Molestie sessuali sul luogo di lavoro: normativa penale e giuslavoristica

Molestie sessuali sul luogo di lavoro: normativa penale e giuslavoristica

Nel linguaggio comune, con l’espressione “molestie sessuali” si tende a fare genericamente riferimento a comportamenti, anche molto diversi tra loro, accomunati dal carattere indesiderato e dall’attinenza alla sfera sessuale delle persone coinvolte: da inopportuni apprezzamenti su parti del corpo a promesse di benefici in cambio di prestazioni sessuali, dai commenti denigratori sull’orientamento sessuale ai contatti fisici forzati, dall’inoltro di messaggi o foto a sfondo erotico alle minacce di ritorsioni in caso di rifiuto di rapporti intimi. Può, pertanto, accadere che il concetto in esame venga utilizzato anche in senso atecnico, per descrivere condotte la cui carica offensiva ne riveli, invece, la riconducibilità a fattispecie di reato di maggiore gravità.

Per vero, nel diritto penale positivo non è presente  una definizione codificata delle “molestie sessuali” che, pertanto, rinvengono il proprio referente normativo nell’art. 660 c.p., disciplinante il reato di “molestie e disturbo alle persone”.

La contravvenzione citata sanziona ogni interferenza nell’altrui sfera di tranquillità in grado di arrecare fastidio o disagio, ovvero di provocare un’alterazione dell’equilibrio psico-fisico del soggetto passivo[1], che riveli, sotto il profilo oggettivo, il suo essere posta in essere per petulanza o per altro biasimevole motivo. In proposito, la giurisprudenza di legittimità ha da tempo chiarito che, mentre il concetto di “petulanza” rimanda ad un “modo di agire pressante, ripetitivo, insistente, indiscreto e impertinente, che per ciò stesso interferisce sgradevolmente nella sfera della quiete e della libertà delle persone”[2], può definirsi come “biasimevole” qualsiasi motivo diverso dalla petulanza, che sia riprovevole di per sé o in relazione alle qualità della persona molestata, ed avente sulla stessa i medesimi effetti disturbativi[3].

Un ulteriore punto fermo nell’interpretazione dell’art. 660 c.p. è il rilievo che, ai fini dell’integrazione della fattispecie, sia sufficiente anche un’unica azione[4], non configurando la stessa un reato necessariamente abituale quale è, invece, il delitto di atti persecutori, che dall’ipotesi contravvenzionale si distingue, oltre che per l’abitualità della condotta, per gli effetti che la stessa è idonea a cagionare, individuati dal disposto dell’art. 612-bis c.p. nell’avere ingenerato nella vittima un perdurante stato d’ansia o il timore per la propria incolumità, ovvero aver determinando un’alterazione delle sue abitudini di vita[5].

Definite, pertanto, le coordinate generali dei comportamenti ascrivibili all’art. 660 c.p., si deve evidenziare come, nel caso specifico della “molestia sessuale” si ponga il problema, di non poco conto, di individuarne la linea di demarcazione con il delitto di violenza sessuale e, più precisamente, con l’ipotesi di minor gravità contemplata dall’art. 609-bis, co. 3 c.p.

Il discrimen tra le due fattispecie è concordemente individuato dalla giurisprudenza nel coinvolgimento o meno della corporeità dei soggetti coinvolti, prescindendo la molestia sessuale da contatti fisici, ancorché fugaci[6], mentre la necessaria incidenza sul piano fisico, oltre che psichico, dei c.d. “delitti sessuali” è evidente già dalla loro collocazione sistematica nell’ambito delle fattispecie aggressive della libertà personale. Ne consegue che, mentre potrà venire in rilievo l’art. 660 c.p. a fronte di battute a sfondo erotico o domande sulla sfera intima del soggetto passivo[7], si sarà in presenza di violenza sessuale, consumata o tentata, in ipotesi di toccamento non casuale, ancorché non involgente una parte del corpo considerata come zona erogena[8].

In ordine all’art. 609-bis c.p. è stato, altresì, precisato che non è necessario un contatto materiale diretto con la vittima, “corpore-corpori”, ma è sufficiente che la stessa sia indotta dal reo, anche a distanza, a compiere atti che ne coinvolgano oggettivamente la corporeità sessuale[9].

Un esempio di definizione legislativa di “molestie sessuali” si rinviene, invece, in ambito giuslavoristico all’art. 26 del d.Lgs. 198/2006 c.d. “Codice delle pari opportunità tra uomo e donna”, che espressamente le identifica come “discriminazioni costituite da quei comportamenti indesiderati a connotazione sessuale, espressi in forma fisica, verbale o non verbale, aventi lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una lavoratrice o di un lavoratore e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante o offensivo”.

Come evidenziato dalla giurisprudenza di legittimità[10], la norma richiamata opera un’equiparazione tra le molestie sessuali e le discriminazioni di genere, funzionale all’estensione della disciplina di contrasto dei fenomeni discriminatori sul luogo di lavoro anche alle molestie sessuali. Di particolare importanza, è la conseguente operatività anche in tali casi del regime probatorio previsto dall’art. 40 d.Lgs. 198/2006, che prevede una presunzione relativa di sussistenza di atti, patti o comportamenti discriminatori, ove il ricorrente fornisca elementi di fatto, anche desunti da dati statistici, idonei a fondarla, con conseguente onere di prova contraria sul punto a carico del convenuto. A tali fini, peraltro, è sufficiente che la denuncia della vittima trovi riscontro nelle dichiarazioni di altri/e dipendenti, particolarmente qualora siano stati oggetto di analoghi comportamenti offensivi.

L’art. 26 cit. è stato, peraltro, recentemente modificato dalla L. n. 205/2017 mediante l’inserimento dei nuovi commi 3-bis e 3-ter, il secondo dei quali, nel riprendere il dettato dell’art. 2087 c.c., che pone in capo al datore di lavoro il generale obbligo di adottare tutte le misure necessarie a proteggere l’integrità fisica e morale, nonché la dignità dei lavoratori, precisa che, a tali fini, lo stesso è tenuto a concordare con le organizzazioni sindacali le iniziative formative ed informative ritenute più opportune, in un’ottica di contrasto del fenomeno delle molestie sessuali negli ambienti lavorativi.

Il nuovo co. 3-bis prevede, invece, una specifica tutela per il lavoratore o la lavoratrice che agisca in giudizio per aver subito discriminazioni o molestie sessuali sul posto di lavoro, sancendo che lo/a stesso/a non può essere oggetto di sanzioni, demansionamento, licenziamento, trasferimento o di qualsiasi altra misura organizzativa avente effetti negativi sulle condizioni lavorative, che sia conseguenza della denuncia stessa, e che qualsiasi provvedimento adottato nei suoi riguardi in violazione del divieto è affetto da nullità; in particolare, in ipotesi di licenziamento ritorsivo o discriminatorio e, per ciò stesso nullo, è prevista la reintegra sul posto di lavoro.

Alle illustrate garanzie a sostegno della vittima fa da contraltare la posizione del responsabile della condotta sanzionata penalmente, come visto, a seconda dei casi, ai sensi dell’art. 660 c.p. ovvero dell’art. 609-bis c.p.

Ove la molestia sessuale sia stata posta in essere da un/una collega, la giurisprudenza ha da tempo chiarito la legittimità del suo licenziamento, a nulla rilevando l’eventuale mancata previsione dell’ipotesi nel codice disciplinare[11]. Più di recente, inoltre, è stato precisato che, se il contratto collettivo contempla per i casi di molestia, anche sessuale, una sanzione conservativa, “il giudice non può discostarsi da tale previsione (trattandosi di condizione di maggior favore fatta espressamente salva dall’art. 12 della l. n. 604 del 1966), a meno che non accerti che le parti non avevano inteso escludere, per i casi di maggiore gravità, la possibilità della sanzione espulsiva”[12]. La condotta del/della dipendente che ponga in essere atti di molestia sessuale nei confronti di un/una collega, del resto, è idonea ad integrare giusta causa di licenziamento, determinando una grave lesione dell’elemento fiduciario del rapporto di lavoro[13].

A ciò deve aggiungersi che, in ipotesi di molestie sessuali commesse da soggetti subordinati, il datore di lavoro è gravato da un obbligo giuridico di adottare gli opportuni provvedimenti disciplinari e cautelativi del/della vittima, in quanto titolare di una posizione di garanzia della salute ed integrità psico-fisica dei lavoratori in virtù del disposto dell’art. 2087 c.c. In considerazione della sua particolare condizione, pertanto, laddove il datore di lavoro ometta negligentemente di attivarsi per prevenire e contrastare fenomeni offensivi dei diritti dei dipendenti, lo stesso è responsabile civilmente della propria inadempienza, mentre qualora la sua omissione si presenti come dolosa, il suo comportamento assume altresì rilievo penale ai sensi dell’art. 40, co. 2 c.p.

Purtroppo, poi, non di rado, accade che il soggetto materialmente responsabile della condotta lesiva sia il datore di lavoro medesimo.

In proposito, si deve rammentare che “L’abuso di autorità cui si riferisce l’art. 609-bis c.p., comma 1, presuppone una posizione di preminenza, anche di fatto e di natura privata, che l’agente strumentalizza per costringere il soggetto passivo a compiere o subire atti sessuali”[14] e che, per costante giurisprudenza, l’aggravante comune di cui all’art. 61, n. 11 c.p. è compatibile con il delitto di violenza sessuale[15]. In particolare, peraltro, l’art. 61, n. 11 c.p. risulta applicabile anche nei confronti di soggetti che, pur non investiti della qualifica formale, rivestano di fatto la posizione di datore di lavoro, in quanto il termine “ufficio” utilizzato dalla norma deve essere inteso sia in senso soggettivo, quale esercizio di mansioni da parte dell’agente, sia in senso oggettivo, come luogo in cui si svolgono le relazioni[16].

Il panorama legislativo in materia di contrasto delle molestie sessuali in ambito lavorativo, si è da ultimo arricchito con l’entrata in vigore della L. n. 20/2021, con la quale è stata ratificata la Convenzione OIL (Organizzazione Internazionale del Lavoro) n. 190 sull’eliminazione della violenza e delle molestie sul luogo di lavoro, approvata il 21 giugno 2019.

La Convenzione fornisce una definizione ampia dei concetti di “violenze e molestie”, includendovi ogni comportamento inaccettabile, o minaccia di attuarlo, che provochi, o si prefigga di causare, un danno fisico, psicologico, sessuale o economico, nonché di “violenze e molestie di genere”, ossia attuate in ragione del sesso o genere delle persone colpite e comprendenti le molestie sessuali.

Altrettanto ampio è l’ambito di applicazione: sotto il profilo soggettivo, sono ricompresi tutti i lavoratori indipendentemente dallo status contrattuale, inclusi anche i tirocinanti, i volontari e le persone in cerca di un impiego, nonché tutti i datori di lavoro, sia pubblici che privati; dal punto di vista oggettivo, poi, si ha riguardo alle violenze e molestie, comprese quelle di genere, che si verifichino in occasione, connessione o a causa del lavoro, anche in luoghi diversi dal posto di lavoro e ad esso collegati, ovvero a seguito di comunicazioni lavorative, anche in via telematica.

Nello specifico, la Convenzione prevede l’impegno degli Stati membri di adottare disposizioni definitorie dei fenomeni di violenza e molestie, di includerli nelle normative sulla salute e la sicurezza sul lavoro, di predisporre misure idonee a prevenirli, nonché di approntare sistemi che consentano alle vittime un facile accesso ai meccanismi risarcitori, di denuncia e di risoluzione delle controversie, garantendo ai lavoratori il diritto di abbandonare situazioni lavorative a rischio.

 

 

 

 


[1] Tra gli altri: Flick, “Molestia o disturbo alle persone”, in Enciclopedia del diritto, XXVI, Varese, 1976, p. 702
[2] Si vedano Cass. Pen., Sez. 1, sent. n. 7051/1998 e Sez. 1, sent. n. 13555/1998
[3] Cass. Pen., Sez. 5, sent. n. 9181/1982
[4] Ex multis Cass. Pen., Sez. 1, sent. n. 3758/2013
[5] Cass. Pen., Sez. 6, sent. n. 23375/2020
[6] Si veda, ad es., Cass. Pen., Sez. 3, sent. n. 45957/2005
[7] Di recente, Cass. Pen., Sez. 3, sent. 1999/2019
[8] Tra le altre: Cass. Pen., Sez. 3, sent. n. 45950/2011; Sez. 3, sent. n. 27042/2010; Sez. 3, sent. n. 27762/2008
[9] Di recente: Cass. Pen., Sez. 3, sent. n. 41951/2019
[10] Cass. Civ., Sez. Lavoro, sent. n. 23286/2016
[11] Cass. Civ., Sez. Lavoro, sent. 20272/2009
[12] Ex multis Cass. Civ., Sez. Lavoro, sent. 14811/2020
[13] Cass. Civ., Sez. Lavoro, sent. n. 25977/2020
[14] Cass. Pen., S.S.U.U., sent. n. 27328/2020
[15] Ex multis Cass. Pen., Sez. 3, sent. n. 13094/2019 
[16] Tra le altre: Cass. Pen., Sez. 3, sent. n. 23422/2020

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