Mansioni, demansionamento e risarcimento del danno

Mansioni, demansionamento e risarcimento del danno

Da diverso tempo la regolamentazione civile in tema di mansioni si è trasformata in un complesso ed articolato turbinio di atti legislativi ed arresti del Giudice di legittimità che hanno dato origine a trattamenti diversificati sotto molteplici punti di vista.

Infatti, seppur la definizione delle mansioni rimane immutata, intesa quale insieme dei compiti e delle specifiche attività, determinate o determinabili, che il prestatore di lavoro deve eseguire nell’ambito del rapporto, la disciplina inerente il mutamento e il trasferimento delle stesse ha subito notevoli cambiamenti, in ultimo attraverso il d.lgs. 81/2015.

Il regime antecedente, disciplinato dall’art. 2103 c.c., così come modificato dallo Statuto dei Lavoratori del 1970, limitava il potere datoriale prevedendo il principio di equivalenza, in virtù del quale il datore aveva la facoltà di adibire il lavoratore non soltanto alle mansioni di assunzione ma anche a quelle equivalenti alle «ultime effettivamente svolte», ovverosia quelle previste dalla qualifica e riconducibili a quel preciso contratto, quelle che il lavoratore stava effettivamente prestando al momento dell’esercizio del potere di mutamento del datore di lavoro, senza alcuna diminuzione della retribuzione. Oggi, il Jobs Act ha eliminato il principio di equivalenza, consentendo al datore di modificare le mansioni con quelle appartenenti allo stesso livello di inquadramento.

Nel precedente art. 2103 cc. non era possibile l’assegnazione a mansioni inferiori neppure con il consenso del lavoratore o delle organizzazioni sindacali, se non per far fronte ad esigenze temporanee e eccezionali, comunque con il mantenimento di qualifica e retribuzione originarie.

La Corte di Cassazione, con sentenza n. 2948 del 2001, aveva ammesso diverse deroghe a favore del prestatore laddove ne concretizzavano un male minore, affermando che anche a livello individuale sarebbero possibili assegnazioni a mansioni inferiori, se disposte per realizzare un equilibrio tra diritto del datore di lavoro ad una gestione razionale ed efficiente delle risorse ed il diritto al posto di lavoro1. La nuova disposizione codicistica prevede la possibilità, in caso di modifica degli assetti organizzativi aziendali che incida sulla posizione del lavoratore, di assegnare il lavoratore a mansioni appartenenti al livello di inquadramento inferiore, purché rientranti nella medesima categoria legale. Inoltre, la variazione di mansioni, dello stesso livello o di livello inferiore, deve essere accompagnata dall’assolvimento dell’obbligo formativo, il cui mancato adempimento non determina comunque la nullità dell’atto di assegnazione delle nuove mansioni. Solo nel caso di assegnazione a mansioni inferiori il mutamento deve essere comunicato, pena nullità, in forma scritta.

La novità maggiore rispetto alla disciplina previgente è rappresentata dal sesto comma che consente alle parti di sottoscrivere un accordo di modifica delle mansioni, della categoria legale, del livello di inquadramento e della relativa retribuzione, nell’interesse del lavoratore alla conservazione del posto di lavoro, all’acquisizione di una diversa professionalità o al miglioramento delle condizioni di vita. Di notevole importanza è il settimo comma, il quale modifica la disciplina di assegnazione a mansioni superiori, raddoppiando il termine massimo, ora pari a sei mesi previsti espressamente come continuativi, che fa scattare il diritto alla promozione automatica. Ed, inoltre, il lavoratore ha diritto a non consolidare in modo definito l’assegnazione a mansioni superiori. Infine, l’ ultimo comma del nuovo art. 2103 c.c. pone la nullità di ogni patto contrario alle previsioni precedenti, con la conseguenza del divieto di demansionamento nei casi non previsti dal dato normativo. Ne consegue che il demansionamento illegittimo integra un’ipotesi di responsabilità contrattuale in capo al datore di lavoro, il quale è tenuto a risarcire il danno al lavoratore.

Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con sentenza n. 6572 del 2006, hanno elaborato le varie categorie di danno derivanti da demansionamento illegittimo2. Il primo genus di danno risarcibile è quello professionale suddiviso in due species: nel pregiudizio derivante dalla perdita della capacità professionale e nel pregiudizio subito da perdita di chance. Il secondo comprende le varie tipologie di danno non patrimoniale. Infatti, il demansionamento determina un danno biologico poiché fonte di alterazioni dell’integrità psico-fisica del lavoratore, un danno morale, inteso come sofferenza patita dalla vittima e turbamento del suo stato d’animo, e, infine un danno esistenziale, definito come alterazione delle proprie abitudini di vita relazionale, tramite la forzosa rinuncia allo svolgimento di attività remunerative ovvero la necessità di dovere fare qualcosa di insoddisfacente. Questo orientamento è stato superato dalla sentenze n. 26972/3/4/5 delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione del 2008, le quali hanno voluto ricondurre a unitarietà la figura del danno non patrimoniale, anche quello derivante da responsabilità contrattuale, e hanno dichiarato che le distinzioni in sottocategorie (danno biologico, morale o esistenziale) servono solo a fini descrittivi, non rilevando in nessun modo in maniera autonoma3. In seguito, la Suprema Corte, con la pronuncia n. 330 del 2018, richiamando le summenzionate sentenze, ha qualificato il danno non patrimoniale derivante dal demansionamento quale compromissione delle aspettative di sviluppo della personalità dell’individuo all’interno dell’ambiente di lavoro4.

Le citate Sezioni Unite del 2006 hanno anche risolto il nodo cruciale in merito alla possibilità di qualificare il danno come in re ipsa, cioè immanente rispetto all’inadempimento del datore di lavoro, o come suscettibile di essere provato dal lavoratore, affermando la necessità che il lavoratore fornisca la prova del danno che ritiene di aver subito. Tale previsione è stata confermata dalla Suprema Corte, con sentenza n. 1327/2015, la quale ha aggiunto il fatto che il lavoratore abbia l’onere di provare anche il nesso di causalità con l’inadempimento datoriale5. In aggiunta, i giudici di Piazza Cavour, con le sentenze n. 29047/2017 e n. 25071/2018, hanno chiarito che il prestatore ha il dovere di fornire una specifica allegazione, nel ricorso introduttivo del giudizio, dell’esistenza di un pregiudizio e, in fase istruttoria, di provare la sussistenza del danno e il conseguente nesso di causalità6.

Altra questione meritevole di essere analizzata riguarda l’oggetto della prova spettante al lavoratore. Dottrina e giurisprudenza, con l’ordinanza del 20 giugno 2019 n. 16595, statuiscono che il lavoratore deve dimostrare gli elementi di fatto relativi alla qualità e alla quantità dell’esperienza lavorativa pregressa, al tipo di professionalità colpita, alla durata del demansionamento e all’esito finale della dequalificazione7. Con riguardo all’esito finale della dequalificazione, ossia all’impatto concreto sulla sfera cognitivo-professionale del lavoratore, è interessante citare una sentenza del Tribunale di Trento del 18 gennaio 2011, in cui il giudice aveva escluso il riconoscimento del danno alla professionalità proprio perché il lavoratore aveva conservato le competenze acquisite – durante l’attività svolta- nel periodo del demansionamento, circostanza dedotta dal fatto che successivamente era stato proficuamente reintegrato8.

Al contrario, la posizione del datore di lavoro è ben diversa. Infatti, egli si trova in una condizione in cui la sua colpevolezza è presunta, ma potrà comunque liberarsi fornendo la prova che l’inadempimento è dipeso da una causa a lui non imputabile.

In conclusione, l’evoluzione normativa della disciplina delle mansioni e il tracciato giurisprudenziale sul risarcimento del danno inducono l’interprete ad individuare i casi concreti in cui il demansionamento possa essere considerato illegittimo. Lo scenario ora prefigurato avvalora l’idea che la materia in esame è ancora lontana da un definitivo assestamento.


1Cass. Civ., Sez. Lav. , 1 marzo 2001, n. 2948;

2Cass. Civ., S. U., 24 marzo 2006, n. 6572.

3 Cass. Civ., S.U., 11 novembre 2008, n. 26972 – 26973 – 26974 – 26975.

4 Cass. Civ., Sez. Lav., 10 gennaio 2018, n. 330.

5 Cass. Civ., Sez. Lav., 26 gennaio 2015, n. 1327.

6 Cass. Civ., Sez. Lav., 5 dicembre 2017, n. 29047; Cass. Civ., Sez. Lav., 10 ottobre 2018, n. 25071.

7 Cass. Civ., ord., 20 giugno 2019, n. 16595.

8 Trib. Trento, 18 gennaio 2011, M.C.

Salvis Juribus – Rivista di informazione giuridica
Direttore responsabile Avv. Giacomo Romano
Listed in ROAD, con patrocinio UNESCO
Copyrights © 2015 - ISSN 2464-9775
Ufficio Redazione: redazione@salvisjuribus.it
Ufficio Risorse Umane: recruitment@salvisjuribus.it
Ufficio Commerciale: info@salvisjuribus.it
***
Metti una stella e seguici anche su Google News
The following two tabs change content below.

Giuliana Favara

Abilitata all'esercizio della professione forense, ha conseguito la laurea magistrale a ciclo unico in Giurisprudenza e il diploma di Specializzazione nelle Professioni Legali presso l'Università Mediterranea di Reggio Calabria. Ha svolto lo stage di formazione teorico-pratica presso gli uffici giudiziari, nella sezione GIP/GUP e nella Prima Sezione Civile del Tribunale di Reggio Calabria, ai sensi dell'art. 73 del d.l. 69/2013, e ha collaborato con uno studio legale operante nel settore penale.

Articoli inerenti