Motivazione della sentenza tributaria e individuazione del thema decidendum

Motivazione della sentenza tributaria e individuazione del thema decidendum

Sommario: 1. La motivazione delle decisioni giurisdizionali – 2. La motivazione della sentenza nel giudizio tributario – 3. Le novità introdotte dalla l. n 18 giugno 2009, n. 69 e il loro impatto nel processo tributario – 4. Motivazione per relationem e nullità della sentenza tributaria – 5. Casistica giurisprudenziale.

 

1.  La motivazione delle decisioni giurisdizionali

Tra i più importanti e delicati temi inerenti il diritto processuale, v’è sicuramente quello inerente la motivazione della sentenza, scaturente dal più generale principio – sancito finanche a livello costituzionale – in virtù del quale “tutti i provvedimenti giurisdizionali devono essere motivati” (art. 111 Cost.).

Recepito nei codici di procedura civile e penale (seppur con applicazioni del tutto diverse tra le due branche per via della diversa modalità di raggiungimento della prova) ([1]), tale principio si sostanzia nell’enucleazione del ragionamento logico e giuridico che conduce il giudice alla decisione da adottare.

Nel codice di procedura civile è l’art. 132 che, nel descrivere il contenuto della sentenza, al comma 2, n. 4), stabilisce che la stessa deve contenere “la concisa esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione”.

Ad integrare tale disposizione sovviene l’art. 118, disp. att. c.p.c., il quale dispone che “La motivazione della sentenza di cui all’articolo 132, secondo comma, numero 4), del codice consiste nella succinta esposizione dei fatti rilevanti della causa e delle ragioni giuridiche della decisione, anche con riferimento a precedenti conformi. Debbono essere esposte concisamente e in ordine le questioni discusse e decise dal collegio ed indicati le norme di legge e i principi di diritto applicati”.

Nel diritto processuale amministrativo, la motivazione della sentenza rappresenta un profilo del tutto peculiare. Questo, è uno dei settori in cui il processo riformatore (che sarà esplicato infra) ha inciso in maniera rilevante. L’art. 3 c.p.a. (rubricato “Dovere di motivazione e sinteticità degli atti”) ([2]), infatti, è l’unica disposizione a sancire il principio di sinteticità degli atti (sia in riferimento ai provvedimenti giurisdizionali che agli atti di parti). L’art. 74 c.p.a., invece, nell’attribuire la facoltà al giudice di decidere con sentenza in forma semplificata, stabilisce che “la motivazione della sentenza può consistere in un sintetico riferimento al punto di fatto o di diritto ritenuto risolutivo ovvero, se del caso, ad un precedente conforme”.

L’intervento risulta essere ancora più incisivo nella disciplina processuale dettata per i riti speciali e in particolar modo per il rito elettorale; l’art. 129, comma 6 c.p.a. prevede, infatti, la possibilità che la motivazione della sentenza possa “consistere anche in un mero richiamo delle argomentazioni contenute negli scritti delle parti che il giudice ha inteso accogliere e fare proprie”.

2. La motivazione della sentenza nel giudizio tributario

Sul fronte del diritto processuale tributario, disposizioni analoghe sono rinvenibili nell’art. 136, d. lgs. n. 546/1992 (codice del processo tributario) secondo il quale la sentenza della Commissione Tributaria deve contenere, tra l’altro, “la concisa esposizione dello svolgimento del processo” (comma 2, n. 2) e la “succinta esposizione dei motivi in fatto e diritto” (comma 2, n. 4).

A ciò deve aggiungersi quanto statuito dall’art. 118 disp. att. cit., applicabile – per via del richiamo contenuto nell’art. 1, del citato d.lgs. n. 546/1992 ([3]) alle norme del codice di procedure civile – alle sentenze del Giudice Tributario.

Da ciò deriva – per via della similitudine rispetto alle norme del codice di procedura civile, nonché per l’espresso rinvio materiale alle medesime – la non sussistenza (salvo per quanto si esporrà in seguito) di importanti differenze tra la procedura civilistica e quella tributaria per quanto concerne la redazione della sentenza.

Occorre chiarire quale sia la finalità e come si struttura la motivazione della decisione giurisdizionale nel processo tributario.

La motivazione, in via del tutto generale, tende alla persuasione, prospettando la soluzione più probabile (o meglio più accettabile) attraverso un ragionamento giuridico di tipo logico-argomentativo-deduttivo, che consiste nell’esposizione delle ragioni logico-giuridiche della decisione, nel rispetto dei canoni dell’ordine espositivo, della concisione, della sufficienza e logicità ([4]).

Per come desumibile dalle disposizioni sopra richiamate disciplinanti la struttura e la finalità della motivazione, emerge che la medesima deve contenere l’espressa enunciazione delle norme di legge (processuali e sostanziali) e dei principi di diritto applicati per la qualificazione dei fatti e per la formulazione della decisione ([5]).

La giurisprudenza, nel corso degli anni si è spesso occupata della motivazione provvedimentale, soprattutto dal punto di vista della “sufficienza”.

È stato affermato ([6]) che il giudice di merito – anche se ha l’obbligo di tener conto di tutti gli elementi regolarmente acquisiti al giudizio – è tuttavia libero di individuare e scegliere le fonti del proprio convincimento indicandone, però, il contenuto e il criterio che ha presieduto a tale scelta, affinché in sede di legittimità sia possibile verificane la congrua valutazione sotto il profilo della motivazione sufficiente.

In pratica, per il principio della sufficienza della motivazione, la lettura della sentenza deve consentire la comprensione dell’intera vicenda processuale sia dal punto di vista fattuale che giuridico oltre che per quanto concerne il raggiungimento della prova.

Per quanto concerne, poi, la valutazione delle prove è attribuito al Giudice il controllo della loro attendibilità e concludenza oltre che la scelta, fra le risultanze istruttorie, di quelle ritenute idonee ad acclarare i fatti oggetto della controversia, privilegiando in via logica taluni mezzi di prova e disattendendone altri in ragione del loro diverso spessore probatorio, con l’unico limite, appunto, della adeguata e congrua motivazione del criterio adottato ([7]).

Due sono le tecniche di redazione della sentenza, così compendiabili:

la motivazione c.d. alla francese, che consiste in un solo periodo suddiviso in una pluralità di proposizioni (una per ogni questione esaminata) sorrette da un verbo al participio passato (es. considerato, ritenuto, rilevato, osservato ecc.), sino al dispositivo (viene utilizzata quasi esclusivamente per le ordinanze ed i decreti);

la motivazione c.d. discorsiva, la quale consiste nella esposizione degli argomenti, articolati in più periodi (questa tecnica costituisce il modello seguito in via prevalente).

A prescindere dalla tecnica adottata, ciò che conta è comunque l’esposizione fedele e puntuale delle distinte prospettazioni delle parti e degli argomenti a sostegno delle rispettive richieste; la Commissione deve, infatti, procedere ad una valutazione critica comparata, precisando le ragioni di prevalenza dell’una o dell’altra tesi o i motivi che inducono a ricostruire diversamente i fatti, senza che sia però necessaria la specifica confutazione di tutte le prospettazioni di parte che non vengono accolte.

La motivazione, poi, può anche essere implicita o superflua con riferimento alle domande assorbite o perché consegue logicamente alla motivazione esplicita ([8]).

La Suprema Corte ha ritenuto ammissibile anche la motivazione alternativa che si fonda su due autonome rationes decidendi con distinte argomentazioni sufficienti a sorreggere la decisione del giudice di merito, il quale, dopo aver aderito ad una prima ragione di decisione, esamini ed accolga anche una seconda ragione al fine di sostenere la decisione anche nel caso in cui la prima possa risultare erronea ([9]).

3. Le novità introdotte dalla l. n. 18 giugno 2009, n. 69 e il loro impatto nel processo tributario

La riforma del processo civile ha interessato anche le disposizioni inerenti la motivazione della sentenza.

Le modifiche hanno riguardato, principalmente, l’art. 118 disp. att. c.p.c..

La formulazione originaria, al comma 1, prevedeva che “La motivazione della sentenza di cui all’art. 132, n. 4 del codice consiste nell’esposizione dei fatti rilevanti della causa e delle ragioni giuridiche della decisione”.

A tale disposizione è stato aggiunto il termine “succinta” in riferimento all’esposizione dei fatti rilevanti della causa, mentre in riferimento alle ragioni giuridiche della decisione è stato aggiunto che le medesime possono essere enucleate “anche con riferimento a precedenti conformi” ([10]).

La nuova formulazione del comma 1 risulta essere: “La motivazione della sentenza di cui all’articolo 132, secondo comma, numero 4), del codice consiste nella succinta esposizione dei fatti rilevanti della causa e delle ragioni giuridiche della decisione, anche con riferimento a precedenti conformi”.

V’è da rilevare, inoltre, che il primo e secondo comma (il comma 2 recita: “Debbono essere esposte concisamente e in ordine le questioni discusse e decise dal collegio ed indicati le norme di legge e i principi di diritto applicati. Nel caso previsto nell’articolo 114 del codice debbono essere esposte le ragioni di equità sulle quali è fondata la decisione”) erano stati sostituiti, con un unico comma, dall’art. 79, comma 1, d.l. 21 giugno 2013, n. 69, soppresso dalla legge di conversione 9 agosto 2013, n. 98. Il comma unico introdotto stabiliva che “La motivazione della sentenza di cui all’articolo 132, secondo comma, numero 4), del codice consiste nella concisa esposizione dei fatti decisivi e dei principi di diritto su cui la decisione è fondata, anche con esclusivo riferimento a precedenti conformi ovvero mediante rinvio a contenuti specifici degli scritti difensivi o di altri atti di causa. Nel caso previsto nell’articolo 114 del codice debbono essere esposte le ragioni di equità sulle quali è fondata la decisione”.

Invero, le modifiche intervenute successivamente con il d.l. n. 69/2013 sono apparse effettivamente troppo stringenti; l’art. 79 rubricato “Semplificazione della motivazione della sentenza civile” ha rischiato di trasformare il principio di semplificazione in uno strumento poco garantistico per le parti del processo, il quale si sarebbe prestato a facili abusi da parte degli organi giudicanti e che avrebbe dato vita a concreti dubbi di incostituzionalità dell’art. 118 cit..

A seguito della soppressione di tale articolo in sede di conversione del decreto legge si è verificata nuovamente la scissione tra i due commi, secondo una logica di compromesso tra la semplificazione motivazionale della sentenza e il rispetto del principio inerente la motivazione dei provvedimenti giurisdizionali (nonché, di conseguenza, dei principi inerenti le garanzie delle parti processuali e del giusto processo).

Le modifiche introdotte dalla riforma hanno riguardato anche l’art. 132 c.p.c., il quale al comma 2 n. 4) prevede che la sentenza deve contenere “la concisa esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione” non più “la concisa esposizione dello svolgimento del processo e dei motivi in fatto e in diritto della decisione” ([11]).

Tuttavia, occorre rilevare che le modifiche introdotte con la legge in esame e riguardanti la motivazione della sentenza in riferimento al processo civile, non hanno altresì interessato le disposizioni del codice del processo tributario.

L’art. 36, d.lgs. n. 546/1992 continua a prevedere, infatti, al comma due, n. 2, che tra il contenuto della sentenza vi debba essere anche “la concisa esposizione dello svolgimento del processo”.

Certamente sarebbe stato più coerente la modifica anche di tale disposizione in sede di riforma del processo civile, tuttavia, deve comunque rilevarsi che la norma prevede appunto una “concisa esposizione e non un’analitica disamina di tutto quanto contenuto nel provvedimento impugnato e negli atti presentati durante il processo.

Da ciò deriva, quindi, che la motivazione della sentenza tributaria non ha risentito dell’attuazione della semplificazione giurisdizionale come avvenuto, invece, per la motivazione della sentenza civile; ciò in quanto nel processo tributario rimane comunque l’obbligo per il giudice di esporre lo svolgimento del processo.

Ha inciso, invece, anche sulle norme processualtributarie la modifica dell’art. 118 disp. att. c.p.c. (applicabile al processo tributario per via del richiamo contenuto nel citato art. 1, d. lgs. n. 546/1992) inerente la succinta motivazione dei fatti e il richiamo ai precedenti conformi.

4. Motivazione per relationem e nullità della sentenza tributaria

Una delle questioni più importanti – inerente la motivazione della sentenza – posta diverse volte all’attenzione della giurisprudenza, è quella avente ad oggetto la c.d. motivazione “per relationem”.

Tale argomento è venuto in rilievo di recente soprattutto a seguito delle novità introdotte dalla riforma del processo civile.

Le modifiche apportate, infatti, hanno aumentato le possibilità che gli organi giudicanti giungessero a semplificare la motivazione della sentenza fino a ridurla al di sotto dei limiti consentiti dando così vita ad una motivazione meramente “richiamata”.

Non di rado, la Commissione Tributaria Regionale si limitava a richiamare (confermandola) la sentenza di primo grado, ovvero una pronuncia della stessa Commissione avente ad oggetto la medesima fattispecie.

Tanto premesso, si rende necessario, innanzitutto, individuare le conseguenze che il difetto o la carenza di motivazione della sentenza producono.

Invero, già da tempo la giurisprudenza è unanime nel riconoscere che la mancata esposizione dello svolgimento del processo e dei fatti rilevanti della causa oltre che l’estrema concisione della motivazione determinano la nullità della sentenza allorquando, da tale esposizione, ne deriva l’impossibile individuazione del thema decidendum e delle ragioni che stanno a fondamento del dispositivo ([12]).

Volendo adesso comprendere quand’è che si tratta di sentenza con motivazione carente (o assente), bisogna far riferimento, innanzitutto, a quanto già più volte sostenuto dalla Suprema Corte laddove sostiene che “la motivazione della sentenza di appello deve essere autosufficiente, nel senso che solo dalla lettura della sentenza medesima e non aliunde sia possibile rendersi conto delle ragioni di fatto e di diritto le quali stanno alla base della decisione” ([13]) o, ancora, più di recente ([14]), laddove afferma – in un caso in cui la Commissione Tributaria Regionale si era limitata a rinviare del tutto genericamente a quanto accertato dai giudici di primo grado senza dare conto dell’esame dei motivi di appello e senza dimostrare di avere esaminato le circostanze specifiche del caso concreto – che “difetta la spiegazione, in maniera chiara, univoca ed esaustiva, delle ragioni, attribuibili al giudicante, giustificanti la decisione di rigetto di tale gravame”, con la conseguente nullità della sentenza.

Tanto premesso sulle conseguenze dell’omessa o carente motivazione, ciò che occorre approfondire è la portata letterale del termine “carente”; in altre parole occorre capire fin quando può spingersi il Giudice Tributario a motivare per relationem.

Tali quesiti vanno condotti alla luce dell’ormai consolidata tendenza semplificatrice che, come visto pocanzi, ha interessato, tra gli altri, anche il settore processuale.

Una linea interpretativa molto esaustiva è stata fornita dalle sezioni unite della Suprema Corte con la sentenza n. 642 del 16 gennaio 2015.

L’importanza di tale pronuncia risiede nell’aver ripercorso in maniera davvero singolare la concezione della sentenza (intesa come motivazione della decisione) dal XIX secolo sino ai giorni nostri, facendo riferimento – oltre che, ovviamente, agli interventi riformatori succedutisi – anche alle non univoche suggestioni culturali che hanno riguardato tale argomento.

In tale pronuncia viene messo in evidenza il mutamento della struttura dei provvedimenti giurisdizionali muovendo dalle sentenze (dell’800 e dei primi del 900) “solenni, paludate, compiaciute e barocche … redatte in maniera ampollosa e spesso caratterizzate da sovrabbondanza di lessico, enfasi declamatoria, eccesso di astrattezza … [che] erano comprensibili solo ad una ristretta cerchia di persone e segnavano dunque in maniera palese la distanza linguistica tra chi era nel “palazzo” e chi stava nella piazza, distanza abissale che peraltro riguardava lo stile di tutti gli atti ufficiali dell’epoca (comprese le leggi e gli atti amministrativi)” sino ad arrivare alla concezione culturale attuale e alla necessità (posta già all’attenzione del legislatore del 1940) di una motivazione concisa, non eccedente la propria funzione identificata essenzialmente nella esposizione delle ragioni della decisione assunta e non già nella manifestazione delle capacità argomentative ed espressive del giudice.

Dal momento dell’emanazione del codice di procedura civile, infatti, tutti gli interventi normativi in materia sono andati (e continuano ad andare) nella medesima direzione: quella della semplificazione.

Per quanto concerne più in particolare la possibilità di motivare “per relationem”, i primi riferimenti normativi sono rinvenibili nella riforma del 2003 relativa al rito societario ([15]), laddove viene previsto per la prima volta che “la sentenza può essere sempre motivata informa abbreviata, mediante il rinvio agli elementi di fatto riportati in uno o più atti di causa e la concisa esposizione delle ragioni di diritto, anche in riferimento a precedenti conformi” ([16]).

Tale percorso è stato concretamente tracciato ormai reso inevitabile anche dalla necessità di dare attuazione al principio costituzionale di ragionevole durata del processo – con la riforma del 2009, con la quale il legislatore estende a tutte le sentenze la previsione di una

motivazione non solo concisa ma anche succinta, e prevede la possibilità di una motivazione che possa essere esposta pure mediante il “riferimento a precedenti conformi”, elimina la necessità di esporre in sentenza lo “svolgimento del processo”, e sostituisce ai “motivi in fatto e in diritto della decisione” le “ragioni di fatto e di diritto della decisione”.

Tutti questi interventi, come sostenuto anche dalla Suprema Corte nella sentenza del gennaio 2015, non rappresentano interventi episodici ma l’espressione di un diffuso sentire nel modo di concepire la sentenza; concezione che è stata determinata, oltre che dalle riforme sopra richiamate, anche da interventi della giurisprudenza di legittimità che “prendendo atto dei molteplici cambiamenti intervenuti nella società (ad esempio con riguardo al mutamento degli strumenti utilizzati per la scrittura e la copia degli atti, all’aumento vertiginoso del contenzioso, alla necessità di definire le controversie in tempi ragionevoli) ha in modo significativo contribuito a modificare la “cultura” della sentenza civile”.

Venendo al nocciolo della questione, la Corte ha affermato che la completezza e logicità della sentenza motivata per relationem deve essere giudicata sulla base degli elementi contenuti nell’atto al quale si opera il rinvio. Quest’ultimo deve essere fatto adatti ben individuati e conosciuti o conoscibili ([17]), ritenendo ormai ammissibile una sentenza che rinvii ad atti presenti nel fascicolo processuale (da ritenersi perciò parte integrante della motivazione senza necessità che siano trascritti) ([18]).

La Corte afferma, ancora, che “La sentenza è l’atto conclusivo di un processo nel quale hanno agito più soggetti, ciascuno in certa misura contribuendo alla decisione finale, la quale, sotto questo profilo, può essere considerata un risultato corale”.

Il compito del Giudice, quindi, è quello di valutare, tra i fatti dedotti e i diritti vantati, le ragioni sostenute e le pretese avanzate, le prove addotte e le argomentazioni spiegate, quel che di volta in volta sia da ritenersi giuridicamente corretto e verificato in fatto. Una volta assunta la decisione ed individuate le ragioni (giuridiche e di fatto) che la sostengono, deve pertanto riconoscersi al giudice la possibilità di esporle nel modo che egli reputi più idoneo – purchè succintamente ed in maniera chiara, univoca ed esaustiva – perciò anche (se lo ritiene) attraverso gli atti- richiamandoli o riportandoli direttamente (in tutto o in parte) nella sentenza – dei soggetti che hanno partecipato al processo.

La sentenza appena esaminata conclude esprimendo il seguente principio di diritto: “Nel processo civile – ed in quello tributario, in virtù di quanto disposto dal d. lgs. n. 546 del 1992, art. 1, comma 2 – non può ritenersi nulla la sentenza che esponga le ragioni della decisione limitandosi a riprodurre il contenuto di un atto di parte (ovvero di altri atti processuali o provvedimenti giudiziari) eventualmente senza nulla aggiungere ad esso, sempre che in tal modo risultino comunque attribuibili al giudicante ed esposte in maniera chiara, univoca ed esaustiva, le ragioni sulle quali la decisione è fondata. È inoltre da escludere che, alla stregua delle disposizioni contenute nel codice di rito civile e nella Costituzione, possa ritenersi sintomatico di un difetto di imparzialità del giudice il fatto che la motivazione di un provvedimento giurisdizionale sia, totalmente o parzialmente, costituita dalla copia dello scritto difensivo di una delle parti”.

In conclusione, deve ritenersi nulla per carenza di motivazione, la sentenza che, pur adottando un richiamo motivazionale per relationem, omette di dare una spiegazione chiara, univoca ed esaustiva, delle ragioni che hanno condotto alla decisione.

Alla luce di quanto esposto ci si rende conto di quanto sia difficile riuscire a conciliare tutti i principi sottesi allo svolgimento del c.d. “giusto processo”: dalla semplificazione alla necessità di redigere una sentenza dalla quale emerga l’iter-logico giuridico che ha condotto alla decisione, dalla possibilità di motivare con rinvio alla necessità di far proprie, da parte del giudice, le relative argomentazioni contenute negli atti richiamati.

Insomma, un compito per il Giudice certamente non facile e frutto, come esposto sopra, di un radicale mutamento concettuale della sentenza.

5. Casistica giurisprudenziale

Le fattispecie poste all’attenzione della Suprema Corte a seguito di sentenze della Commissione Tributaria Regionale censurate per vizio motivazionale sono sinteticamente classificabili in tre gruppi. Nel primo, quello più rilevante, il difetto motivazionale ha ad oggetto il mero richiamo alla sentenza del giudice di primo grado (appellata), il secondo ha ad oggetto, invece, il richiamo ad un’altra sentenza emessa dalla stessa Commissione in altro giudizio, il terzo ha ad oggetto il richiamo ad atti processuali delle parti.

Per quanto concerne il primo gruppo, viene censurata la sentenza in quanto rinvia (confermandolo) al provvedimento di primo grado.

È il caso della fattispecie esaminata dalla recente sentenza n. 19956/2017 cit., nella quale viene impugnata la sentenza della Commissione Regionale in quanto – nel respingere l’appello proposto avverso la sentenza di primo grado – ha sostenuto che non erano ravvisabili “elementi per modificare l’esauriente giudizio già espresso dai primi giudici, che hanno constatato, dopo attento esame documentale, che risultavano in gran parte giustificate le movimentazioni bancarie a fronte dell’accertamento operato”.

La Corte di cassazione ha cassato tale sentenza sostenendo che la “C.T.R. si è limitata a rinviare del tutto genericamente a quanto accertato dai giudici di primo grado senza dare conto dell’esame dei motivi di appello dell’Ufficio e senza dimostrare di avere esaminato le circostanze specifiche del caso concreto”.

Ad analoga conclusione è giunta un’ulteriore pronuncia della Suprema Corte ([19]) avente ad oggetto l’impugnazione di una sentenza con motivazione solo apparente e di stile oltre che mancante dell’indicazione dei motivi di appello e di ogni valutazione della fondatezza degli stessi.

Il compendio motivazionale della medesima consiste nella seguente mera affermazione: “la sentenza appellata è fondata sull’esame delle richieste formulate dal contribuente nel ricorso, per cui vi è corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato, nè le argomentazioni svolte dall’A.F. appaiono sufficienti per poter modificare, riformare o ribaltare la sentenza appellata che deve ritenersi motivata ad substantiam”.

In tal caso, la Cassazione ha annullato la sentenza della Commissione Regionale affermando che “è evidente l’assoluta nullità della sentenza impugnata, priva dell’esposizione dei motivi in diritto sui quali è basata la decisione”.

Per quanto concerne il secondo gruppo, come accennato, il richiamo avviene non già ai provvedimenti (appellati) del giudice di prime cure, bensì ad altri provvedimenti della stessa Commissione e inerenti altri giudizi.

È il caso esaminato dalla citata pronuncia n. 13990/2003 cit., nel quale veniva censurata la sentenza per mancanza assoluta di motivazione, essendosi, la Commissione regionale, limitata a richiamare una propria sentenza emessa in altro giudizio senza enunciare le ragioni dell’accoglimento della impugnazione proposta dall’appellante.

In particolare, la Commissione regionale accoglieva l’appello sulla premessa di aver discusso nella stessa data l’appello proposto da altro soggetto e avente ad oggetto la medesima materia senza fare un benchè minimo accenno alle ragioni in base alle quali il gravame prodotto dalla contribuente doveva ritenersi fondato (si trattava, invero, di due giudizi aventi ad oggetto il medesimo avviso di accertamento ma proposti, il primo, dalla società, il secondo, da un socio della medesima).

La Corte, dopo aver fatto un breve excursus sulle disposizioni costituzionali, civilistiche e tributarie inerenti la motivazione della sentenza, giunge a sostenere che le scarne espressioni che integravano la motivazione della sentenza risultavano, in sé considerate, totalmente incomprensibili proprio perché disancorate da qualsiasi precisazione dei fatti rilevanti. In particolare, afferma che “la motivazione della sentenza di appello deve essere autosufficiente, nel senso che solo dalla lettura della sentenza medesima e non aliunde sia possibile rendersi conto delle ragioni di fatto e di diritto le quali stanno alla base della decisione. Peraltro, nel caso in esame, in cui si ha motivazione per relationem di una sentenza di appello rispetto ad altra sentenza di appello, entrambe le decisioni afferiscono a processi tra loro indubbiamente connessi, ma separati e distinti, di guisa che ciascuno ha avuto un proprio iter”.

L’indipendenza dei rispettivi processi rende necessario che ognuna delle sentenze pronunciate contenesse tutti gli elementi essenziali relativi allo svolgimento del processo e ai motivi in fatto ed in diritto delle adottate statuizioni, senza che la sentenza inerente il processo in questione potesse limitarsi a fare riferimento alla sentenza relativa all’altro giudizio ([20]).

L’ultimo gruppo è dato dalle sentenze che, a fini motivazionali, si riportano non già a provvedimenti giurisprudenziale (come nei casi appena elencati) bensì ad atti e documenti depositati delle parti in causa.

Si verifica, non di rado, infatti, che le sentenze riproducono pedissequamente deduzioni e osservazioni rilevati dalle parti nei suddetti atti.

È stato il caso oggetto dell’importante sentenza delle sezioni unite n. 642/2015 largamente esaminata supra, nella quale, parte ricorrente si doleva del fatto che “la decisione impugnata sarebbe priva di motivazione, essendo quella esposta in sentenza meramente apparente in quanto costituita esclusivamente dalla integrale riproduzione delle controdeduzioni depositate dall’Ufficio dell’Agenzia delle Entrate nel giudizio d’appello, senza alcuna autonoma valutazione da parte del giudicante e comunque in assenza di una anche sintetica esplicitazione delle ragioni della totale adesione del medesimo alle tesi dell’Agenzia delle Entrate”.

La Corte, nel rigettare tale motivo di ricorso, dipana le sue argomentazioni su due piani differenti, uno attinente l’originalità della sentenza (in riferimento proprio al diritto d’autore), l’altro inerente la delimitazione della facoltà, per il Giudice, di attingere, ai fini della redazione della sentenza, ad atti processuali delle parti.

In merito al primo profilo, ovvero con riguardo alla disciplina civilistica del diritto d’autore, la Corte ha chiarito che la sentenza non è un’opera dell’ingegno di carattere creativo appartenente “alle scienze, alla letteratura, alla musica, alle arti figurative, all’architettura, al teatro e alla cinematografia” e pertanto, a norma dell’art. 2575 c.c., non può essere oggetto del diritto d’autore nelle due espressioni (morale e patrimoniale) considerate dal legislatore. Ciò ove si consideri – come viene testualmente affermato in sentenza – che “al di là di quanto effettivamente creativo ed originale sia eventualmente riscontrabile nei contenuti e nelle modalità espressive utilizzate in una sentenza, essa non viene in considerazione per l’ordinamento come opera letteraria bensì quale espressione di una funzione dello Stato, come d’altro canto accade per gli atti amministrativi e legislativi nonchè per gli atti dei rispettivi procedimenti prodromici”.

Da tali considerazioni consegue che nella sentenza non assume rilievo l’eventuale “originalità” dei contenuti e delle relative modalità espressive ma può essere riportato, ripreso, richiamato in tutto o in parte il contenuto di altre sentenze, di atti legislativi o amministrativi ovvero di atti del processo (perizie, prove testimoniali, scritti difensivi) senza che, sotto entrambi gli aspetti (cioè sia con riguardo alla sentenza che all’atto nella stessa riportato), si ponga un problema di individuazione di paternità, come sarebbe invece possibile con riguardo ad opere letterarie o latu sensu artistiche ([21]).

In merito al secondo profilo, invece, le sezioni unite esaminano la facoltà, per il Giudice, di redigere la sentenza riportando il contenuto di atti di parte e, soprattutto, fin quanto il medesimo possa spingersi in tale facoltà senza che vengano compromessi i suoi caratteri di imparzialità e terzietà ([22]).

Difatti, in questi casi, per vizio di motivazione inteso in tal senso (ovvero quando il Giudice attinge ad atti delle parti per la sua redazione) gli appellanti censurano la sentenza lamentando la violazione proprio del principio di imparzialità.

Per comprendere appieno la soluzione fornita dalla Corte, occorre, però, dapprima soffermarsi sul concetto di imparzialità inteso ai fini della redazione della sentenza. A tal proposito deve segnalarsi uno storico intervento della Corte Costituzionale, la quale, con la sentenza n. 155/1996, soffermandosi su tale concetto ha affermato che “l’imparzialità richiede che la funzione del giudicare sia assegnata a un soggetto terzo, non solo scevro di interessi propri che possano far velo alla rigorosa applicazione del diritto, ma anche sgombro da convinzioni precostituite in ordine alla materia del decidere, formatesi in diverse fasi del giudizio in occasione di funzioni decisorie che egli sia stato chiamato a svolgere in precedenza”. Sulla base di questo importante arresto è quindi possibile affermare che l’imparzialità del magistrato presuppone (per primo) l’inesistenza di un suo interesse personale nella causa e la sua estraneità rispetto alle parti del processo e (per secondo) l’inesistenza di precedenti decisioni assunte sulla medesima regiudicanda in altri gradi o fasi del medesimo processo.

Tanto premesso, applicando tale interpretazione ai fini della redazione della sentenza, risulta evidente come nessuna violazione al principio di imparzialità si configura nell’ipotesi in cui, decisa la controversia, il giudice ritenga di motivare la decisione utilizzando nella redazione della sentenza gli atti diparte.

Invero, nel contenzioso civile, in cui si contrappongono due o più parti, il compito del giudice è proprio quello di decidere la controversia accogliendo – e rispettivamente rigettando – totalmente o parzialmente, le pretese di una parte rispetto all’altra e ciò (a meno che non emerga la necessità di una diversa ricostruzione giuridica e fattuale della vicenda) per le ragioni dalla medesima espresse nei propri atti.

Non si configura violazione del principio di imparzialità, quindi, per il semplice fatto che il Giudice fa riferimenti a tesi esposte dalle parti. D’altronde non vi sarebbe nulla di anormale se il Giudice abbia la stessa visione di una delle parti; d’altro canto, lo scopo di una difesa professionale e della presentazione di scritti difensivi è proprio quello di convincere il giudice delle proprie buone ragioni. E quando ciò dovesse accadere, cioè quando il giudice, adempiendo il proprio dovere di decidere la controversia, accogliesse l’istanza che ritiene meritevole di tutela (solo o anche) alla stregua delle ragioni esposte dalla parte nei propri scritti difensivi (ove queste ragioni risultassero espresse in modo chiaro ed esaustivo) sarebbe ipocrita chiedere al medesimo giudice di esporre nuovamente con diverse parole le medesime motivazioni che lo hanno convinto a stabilire una determinata regolamentazione degli interessi in conflitto.

 

 

 


 ([1]) Art. 546, c.p.p., il quale stabilisce che “La sentenza contiene: … la concisa esposizione dei motivi di fatto e di diritto su cui la decisione è fondata, con l’indicazione delle prove poste a base della decisione stessa e l’enunciazione delle ragioni per le quali il giudice ritiene non attendibili le prove contrarie, con riguardo: 1) all’accertamento dei fatti e delle circostanze che si riferiscono all’imputazione e alla loro qualificazione giuridica; 2) alla punibilità e alla determinazione della pena, secondo le modalità stabilite dal comma 2 dell’art. 533, e della misura di sicurezza; 3) alla responsabiltà civile derivante dal reato; 4) all’accertamento dei fatti dai quali dipende l’applicazione di norme processuali”.
([2]) “Il giudice e le parti redigono gli atti in maniera chiara e sintetica, secondo quanto disposto dalle norme di attuazione”.
([3]) Art. 1, comma 2, d. lgs. n 546/1992: “I giudici tributari applicano le norme del presente decreto e, per quanto da esse non disposto e con esse compatibili, le norme del codice di procedura civile”.
([4]) CHINDEMI, La motivazione della sentenza nel giudizio tributario alla luce della novella del codice di procedura civile (l. n. 69 del 2009).
([5]) MANDRIOLI-CARRATTA, Corso di diritto processuale civile, Giappicchelli ed., 2017.
([6]) Cfr. Cass. Civ., sez. lav., 20 novembre 2000, n. 14966, in baca dati De Jure; id., sez. I, 17 gennaio 1995 n. 478, ivi; id., sez. II  20 dicembre 1994 n. 10972, ivi
([7]) In tale senso Cass. civ., sez. III, 18 marzo 2003 n. 3989, in banca dati De Jure; id., sez. lav., 6 settembre 1995 n. 9384, ivi.
([8]) Approfondiscono tale aspetto Cass. Civ. 10 maggio 2002, n. 6765, in banca dati De Jure; Cass. Civ. 2 agosto 2001, n. 10569, ivi; Cass. Civ.  22 febbraio 2001, n. 2602, ivi.
([9]) Si veda Cass. 7 novembre 2005, n. 21490, in banca dati De Jure.
([10]) Quest’ultima aggiunta rappresenta senza dubbio un primo tentativo di avvicinare la nostra giurisprudenza al modello anglosassone. In ogni caso, bisogna aggiungere che il mancato richiamo ai precedenti giurisprudenziali conformi non è, tuttavia, requisito di validità della sentenza, non trattandosi di una causa di nullità prevista dalla legge, tuttavia, potrebbe comportare sanzioni disciplinari per il giudice che violi sistematicamente tale prescrizione, nel caso adotti anche la “succinta” motivazione e considerato che anche con riferimento al ricorso per Cassazione relativo alle sentenza delle Commissioni tributarie, occorrerà il richiamo a precedenti giurisprudenziali difformi dalla pronunzia impugnata.
([11]) Modifica apportata dall’art. 45, comma 17, l. n. 18 giugno 2009, n. 69.
([12]) In questo senso Cass. Civ. n. 1994/2001; id. n. 3282/1999; id., n. 5101/1999; id., n. 2711/1990, tutte in banca dati De Jure.
([13]) Cass. Civ., sez. trib. 22 settembre 2003, n. 13990, in banca dati Giuffrè.
([14]) Cass. Civ., sez. VI, 10 agosto 2017, n. 19956, in banca dati Giuffrè.
([15]) Attuata con il d.lgs. n. 5/2003 e abrogata dalla l. n. 69/2009.
([16]) Art. 16, comma 5, del citato d.lgs. n. 5/2003.
([17]) Cfr. Cass., s.u., n. 16277/2010, con la quale è stata fatto applicazione del principio in materia disciplinare con riguardo a sentenza rinviante ad atti del procedimento penale cui era stato sottoposto il magistrato, acquisiti al procedimento disciplinare.
([18]) Inoltre, già prima della riforma del 2009 la Suprema Corte, con la sentenza n. 3066/2002, aveva precisato che la mancanza formale della concisa esposizione dello svolgimento del processo – come anche della indicazione delle parti o delle conclusioni (che la riforma del 2009 non ha soppresso) – non vale ad integrare un motivo di nullità della sentenza se dalla lettura di essa è comunque possibile individuare i passaggi essenziali della vicenda processuale e gli elementi di fatto rilevanti della causa e considerati o presupposti nella decisione.
([19]) Cfr. Cass. Civ., sez. trib., 16 luglio 2009, n. 16581, in banca dati De Jure; in questo senso si veda anche Cass. Civ., sez. I, 04 agosto 2010, n. 18108, ivi.
([20]) Una fattispecie simile è stata anche esaminata, seguendo il medesimo ragionamento, da cfr. Cass. Civ., n. 11677/2002, in banca dati De Jure.
([21]) Un ulteriore effetto di tale circostanza consiste nel fatto che la sentenza può essere citata, riportata, ripresa e richiamata in altri scritti senza che si ponga alcun problema di diritto d’autore nè sotto il profilo patrimoniale nè sotto il profilo morale, ossia con riferimento alla rivendicazione della paternità dell’opera.
([22]) Si vedano anche Cass. Civ., sez. un., 15 maggio 2014, n. 10628, in Giust. Civ. Mass., 2014 (avente ad oggetto l’irrogazione, ad un magistrato, della sanzione di cui all’art. 1, comma 1 e art. 2, comma 1, lett. d, d. lgs. 109/2006 per avere redatto due sentenze civili con motivazione sostanzialmente costituita dalla pedissequa riproduzione, anche nella forma grafica ed inclusa la punteggiatura, della comparsa conclusionale depositata dalla parte vittoriosa, con le sole modifiche imposte dalla forma grammaticale del provvedimento decisorio rispetto all’atto di parte); si v. anche Cass. Civ., sez. II, 07 gennaio 2008, n. 38, in banca dati Giuffrè.

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