Need for digital taxation

Need for digital taxation

Youtuber, Instagrammer, Twitcher, gamer e blogger.

Influencers, insomma.

Che poi sono la versione 2.0 dei tradizionali testimonials; il teorema è infatti il medesimo: sfruttano la loro popolarità acquisita sul web (la loro immagine) per influenzare le scelte d’acquisto dei propri seguaci (leggi followers).

Come? Influencer marketing.

Post promozionali, banner e link pubblicitari ma anche vere e proprie campagne pubblicitarie, affiliazioni e unboxing.

Insomma, tutto fa brodo; e la tendenza, l’equazione e il risultato sono sempre i medesimi: più popolarità (più followers) uguale più notorietà uguale più contratti di sponsorizzazione uguale più ricchezza.

L’influencer dal punto di vista del diritto civile

Non vi è dubbio che l’influencer sia un prestatore d’opera intellettuale.

La disciplina applicabile, pertanto è quella codicistica (art. 2230, cod. civ.).

Preminente, a mio avviso, resta la prestazione personale; motivo per cui ritengo una forzatura estrema l’applicazione dell’appalto di servizi.

Inluencer marketing, dunque. Che altro non è che un contratto di prestazione d’opera.

Insomma, tra brand e influencer i rapporti saranno regolati secondo le direttive del Codice del 1942.

L’influencer dal punto di vista del diritto tributario

A questo proposito, il discorso diventa molto interessante.

Specie, alla luce dei fenomeni d’evasione più che frequenti.

Dunque, è ovvio che il reddito derivante dallo sfruttamento del diritto d’immagine debba essere tassato.

Anche quando inizialmente l’attività di influencer, magari marginale o comunque svolta non in modo principale, genera dei corrispettivi modesti ed occasionali: dicesi reddito diverso.

Al contrario, nel momento in cui diventerà abituale e professionale, con alle spalle un endorsment da parte di un brand (contratto di sponsorizzazione) l’attività verrà tassata come reddito da lavoro autonomo, assoggettato ad IVA. Naturalmente, secondo il disposto dell’art. 55, comma 2, lett. a), T.U.I.R., saranno redditi di impresa qualora l’attività sia organizzata in forma di impresa.

Anche per quanto riguarda le affiliazioni è corretto parlare di reddito di impresa.

Si tratta di quegli accordi sulla base dei quali l’influencer ospita, all’interno dei propri social, banner pubblicitari di aziende. In questi casi, per ogni vendita effettuata tramite il link presente sul proprio sito, l’influencer riceve una remunerazione in percentuale; si tratta quindi di una vera e propria attività di intermediazione commerciale e come tale soggetta a tassazione come reddito di impresa.

Altra peculiarità si avrà quando l’influencer crea dei propri contenuti nei quali viene veicolato il messaggio pubblicitario. In questo caso potremmo essere di fronte ad uno sfruttamento economico del diritto d’autore che viene previsto tributariamente all’art. 53, comma 2, lett. b), T.U.I.R. quale redditi assimilati ai redditi da lavoro autonomo.

Ma ci sono parecchie zone grigie.

Esistono infatti dei casi in cui l’influencer chiede – e ottiene – delle donazioni. Delle donazioni di modico valore se singolarmente considerate. Ma che se rapportate al numero (spesso ingente) di followers, possono costituire somme cospicue.

Ebbene? A mio parere, è evidente che tali elargizioni siano determinate dalla notorietà dell’influencer di turno e, quindi e in breve, altro non siano che un ulteriore provento derivante dallo sfruttamento della propria immagine e della notorietà acquisita.

Motivo per cui tali dazioni, che spesso sfuggono al Fisco, andrebbero dichiarate e sottoposte a tassazione.

Analogo discorso per il fenomeno del cosiddetto unboxing. Che io traduco con messaggio promozionale indiretto.

Anche in questo caso, tale attività andrebbe tassata, considerando quale base imponibile il valore del bene ricevuto in omaggio dal brand.

E il web marketing?

A tal proposito va ricordato che, al momento, non esiste una apposita normativa che disciplini il fenomeno del web marketing per il tramite degli influencers. Resta comunque indiscutibile il riferimento alle regole generali della trasparenza e alle disposizioni contenute nel Codice del Consumo.

Non va occultata la natura promozionale di un messaggio, conferendo allo stesso una veste informativa o comunque neutrale, così abbassando la soglia di attenzione del consumatore e ponendo in essere una pratica commerciale scorretta in violazione degli artt. 22 e 23 del D.Lgs. n. 206/2005 (“Codice del Consumo”).

La soluzione francese

Mentre l’Italia brancola nel buio, la Francia – prima in Europa – è riuscita a costruire un quadro normativo che, prima di ogni cosa, individua la figura dell’influencer, da intendersi come: “persone che, in cambio di un ritorno economico o di altro tipo, sfruttano la propria reputazione tra il pubblico per comunicare” online “dei contenuti volti a promuovere, direttamente o indirettamente, beni, servizi o qualsiasi causa”.

Direttamente o indirettamente.

Il che significa che ogni centesimo prodotto dallo sfruttamento della propria immagine è sottoposto a tassazione, indipendentemente dal “veicolo” utilizzato. Il che significa, ancora, uno stop ai messaggi ingannevoli e alle pubblicità occulte (le sanzioni previste arrivano sino a 300.000,00 Euro).


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