti appropriata al nuovo stato di salute del datore di lavoro e non deve in alcun modo comprometterlo. Dunque, l’obbligo di repêchage è strettamente legato al giustificato motivo oggettivo posto alla base del licenziamento. Esso, tuttavia, non sussiste nei confronti di tutti i lavoratori: è infatti escluso per i dirigenti.
Il ripescaggio si traduce, quindi, in un onus di carattere processuale, che opera sul piano probatorio[49], a carico del datore di lavoro.
Difatti, come rilevato dalla giurisprudenza di merito, “onere di allegazione ed onere probatorio non possono che incombere sulla medesima parte, nel senso che chi ha l’onere di provare un fatto primario (costitutivo , modificativo o estintivo del diritto azionato), ha altresì l’onere della relativa compiuta allegazione, non incombe sul lavoratore licenziato per giustificato motivo oggettivo, ex art. 3, seconda parte l. 604/1966, l’onere di segnalare le postazioni di lavoro – analoghe a quella soppressa ed alla quale era adibito – cui essere utilmente riallocato (cd. obbligo del repechage) in alternativa al licenziamento”[50]. I giudici di legittimità hanno avuto poi cura di evidenziare che “spetta al datore di lavoro l’allegazione e la prova dell’impossibilità di repêchage del lavoratore licenziato, in quanto requisito del giustificato motivo di licenziamento, con esclusione di un onere di allegazione al riguardo del secondo, essendo contraria agli ordinari principi processuali una divaricazione tra i due suddetti oneri, entrambi spettanti alla parte deducente”[51].
Il datore di lavoro è chiamato a dimostrare “non solo che al momento del licenziamento non sussisteva alcuna posizione di lavoro analoga a quella soppressa alla quale avrebbe potuto essere assegnato il lavoratore licenziato per l’espletamento di mansioni equivalenti a quelle svolte, ma anche di aver proposto allo stesso la possibilità di un suo impiego in mansioni inferiori rientranti nel suo bagaglio professionale, e che il lavoratore le abbia rifiutate”[52] (c.d. mancanza del patto di demansionamento).
La dequalificazione, laddove accettata dal lavoratore disabile, costituirebbe l’”unico mezzo per garantire al disabile la conservazione del posto di lavoro e la piena uguaglianza con gli altri lavoratori”, in piena linea con quanto previsto dall’art. 2103 c.c.; essa sarebbe, inoltre, “sorretta, oltre che dal consenso del prestatore, anche dall’interesse che questi possiede nell’essere ricollocato in una posizione lavorativa consona alle sue minorazioni”[53].
Occorre considerare anche il versante contrario, ossia l’inesistenza di un diritto del lavoratore, stricto sensu inteso, a beneficiare del mutamento delle mansioni “in relazione alle sue condizioni fisiche o psichiche”: a parere della Suprema Corte, “l’art. 2103 cod. civ. implica sì la possibilità da parte del datore di lavoro di variare, seppure mai in peggio, le mansioni del lavoratore, ma non implica il diritto di quest’ultimo al mutamento, neppure al fine di evitare il licenziamento”[54]. In tale caso, soccorre l’istituto del repêchage, che trova il proprio fondamento giuridico nella legislazione speciale.
Il ripescaggio realizza un risultato concreto, consistente nella ricollocazione del prestatore di lavoro, coerentemente con il disposto di cui all’art. 1, comma 7, della legge n. 68/1999, la quale prevede che “i datori di lavoro, pubblici e privati, sono tenuti a garantire la conservazione del posto di lavoro a quei soggetti che, non essendo disabili al momento dell’assunzione, abbiano acquisito per infortunio sul lavoro o malattia professionale eventuali disabilità”.
Si tratta, in altre parole, di una soluzione di ultima ratio che potrebbe impedire il recesso dal rapporto di lavoro e, dunque, il licenziamento del lavoratore.
Il ripescaggio è stato soggetto a diverse interpretazioni dottrinali.
Secondo alcuni, esso “è da considerarsi un vero e proprio presupposto di legittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, mentre in base ad una seconda lettura, esso si configurerebbe quale limite ulteriore all’esercizio del potere di recesso”[55].
Quanto alle origini dell’istituto, il repêchage ha derivazione giurisprudenziale[56], ma nel caso dei lavoratori che versano in stato di disabilità a causa di una malattia o di un infortunio esso trova esplicita disciplina legislativa, ai sensi dell’art. 4, comma 4, della legge n. 68/1999.
Osserva la dottrina che “i lavoratori che divengono inabili allo svolgimento delle proprie mansioni in conseguenza di infortunio o malattia non possono essere computati nella quota di riserva di cui all’art. 3 della stessa legge se hanno subito una riduzione della capacità lavorativa inferiore al sessanta per cento, o comunque se la loro infermità deriva dall’inadempimento da parte del datore di lavoro, accertato in sede giurisdizionale, delle norme in materia di sicurezza e di igiene del lavoro. Per i predetti lavoratori l’inabilità derivante dall’infortunio o dalla malattia non costituisce un giustificato motivo oggettivo di licenziamento nel caso in cui essi possano essere adibiti a mansioni equivalenti, ovvero, in mancanza, a mansioni inferiori, con diritto in ogni caso alla conservazione della retribuzione goduta in precedenza […]”[57].
La dottrina ha tentato a più riprese di definire il contenuto, la portata e l’estensione dell’obbligo di ripescaggio[58]. In materia di licenziamento del lavoratore disabile, sostanziali risposte sono state offerte del legislatore.
Ai fini del ripescaggio, deve “essere presa in considerazione l’organizzazione nella sua totalità, e non soltanto l’articolazione, il reparto, l’ufficio, o la sede cui era precedentemente addetto il lavoratore licenziato, salva l’ipotesi di un rifiuto pregiudiziale del lavoratore a trasferirsi altrove”[59].
Più nel dettaglio, “le posizioni di lavoro da prendere in considerazione e di cui valutare la disponibilità sono […] quelle in cui è richiesta l’esecuzione di mansioni identiche, simili o comprese nella stessa qualifica del lavoratore estromesso, […] con la precisazione che, pur in questi limiti, non devono essere prese in considerazione le mansioni che impongano al datore di lavoro una retribuzione più elevata e dunque un maggior onere economico”; inoltre, “è escluso che sul datore gravi un obbligo di formazione, per rendere il dipendente idoneo ad ulteriori e diverse mansioni rispetto a quelle di provenienza”[60].
Coerentemente, la Suprema Corte sostiene che “l’obbligo di repechage va circoscritto limitatamente alle attitudini ed alla formazione di cui il lavoratore è dotato al momento del licenziamento con esclusione dell’obbligo del datore di lavoro a fornire tale lavoratore di un’ulteriore o diversa formazione per salvaguardare il suo posto di lavoro”[61].
Il datore di lavoro non ha l’obbligo di modificare o alterare l’organizzazione aziendale per evitare il licenziamento del lavoratore con disabilità, laddove tali mutamenti siano fonte di un “onere sproporzionato” per l’impresa. L’obbligo gravante sul datore di lavoro permette di tutelare i lavoratori disabili, ma d’altra parte può determinare una circoscritta tutela degli interessi imprenditoriali. Nella prospettiva di un bilanciamento tra queste istanze apparentemente contrapposte, si applica la nozione di “accomodamento ragionevole”, inteso quale insieme di “modifiche e adattamenti necessari ed appropriati che non impongano un onere sproporzionato o eccessivo, ove ve ne sia necessità in casi particolari, per assicurare alle persone con disabilità il godimento e l’esercizio, su base di eguaglianza con gli altri, di tutti i diritti umani e libertà fondamentali” (art. 2, Convenzione sui diritti delle persone con disabilità del 2006). Questa nozione è richiamata dalla sentenza in commento, in cui la Suprema Corte tratta di “adeguamenti, latu sensu, organizzativi che […] si caratterizzano per la loro appropriatezza, ovvero per la loro idoneità a consentire alla persona svantaggiata di svolgere l’attività lavorativa”[62].
Anche il legislatore europeo ribadisce tale principio, prevedendo che “per garantire il rispetto del principio della parità di trattamento dei disabili, sono previsti accomodamenti ragionevoli. Ciò significa che il datore di lavoro prende i provvedimenti appropriati, in funzione delle esigenze delle situazioni concrete, per consentire alle persone con disabilità di accedere ad un lavoro, di svolgerlo o di aver una promozione o perché possano ricevere una formazione, a meno che tali provvedimenti richiedano da parte del datore di lavoro un onere finanziario sproporzionato. Tale soluzione non è sproporzionata allorché l’onere è compensato in modo sufficiente da misure esistenti nel quadro della politica dello Stato membro a favore delle persone con disabilità” (art. 5 della Direttiva 2000/78/CE)[63].
La giurisprudenza della Corte di giustizia della UE ha evidenziato come gli Stati membri debbano inserire nel proprio quadro normativo “un obbligo per i datori di lavoro di adottare provvedimenti appropriati, cioè provvedimenti efficaci e pratici, ad esempio sistemando i locali, adattando le attrezzature, i ritmi di lavoro o la ripartizione dei compiti in funzione delle esigenze delle situazioni concrete, riducendo l’orario di lavoro, per consentire ai disabili di accedere ad un lavoro, di svolgerlo, di avere una promozione o di ricevere una formazione, con il solo limite di imporre al datore di lavoro un onere sproporzionato”[64].
Il legislatore italiano ha provveduto in questo senso con il D. Lgs. n. 216/2003, attraverso la già citata disposizione prevista dall’art. 3, che definisce l’obbligo di accomodamenti ragionevoli.
In definitiva, l’obbligo di repêchage deve essere contemperato e opportunatamente limitato alla luce della “ragionevolezza dell’operazione, che non deve comportare rilevanti modifiche organizzative ovvero ampliamenti di organico o innovazioni strutturali non volute dall’imprenditore”[65].
Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo che derivi dalla mancata osservanza dell’obbligo di repêchage può essere ritenuto, oltrechè illegittimo, anche discriminatorio ex art. 15, ultimo comma, della legge n. 300/1970. Esso, dunque, può dare luogo alla tutela prevista dall’art. 18, commi 1 e 2, dello Statuto dei Lavoratori (tutela reintegratoria) e al riconoscimento di una somma a titolo di risarcimento del danno non patrimoniale patito dal lavoratore a causa della discriminazione subita ai sensi dell’art. 4, comma 2, D. Lgs. 216/2003, come modificato dall’art. 28 del D. Lgs. 150 del 1° settembre 2011. Le conseguenze che discendono dalla violazione dell’obbligo di repêchage operano con funzione sanzionatoria nei confronti del datore di lavoro. Occorre tuttavia osservare che soltanto nell’ipotesi di “manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento” sarà possibile ricorrere alla tutela reintegratoria; diversamente, ovverosia nelle “altre ipotesi” si applicherà la tutela economica, con riconoscimento al lavoratore di un’indennità.
Nel silenzio del legislatore, la dottrina ha cercato di delineare i confini del “fatto posto a base del licenziamento”, in particolare interrogandosi sulla possibilità che esso possa consistere anche nella mancata osservanza da parte del datore di lavoro dell’obbligo di ripescaggio.
Quanto alla giurisprudenza, i giudici di merito hanno prospettato soluzioni diverse e oscillanti: da un lato, assegnando una tutela meramente economica al lavoratore non ricollocato[66]; dall’altro, ammettendo la tutela reintegratoria ai sensi dell’art. 18, comma 4 e comma 7, dello Statuto dei Lavoratori[67].
Sul punto, è intervenuta la Suprema Corte a statuire che “la verifica del requisito della ‘manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento’ concerne entrambi i presupposti di legittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo e, quindi, sia le ragioni inerenti all’attività produttiva, l’organizzazione del lavoro e il regolare funzionamento di essa sia l’impossibilità di ricollocare altrove il lavoratore”[68].
Pertanto, a parere della Corte di Cassazione, l’inadempimento dell’obbligo di repêchage può comportare la reintegrazione del lavoratore sul posto di lavoro[69]. Se, invece, cui “il cd. ripescaggio (o repechage) non sia possibile, il recesso sarà considerato legittimo”[70]. Nella specie, la Suprema Corte ha rilevato che tale legittimità sussiste quando: a) mancano posizioni nell’organico aziendali a cui assegnare il lavoratore[71]; b) l’adozione di una nuova organizzazione aziendale risulta gravosa sotto il profilo finanziario; c) la nuova organizzazione aziendale può essere pregiudizievole per altri lavoratori[72].
La dottrina ha precisato che “la prova dell’impraticabilità degli adattamenti necessari […] dovrà […] essere fornita dal datore di lavoro in termini concreti e rigorosi, tenendo conto, quindi, di tutte le soluzioni effettivamente disponibili, tutti i concreti accorgimenti o adattamenti che siano stati prospettati come possibili, praticabili e ragionevoli dal lavoratore […]”[73]. A parere dei giudici di legittimità, nel caso oggetto della sentenza n. 6497/2021, tale rigorosità non è stata osservata dal datore di lavoro, che si è limitato a intimare il licenziamento dopo aver verificato l’inesistenza di posti in organico a cui assegnare il lavoratore divenuto inabile a svolgere le mansioni precedentemente assegnate. Inoltre, il datore di lavoro ha omesso di dimostrare che gli accomodamenti richiesti avrebbero determinato un onere sproporzionato per l’attività d’impresa, ossia eccessivi rispetto alle risorse dell’azienda e alle dimensioni della medesima.
La Corte pone l’accento anche sul concetto di ragionevolezza, “atteso che se l’unica ragione per esonerare il datore di lavoro da porre in essere l’adattamento fosse l’onere ‘sproporzionato’, allora non sarebbe stato necessario aggiungere il ‘ragionevole’”[74] nel descrivere il tipo di accomodamenti richiesti al datore di lavoro.
Difatti, “non può escludersi che, anche in presenza di un costo sostenibile, circostanze di fatto rendano la modifica organizzativa priva di ragionevolezza, avuto riguardo, ad esempio, all’interesse di altri lavoratori eventualmente coinvolti”[75]. Pertanto, gli accomodamenti devono essere ragionevoli e non comportare un onere sproporzionato per il datore di lavoro. La Corte rileva che “il diritto del lavoratore disabile all’adozione di accorgimenti che consentano l’espletamento della prestazione lavorativa trova un limite all’interno dell’organizzazione dell’impresa, ed in particolare negli equilibri finanziari dell’impresa stessa […] nonché nel diritto degli altri lavoratori alla conservazione delle mansioni assegnate e, in ogni caso, di mansioni che ne valorizzino l’esperienza e la professionalità acquisita”[76].
Si tratta di un delicato equilibrio tra interessi diversi, che il datore di lavoro deve assicurare attraverso tutte le valutazioni necessarie in relazione alla situazione contingente. A tal fine, la Corte riporta l’attenzione sui criteri per individuare la ragionevolezza dell’operazione di accomodamento, sostenendo che essa deve fondarsi su un bilanciamento tra interesse del datore di lavoro ex art. 41 Cost. e diritto del lavoratore al mantenimento della occupazione, presidiato da norme costituzionali a tutela del lavoro, nella specie agli artt. 4 e 35 Cost. La ragionevolezza è valutata alla stregua dei principi di correttezza e bona fides ai sensi degli artt. 1175 e 1375 c.c.
Come osservato dalla dottrina, “il contemperamento degli interessi, attraverso una adeguata valutazione di quelli dell’altra parte, deve tradursi in un comportamento attivo del datore di lavoro nella ricerca degli accomodamenti che consentano comunque di preservare l’utilità della prestazione lavorativa, senza pregiudicare le situazioni soggettive degli altri lavoratori”[77].
Tuttavia, il datore di lavoro non ha assunto la condotta raccomandata, non avendo individuato gli adattamenti necessari per consentire il ripescaggio del prestatore di lavoro. Le prove dallo stesso addotte, a parere della Corte, non dimostrano un impegno “diligente ed esigibile per trovare una soluzione organizzativa appropriata, che scongiurasse il licenziamento, avuto riguardo ad ogni circostanza rilevante nel caso concreto”[78].
Il diritto alla conservazione del posto da parte del lavoratore non ha trovato alcuna soddisfazione, non avendo provveduto il datore di lavoro al repêchage richiesto ex lege, ricorrendo gli estremi per l’applicazione dell’art. 3, comma 3 bis, del D. Lgs. n. 216/2003. Il datore di lavoro di lavoro non ha assolto a pieno l’onus probandi a suo carico, consistente nel dimostrare la sussistenza della oggettiva giustificazione del licenziamento ex art. 5 della Legge n. 604/1966, derivanti dalla impossibilità di adibire il prestatore di lavoro ad altre mansioni, stante il sopravvenuto stato di disabilità di quest’ultimo, e allo stesso tempo, di provvedere agli opportuni accomodamenti ragionevoli sotto il profilo organizzativo.
Per queste ragioni, la Suprema Corte di Cassazione ha confermato l’orientamento dei giudici di merito, rilevando la illegittimità del licenziamento del dipendente della società ASF Autolinee S.r.l., con conseguente condanna del datore di lavoro alla reintegrazione del prestatore nel posto di lavoro.
6. Conclusioni
La sentenza n. 6497/2021 mostra la complessità delle questioni che concernono il licenziamento di un lavoratore disabile. L’esistenza di una norma ad hoc dedicata al repêchage mette in luce la particolare attenzione che il legislatore riserva a protezione di questa categoria di prestatori di lavoro, ma allo stesso tempo rileva criticità applicative a situazioni di specie in assenza di chiare indicazioni normative circa alcuni elementi, quali il concetto di onere sproporzionato e di ragionevolezza degli accomodamenti.
Grazie all’interpretazione della Suprema Corte, i contorni definitori di tali nozioni appaiono più chiari e consentono di tracciare in modo più delineato gli obblighi a carico del datore di lavoro, oltreché di realizzare in concreto il bilanciamento tra diritti del lavoratore e interessi del datore di lavoro.
[1] Ciro Punzo, già Dottore di Ricerca in Diritto Privato Comparato, attualmente Post Dottorato in Diritto Privato, è autore del 1° e 2° paragrafo; Francesca Di Santo, Dirigente Amministrativo ASL, è autore del 3° paragrafo; MariaGiusy Guarente, Dirigente Avvocato Asl, è autore del 4° paragrafo, Marcello Abbondandolo, Dirigente Avvocato Asl, è autore del 5° e 6° paragrafo.
[2] App. Milano, sentenza n. 1503/2018, depositata il 01/10/2018.
[3] La norma, nella nuova formulazione, regolamenta il regime sanzionatorio che si applica in caso di licenziamento illegittimo di un prestatore di lavoro, regolarmente assunto con contratto a tempo indeterminato prima del 7 marzo 2015. Essa recita, al comma 4: Il giudice, nelle ipotesi in cui accerta che non ricorrono gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa addotti dal datore di lavoro, per insussistenza del fatto contestato ovvero perché il fatto rientra tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili, annulla il licenziamento e condanna il datore di lavoro alla reintegrazione nel posto di lavoro di cui al primo comma e al pagamento di un’indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione, dedotto quanto il lavoratore ha percepito, nel periodo di estromissione, per lo svolgimento di altre attività lavorative, nonché quanto avrebbe potuto percepire dedicandosi con diligenza alla ricerca di una nuova occupazione. In ogni caso la misura dell’indennità risarcitoria non può essere superiore a dodici mensilità della retribuzione globale di fatto. Il datore di lavoro è condannato, altresì, al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali dal giorno del licenziamento fino a quello della effettiva reintegrazione, maggiorati degli interessi nella misura legale senza applicazione di sanzioni per omessa o ritardata contribuzione, per un importo pari al differenziale contributivo esistente tra la contribuzione che sarebbe stata maturata nel rapporto di lavoro risolto dall’illegittimo licenziamento e quella accreditata al lavoratore in conseguenza dello svolgimento di altre attività lavorative. In quest’ultimo caso, qualora i contributi afferiscano ad altra gestione previdenziale, essi sono imputati d’ufficio alla gestione corrispondente all’attività lavorativa svolta dal dipendente licenziato, con addebito dei relativi costi al datore di lavoro. A seguito dell’ordine di reintegrazione, il rapporto di lavoro si intende risolto quando il lavoratore non abbia ripreso servizio entro trenta giorni dall’invito del datore di lavoro, salvo il caso in cui abbia richiesto l’indennità sostitutiva della reintegrazione nel posto di lavoro ai sensi del terzo comma”.
[4] Ibidem.
[5] Tarquini, Oltre un intangibile confine: principio paritario, ragionevoli accomodamenti e organizzazione dell’impresa. Nota a Cass. 6497/2021, in Questione giustizia, 2021, www.questionegiustizia.it.
[6] Direttiva 2000/78/CE del Consiglio, del 27 novembre 2000, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro (in Gazzetta ufficiale delle Comunità Europee, L 303, 02/12/2000 pp. 16-22).
[7] Il datore di lavoro dovrebbe adottare “misure appropriate, ossia misure efficaci e pratiche destinate a sistemare il luogo di lavoro in funzione dell’handicap, ad esempio sistemando i locali o adattando le attrezzature, i ritmi di lavoro, la ripartizione dei compiti o fornendo mezzi di formazione o di inquadramento”.
[8] “Per determinare se le misure in questione danno luogo a oneri finanziari sproporzionati, è necessario tener conto in particolare dei costi finanziari o di altro tipo che esse comportano, delle dimensioni e delle risorse finanziarie dell’organizzazione o dell’impresa e della possibilità di ottenere fondi pubblici o altre sovvenzioni”.
[9] Art. 2697 c.c.: “Chi vuol far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento. Chi eccepisce l’inefficacia di tali fatti ovvero eccepisce che il diritto si è modificato o estinto deve provare i fatti su cui l’eccezione si fonda”.
[10] Si veda infra, par. 5 del presente lavoro.
[11] La Legge detta Norme per il diritto al lavoro dei disabili (in Gazzetta Ufficiale del 23/03/1999).
[12] Cass. civile, sez. Lavoro, sentenza n. 6497, 09/03/2021, punto 5.6.
[13] Art. 23 Cost.: “Nessuna prestazione personale o patrimoniale può essere imposta se non in base alla legge”.
[14] Tamborrino, Lavoro e disabilità. Illegittimo il licenziamento per sopravvenuta inidoneità fisica – Cassazione, Sez. Lav., sentenza n. 6497/2021, in Persona e Danno, 2021, in www.personaedanno.it
[15] Ibidem.
[16] Cass. civile, sentenza n. 2210/2016 e sentenza n. 17867/2016.
[17] Ratifica ed esecuzione della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, con Protocollo opzionale, fatta a New York il 13 dicembre 2006 e istituzione dell’Osservatorio nazionale sulla condizione delle persone con disabilità), in Gazzetta Ufficiale, n. 61 dl 14/03/2009.
[18] Cfr. in dottrina Kayess, French, Out of Darkness into Light? Introducing the Convention on the Rights of Persons with Disabilities, in Human Rights Law Review, n. 8, 2008, pp. 1-34.
[19] Colapietro, Diritto al lavoro dei disabili e Costituzione, in DLRI, n. 124, 2009, p. 619.
[20] Si veda la Decisione 2010/48/CE del Consiglio del 26 novembre 2009, relativa alla conclusione, da parte della Comunità europea, della convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità (in Gazzetta Ufficiale delle Comunità Europee, L 23, 27/01/2010).
[21] Corte di giustizia, causa C-335/2011, 11/4/2013.
[22] Corte di giustizia, causa C-354/13, 18/12/2014.
[23] Corte di giustizia, cause riunite C-335/11 e C337/11, 11/04/2013.
[24] Del resto, come osservato dalla dottrina, “il diritto a non essere discriminati appartiene al corpus dei diritti dell’uomo”, indipendentemente dalle condizioni di disabilità. Si tratta, infatti, di “quell’insieme di principi e diritti che devono essere garantiti in quanto presupposto ineliminabile di un’esistenza libera all’interno della comunità di appartenenza (l’ambiente di lavoro, la famiglia, la scuola, etc.)” (Perulli, Brino, Manuale di diritto internazionale del lavoro, Giappichelli, 2013, p. 50).
[25] La CEDU ha richiesto la “istituzione di organismi sovranazionali per la tutela [dei] diritti da essa enunciati”: la Commissione, “incaricata di sorvegliare l’adeguamento degli Stati membri ai principi e ai diritti contenuti nella Convenzione e di vagliare i ricorsi per violazioni presentati da uno Stato contro un altro Stato”, e l’organo giurisdizionale, ossia la Corte di giustizia “riceve e giudica su ricorsi presentati contro i governi e le istituzioni statali europee da individui […] che ritengono di aver subito una lesione dei propri diritti” previsti dalla Carta (Facchi, Breve storia dei diritti umani, Il Mulino, 2007, p. 140).
[26] Per mezzo del combinato tra art. 14 e art. 8 CEDU (norma che riconosce il diritto a una vita privata e familiare), i Giudici della Corte europea dei diritti dell’uomo hanno sostenuto la possibilità che il principio di non discriminazione potesse essere esteso fino a includere anche i casi di disabilità psico-fisica (sentenza sul ricorso n. 13444/04, Glor c. Suisse, 20/04/2009).
[27] Si veda Olivetti, Art. 26. Inserimento dei disabili, in Bifulco, Cartabia, Celotto (a cura di), L’Europa dei diritti. Commento alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, Il Mulino, 2001, p. 202.
[28] Avio, I lavoratori disabili tra vecchie e nuove discipline, in Ballestrero, Balandi (a cura di), I lavoratori svantaggiati tra eguaglianza e diritto diseguale, Il Mulino, 2005, p. 159.
[29] Ferri, L’Unione europea e i diritti delle persone con disabilità: brevi riflessioni a vent’anni dalla prima ‘Strategia’, in Politiche sanitarie, fasc. 17, n. 2, 2016, p. 119. Cfr. anche Vanhala, The Diffusion of Disability Rights in Europe, in Human Rights Quarterly, vol. 37, 2015, pp. 831-853.
[30] Corte di giustizia, Sonia Chacón Navas c. Eurest Colectividades SA, causa C-13/05, 11 luglio 2006, in Raccolta della giurisprudenza della Corte di giustizia, 2006, p. I-06467, par. 43-44.
[31] È stato osservato come da un iniziale “riferimento al deficit da cui la persona è colpita, assumendolo […] a caratteristica identificante la stessa in via esclusiva (sordo, cieco)”, il legislatore è passato a “una qualificazione più generale ed unitaria, fondata sulla situazione di svantaggio che colpisce la persona (handicappato), per approdare infine […] a distinguere la persona dalla menomazione da cui è affetta, utilizzando la locuzione ormai pressoché universalmente accettata, in quanto ritenuta la più rispettosa dell’individuo, di persona disabile” (Colapietro, Girelli, Persone con disabilità e Costituzione, Editoriale Scientifica, 2020, p. 30).
[32] La Legge n. 104/1992 è stata pubblicata in Gazzetta Ufficiale del 17/02/1992, n. 39.
[33] L’etimologia del termine handicap deriva dell’inglese e, letteralmente, significa “mano nel cappello”. Essa richiama “un gioco in cui alla presenza di un arbitro un individuo propone ad un altro individuo di acquistare un suo oggetto personale offrendo in cambio un bene qualsiasi che gli appartiene. L’arbitro al termine dell’offerta procede alla valutazione degli oggetti dello scambio; la somma corrispondente alla differenza di valore tra i due oggetti dello scambio; la somma corrispondente alla differenza di valore tra i due oggetti viene collocata all’interno di un cappello” (Cattaneo (a cura di), Terzo settore, nuova statualità e solidarietà sociale, Giuffrè, 2001, p. 141).
[34] Casella, La condizione giuridica della persona con disabilità: evoluzione, problemi e prospettive, in Bio Law Journal. Rivista di BioDiritto, n. 4, 2021 p. 122.
[35] Colapietro, op. cit., p. 613.
[36] Prosegue il commento presentando l’esempio della “locuzione, apparentemente semplice, utilizzata per definire l’handicap in situazione di gravita e generatrice di dubbi e perplessità tra i professionisti sanitari che compongono le Commissioni sanitarie previste dall’art. 4 della Legge n. 104 del 1992, non meno dei cortocircuiti concettuali che portano a confondere l’handicap con l’invalidità civile, […] e l’handicap in situazione di gravità con quelle diversificate situazioni che legittimano la concessione dell’indennità di accompagnamento” (Rossi, Forme della vulnerabilità e attuazione del programma costituzionale, in Rivista Associazione Italiana dei Costituzionalisti, n. 2, 2017, p. 28). Anche il concetto di “diversamente abile” non consente di indicare “con precisione – da un punto di vista giuridico – nessuna categoria. Si tratta di una formula che, seppur utilizzata, non consente al giurista di avere chiaro a chi si riferisca: e la persona invalida? La persona handicappata? Tutte e due? Sul punto ovviamente non può esserci certezza ed è questa la ragione che dovrebbe sconsigliarne l’uso. A ciò deve aggiungersi che, anche da un punto di vista culturale e lessicale, la formula in questione tende a sottolineare la presenza di una presunta diversa abilita di cui la persona sarebbe capace. Nell’era del politicamente corretto, ciò può anche sembrare una rivoluzione positiva: l’impressione, per, e che dietro questa formula si nasconda un velo di ipocrisia che sottolinea comunque l’esistenza di una diversità e, al tempo stesso, non tiene conto del fatto che vi sono anche persone con disabilita che magari abili non sono – esattamente come le persone senza disabilità – ma che comunque rimangono persone” (Arconzo, I diritti delle persone con disabilità. Profili costituzionali, Franco Angeli, 2020, p. 135).
[37] Ai sensi dell’art. 1, Legge n. 604/1966, come modificata ex art. 1, Legge n. 92/2012, “il licenziamento del prestatore di lavoro non può avvenire che per giusta causa ai sensi dell’art. 2119 del Codice civile o per giustificato motivo”. L’art. 3 della medesima legge qualifica quali casi di licenziamento per giustificato motivo quelli in cui sussista un “notevole inadempimento degli obblighi contrattuali” da parte del lavoratore, che comportano la perdita della fides nei confronti dello stesso (giustificato motivo soggettivo), ovvero in cui sussistano ragioni legate all’organizzazione del lavoro, al funzionamento regolare di tale organizzazione e all’attività produttiva (giustificato motivo oggettivo). Quanto alla giusta causa, l’art. 2119 c.c. recita: Ciascuno dei contraenti può recedere dal contratto prima della scadenza del termine, se il contratto è a tempo determinato, o senza preavviso, se il contratto è a tempo indeterminato, qualora si verifichi una causa che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto. Se il contratto è a tempo indeterminato, al prestatore di lavoro che recede per giusta causa compete l’indennità indicata nel secondo comma dell’articolo precedente. Non costituisce giusta causa di risoluzione del contratto il fallimento dell’imprenditore o la liquidazione coatta amministrativa dell’azienda”.
[38] Carinci, Il giustificato motivo oggettivo nel rapporto di lavoro subordinato, Cedam, 2005, p. 1. L’autrice prosegue sostenendo che nell’interpretazione unanime fornita dalla giurisprudenza, la nozione di giustificato motivo oggettivo è del tutto interna all’ordinamento e in nessun caso i giudici verificano se l’atto posto in essere dal datore di lavoro recedente risponda a standards di comportamento generalmente accettati dalla coscienza sociale […] Il modello di giudizio che emerge dalle sentenze muove dall’interpretazione delle norme che pongono la regola del giustificato motivo e mai si avvale di parametri, di standard tratti dal contesto sociale. È allora giocoforza concludere che il giustificato motivo oggettivo, per come interpretato nel diritto vivente, non è una clausola generale in senso tecnico” (Carinci, Clausole generali, certificazione limiti al sindacato del giudice. A proposito dell’art. 30, l.183/2010, in WP Massimo D’Antona 2011, p. 8)
[39] Trib. Pisa, sentenza 16/04/2015, con nota di Cangemi, Riflessioni sul licenziamento per inidoneità psico-fisica: tra ingiustificatezza e discriminatorietà, in Arg. Dir. Lav., 2016, p. 164.
[40] Rammentando, tuttavia, che “non ogni differenza di trattamento costituisce discriminazione, ma solo quella che si traduce in uno svantaggio per il gruppo protetto, con uno spostamento del concetto di uguaglianza dal piano formale a quello sostanziale” (Garofalo, La tutela del lavoratore disabile nel prisma degli accomodamenti ragionevoli, in Arg. Dir. Lav., 2019, p. 21).
[41] Art. 41 Cost.: “L’iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali”.
[42] Cass. civile, sentenza n. 28426, 19/12/2013.
[43] Cass. civile, sentenza n. 8450, 10/04/2014.
[44] Come rilevato dalla Suprema Corte, “il datore di lavoro presso il quale è avviato un invalido per l’assunzione, ai sensi della Legge n. 482/1968, pur non essendo obbligato a riorganizzare i mezzi di produzione per consentire tale assunzione, è tuttavia tenuto a ricercare all’interno dell’azienda mansioni compatibili con le condizioni sanitarie del lavoratore. A questo fine deve, se necessario, procedere a redistribuire gli incarichi tra i lavoratori già in servizio. Ne consegue che occorre accertare se vi siano in azienda mansioni “concretamente disponibili” per le quali il lavoratore avviato sia idoneo, e solo se tale concreta disponibilità sia impossibile l’azienda può rifiutare l’assunzione” (Cass. civile, sentenza n. 24091, 13/11/2009).
[45] Cass. civile, sez. Lavoro, sentenza n. 13649, 21/05/2019.
[46] Cassazione, SS.UU., 7 agosto 1998, n. 7755
[47] Cass. civile, sez. Lavoro, sentenza n. 3030, 29/03/1999, n. 3030, e sentenza n. 8555 del 05/09/1997. Negli stessi termini, si veda la sentenza n. 15049 del 26/06/2009: “Nell’ipotesi di licenziamento di invalido avviato ai sensi della Legge n. 482 del 1968 per giustificato motivo oggettivo, l’onere, che grava sul datore di lavoro, di provare l’impossibilità di collocare in altro modo il lavoratore nell’ambito aziendale deve essere soddisfatto, ove l’azienda si trovi in una situazione di mancata copertura delle aliquote di invalidi previste dalla legge suddetta, tenendo conto che l’invalido deve essere comunque mantenuto in servizio ancorché in posizione meno produttiva rispetto a quella (soppressa) alla quale era in precedenza addetto, a meno che non vi sia la prova della mancanza assoluta nell’ambito dell’intera azienda di mansioni compatibili con lo stato d’invalidità, ancorché corrispondenti a una qualifica inferiore”.
[48] Corte costituzionale, sentenza n. 194/2018.
[49] Secondo la Suprema Corte, si tratterebbe di una “prova negativa”, per cui “il datore di lavoro abbia sostanzialmente l’onere di fornire la prova di fatti e circostanze esistenti di tipo indiziario o presuntivo idonei a persuadere il giudice della veridicità di quanto allegato circa l’impossibilità di una collocazione alternativa del lavoratore nel contesto aziendale” (App. Milano, sez. Lavoro, sentenza n. 1481, 17/07/2019). Inoltre, “grava sul datore di lavoro l’obbligo di provare – in base a circostanze oggettivamente riscontrabili – che il lavoratore non abbia la capacità professionale richiesta per occupare la diversa posizione libera in azienda, altrimenti il rispetto dell’obbligo di repechage’ risulterebbe sostanzialmente affidato ad una mera valutazione discrezionale dell’imprenditore”. Cass. civile, sez. Lavoro, sentenza n. 23340, 27/09/2018. Negli stessi termini si era espresso anche il Trib. Venezia, sez. Lavoro, sentenza n. 358, 13/06/2017 (“L’obbligo di repêchage costituisce un elemento strettamente connesso alle ragioni economiche ed organizzative poste alla base di un licenziamento per giustificato motivo oggettivo. Spetta, pertanto, al datore di lavoro che vuole dimostrare la legittimità dell’atto risolutivo del rapporto, provare non solo la effettiva presenza delle ragioni economiche o organizzative che hanno determinato il licenziamento, ma anche la mancanza di posizioni di lavoro o mansioni libere in azienda e ciò a prescindere dal fatto che il lavoratore ne abbia o meno dedotto l’esistenza in giudizio”).
[50] Trib. Perugia, sez. Lavoro, sentenza n. 292, 05/07/2018.
[51] Cass. civile, sentenza n. 5592, 22/03/2016.
[52] App. Roma, sez. Lavoro, sentenza n. 842, 12/03/2018.
[53] De Falco, L’accomodamento per i lavoratori disabili: una proposta per misurare ragionevolezza e proporzionalità attraverso l’INAIL, in Lavoro Diritti Europa, n. 3, 2021, pp. 10-11.
[54] Cass. civile, sentenza n. 6601, 12/06/1995. Ex art. 2103 c.c. “Il prestatore di lavoro deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o a quelle corrispondenti alla categoria superiore che abbia successivamente acquisito ovvero a mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte, senza alcuna diminuzione della retribuzione. Nel caso di assegnazione a mansioni superiori il prestatore ha diritto al trattamento corrispondente all’attività svolta, e l’assegnazione stessa diviene definitiva, ove la medesima non abbia avuto luogo per sostituzione di lavoratore assente con diritto alla conservazione del posto, dopo un periodo fissato dai contratti collettivi, e comunque non superiore a tre mesi. Egli non può essere trasferito da una unità produttiva ad un’altra se non per comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive. Ogni patto contrario è nullo”. La Corte di Cassazione ha affermato che “l’art. 2103 c.c. si interpreta alla stregua del bilanciamento del diritto del datore di lavoro a perseguire un’organizzazione aziendale produttiva ed efficiente e quello del lavoratore al mantenimento del posto. Ne deriva che, ove il demansionamento costituisca l’unica alternativa al recesso datoriale, non occorre un patto di demansionamento od una richiesta del lavoratore in tal senso anteriore o contemporanea al licenziamento, ma è onere del datore di lavoro, in attuazione del principio di correttezza e buona fede, prospettare al dipendente la possibilità di un reimpiego in mansioni inferiori compatibili con il suo bagaglio professionale” (Cass. civile, sentenza n. 22798, 09/11/2016, e sentenza n. 23698, 19/11/2015). Per una panoramica sul tema, si veda anche Pisani, La nuova disciplina del mutamento delle mansioni, Giappichelli, 2015.
[55] Varva, Sindacato giudiziale e motivo oggettivo di licenziamento, in DLRI, 2011, p. 455.
[56] “Nonostante il suo impiego ormai costante da parte della giurisprudenza, il presupposto giuridico di tale istituto è ancora poco chiaro. Condivisa è l’opinione in base alla quale il tentativo di repechage debba avvenire nell’ambito dell’intero complesso aziendale e non soltanto nell’unità produttiva alla quale il soggetto è addetto” (ibidem).
[57] Marinelli, Insindacabilità delle scelte datoriali e giustificato motivo oggettivo, in Rivista di diritto dell’economia, dei trasporti, dell’ambiente, fasc. VII, 2009, pp. 12-13.
[58] Si vedano Gramano, Natura e limiti dell’obbligo di repêchage, in ADL, n. 6, 2016, p. 1310 ss., e Carinci, L’obbligo di ripescaggio nel licenziamento per giustificato motivo oggettivo di tipo economico alla luce del Jobs Act, in RIDL, 2017, p. 203 ss.
[59] Carinci, op. cit., p. 23.
[60] Ivi, p. 22. L’autrice evidenzia inoltre che talvolta i giudici tendono a riportare “il repechage nell’ambito del nesso causale, di cui esso finisce per concretare l’aspetto negativo: se, sul piano positivo, si deve verificare che il licenziamento colpisca quel determinato lavoratore, e non altri, proprio e soltanto perché la modifica dell’organizzazione rende inutili le sue mansioni specifiche, al tempo stesso, sul piano negativo, si può escludere che il licenziamento colpisca quel lavoratore per ragioni diverse, non correlate alla sua professionalità, solo se risulti che in nessuna divisione dell’impresa quella professionalità è ancora utilizzabile, perché non sono presenti e/o disponibili posizioni lavorative nelle quali si esplichino identiche o analoghe mansioni”.
[61] Cass. civile, sentenza n. 5963, 11/03/2010.
[62] Cass. civile, sentenza n. 6497/2021.
[63] La Direttiva 2000/78/CE delinea le nozioni di discriminazione diretta o indiretta, fondata anche sull’handicap. Ai sensi dell’art. 2, “nel caso di persone portatrici di un particolare handicap, il datore di lavoro o qualsiasi persona od organizzazione a cui si applica la presente Direttiva” è chiamato “dalla legislazione nazionale ad adottare misure adeguate, conformemente ai principi di cui all’art. 5, per ovviare agli svantaggi provocati da tale disposizione, tale criterio o tale prassi”. In termini più generali, il considerando n. 16 sottolinea come “la messa a punto di misure per tener conto dei bisogni dei disabili sul luogo di lavoro” abbia “un ruolo importante nella lotta alla discriminazione fondata sull’handicap”.
[64] Corte di giustizia, causa C-335/2011, 11/4/2013, cit.
[65] Cass. civile, sentenza n. 31521/ 2019.
[66] Cfr. le pronunce del Trib. Milano 28/11/2012 e del Trib. Roma 08/08/2013.
[67] Cfr. Trib. Reggio Calabria 03/06/2013 e Trib. Trento 18/12/2017.
[68] Cass. 2 maggio 2018, n. 10435. La dottrina ha rilevato come “l’impossibilità di distinguere tra “sfera materiale” e “ragione” del licenziamento comporti […] che tutte le ipotesi di mancanza di giustificato motivo oggettivo (l’assenza della soppressione del posto di lavoro o della prova di non poter realizzare il repechage, la volontà di perseguire una mera riduzione dei costi o un incremento dei profitti, ecc.) dovrebbero necessariamente comportare una ‘manifesta insussistenza del fatto’ e, quindi, imporre sempre la reintegra, senza alcun spazio per il risarcimento del danno” (Speziale, Giusta causa e giustificato motivo dopo la riforma dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori, in WP Massimo D’Antona, 2012, pag. 44)
[69] È pur vero che, nel caso di lavoratori assunti dopo l’entrata in vigore del Jobs Act, l’art. 3, comma 1, del D.lgs. n. 23/2015 stabilisce esplicitamente conseguenze indennitarie in ipotesi in cui il licenziamento manchi di giustificato motivo oggettivo; elemento, questo, che escluderebbe la tutela reale per una larga fascia di prestatori di lavoro in ipotesi di violazione dell’obbligo di repêchage da parte del datore di lavoro.
[70] Varva, op. cit., p. 452.
[71] Infatti, il ripescaggio non include “l’obbligo di creare un posto ad hoc per il lavoratore inidoneo, ma solo l’obbligo di cercare una soluzione alternativa al licenziamento […]. La conseguenza di tale impostazione è stata quindi che il lavoratore divenuto inidoneo alla mansione a lui attribuita, se non esistono altre mansioni, anche inferiori disponibili, può essere licenziato” (Lai, Recenti sviluppi in tema di inidoneità sopravvenuta, in Riv. It. Dir. Lav., 2018, p. 39). Questo principio è stato ribadito anche in giurisprudenza: “l’obbligo datoriale di ricercare nel contesto organizzativo aziendale un’altra posizione in cui inserire proficuamente il lavoratore […] non può mai comportare il dovere di modificare la struttura organizzativa esistente al fine di ritagliare nuovi ruoli o mansioni” (App. Milano, 2/02/2017).
[72] Cass. civile, sentenza n. 18556, 10/07/2019. Dulio, L’obbligo di repêchage non può imporre al datore di lavoro oneri sproporzionati tali da superare il principio degli “accomodamenti ragionevoli”, in Dir. Giust., 2020, p. 6, osserva come “la valutazione della proporzionalità e della non eccessività delle misure di adattamento” avvenga con riferimento alla posizione degli “altri lavoratori”, che non possono subire un peggioramento delle condizioni lavorative né essere adibiti a mansioni inferiori.
[73] Giubboni, Il licenziamento per sopravvenuta inidoneità alla mansione dopo la legge Fornero e il Jobs Act, in WP Massimo D’Antona, 2015, p. 13.
[74] Cass. civile, sez. Lavoro, sentenza n. 6497, 09/03/2021.
[75] Ibidem.
[76] Cass. civile, sez. Lavoro, sentenza n. 6497, 09/03/2021.
[77] Diamanti, Gli “accomodamenti ragionevoli” nel licenziamento per inidoneità sopravvenuta tra indicazioni di metodo e concrete valutazioni, in Lavoro, Diritti, Europa, n. 3, 2021, p. 13.
[78] Cass. civile, sez. Lavoro, sentenza n. 6497, 09/03/2021.
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