La revocabilità dell’ammonimento alla luce dei percorsi trattamentali   

La revocabilità dell’ammonimento alla luce dei percorsi trattamentali  

Sommario: 1. L’ammonimento del questore: definizione e natura giuridica – 2. Ammonimento come strumento di lotta alla violenza di genere: differenza tra ammonimento per stalking ex art. 612 bis e maltrattamenti in famiglia ex art. 572 c.p. – 3. Il ruolo dei programmi di intervento per uomini maltrattanti come strumento di rieducazione e prevenzione della recidiva – 3.1. Il percorso trattamentale per autori di violenza domestica: un passo verso la responsabilizzazione e il cambiamento – 3.2. L’alba del cambiamento offuscata dalle ombre normative: il dilemma dei CUAV – 4. Fondamento giuridico della revocabilità dell’ammonimento e il ruolo dei programmi di intervento – 4.1. Il doppio taglio della revocabilità: le promesse di cambiamento al vaglio dell’ambiguità giuridica

1. L’ammonimento del questore: definizione e natura giuridica

Le misure di prevenzione,[1] figlie del perenne oscillare tra fisiologia ed emergenza, sono misure special-preventive, di natura formalmente amministrativa, per la cui applicazione vale la logica del “più probabile che non”[2], essendo sufficiente una dimostrazione fondata su elementi di fatto gravi, precisi e concordanti, secondo un ragionamento causale di tipo probabilistico improntato a una elevata attendibilità.[3]

Si tratta di provvedimenti, permeati da ampia discrezionalità valutativa, che vengono emanati all’esito di un iter procedimentale caratterizzato da snellezza e celerità; applicati indipendentemente dalla commissione di un precedente reato, onde la denominazione di misure ante delictum o praeter delictum.

L’ammonimento del Questore, che rientra tra le misure di prevenzione personali atipiche a carattere monitorio, è stato introdotto nel nostro ordinamento per la prima volta con il decreto-legge 23 febbraio 2009, n. 11 (convertito dalla legge 23 aprile 2009, n. 38) con finalità di prevenzione delle condotte punite dall’art. 612-bis c.p. Con il decreto-legge 14 agosto 2013, n. 93 (convertito dalla legge 15 ottobre 2013, n. 119) è stato ampliato l’istituto, estendendolo a determinate condotte orbitanti nella sfera della c.d. violenza domestica.

Il legislatore, consapevole della complessità del fenomeno della violenza di genere, ha voluto, così, predisporre un arsenale protettivo a doppio binario; accanto alla più pregnante tutela penale, ne aggiunge una di natura amministrativa, nel segno dell’anticipazione e della snellezza procedurale.

Il provvedimento intende stimolare, attraverso la condanna delle condotte adottate dall’ammonendo e che ancora non hanno raggiunto una carica offensiva ritenuta meritevole di attivare la tutela penale, un’adesione a comportamenti socialmente condivisibili.

A questo proposito, vale la pena evidenziare la solennità del momento della notifica del provvedimento, che risiede proprio nella possibilità di ammonire il soggetto circa il disvalore delle proprie condotte, ancorché non abbiano ancora raggiunto i crismi della tipicità, incitandolo in primis alla riflessione e al ravvedimento[4] e in seconde cure al richiamo all’osservanza della legge.

Negli anni, l’aumento esponenziale dei reati di genere ha indotto il Legislatore ad intervenire più volte sulla materia.[5] In questo solco si inserisce la Legge 24 novembre 2023, n. 168, titolata “Disposizioni per il contrasto della violenza sulle donne e della violenza domestica”, nota per aver attuato una politica di contenimento del fenomeno attraverso disposizioni volte ad arricchire e rafforzare l’impianto delle misure finalizzate a prevenire e reprimere la violenza di genere, nonché degli specifici rischi di reiterazione, prevedendo al contempo la partecipazione dei relativi autori a percorsi di recupero.

Tanto il provvedimento di cui all’ art. 8 d.l. 23 febbraio 2009, n. 11, convertito in l. 23 aprile 2009, n. 38, che quello previsto dall’ art. 3 d.l. 14 agosto 2013, n. 93, convertito in l. 15 ottobre 2013, n. 119, come recentemente novellati dalla L. n.168/23, intendono stimolare il trasgressore all’adesione a comportamenti socialmente condivisibili.[6]

Ai fini della sua emissione, non occorre la piena prova della responsabilità dell’ammonito, poiché la valutazione amministrativa è diretta a prevenire la commissione di reati, mediante un giudizio prognostico ex ante relativo alla sussistenza di un mero pericolo, e non anche a stabilire la responsabilità.

Il provvedimento di ammonimento presuppone, dunque, non l’acquisizione della prova richiesta ai fini della condanna per il reato di stalking e/o maltrattamenti, ma la sussistenza di soli elementi indiziari dai quali sia possibile desumere, con un adeguato grado di attendibilità, un comportamento reiterato anomalo, minaccioso o semplicemente molesto.

Si riafferma, dunque, la centralità dell’Autorità di Pubblica Sicurezza nella prevenzione della fenomenologia della violenza di genere. Il Questore, ove ritenga fondata l’istanza, ammonisce oralmente il soggetto nei cui confronti è stato richiesto il provvedimento, invitandolo a tenere una condotta conforme alla legge.

Sul punto vale la pena osservare che «l’ammonimento della questura è un provvedimento discrezionale chiamato ad effettuare una delicata valutazione delle condotte poste in essere dal “potenziale stalker” in funzione preventiva e dissuasiva».

Quanto alla vexata quaestio circa il rapporto esistente tra la comunicazione di avvio del procedimento, di cui all’art. 7 L. 241/90[7] e il procedimento monitorio, si è recentemente pronunciata la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo con la sentenza “Germano c. Italia” del 22 giugno 2023. Secondo i Giudici di Strasburgo, il diritto generale degli interessati a ricevere comunicazione dell’avvio di un procedimento amministrativo è derogabile solo in presenza di «particolari esigenze di celerità del procedimento».[8]

Pertanto, il Questore, come dominus dell’adozione del provvedimento, può valutare l’an e il quamodo,[9] e decidere di emetterlo senza indugio qualora le circostanze non consentano di avvisare il destinatario dell’atto, sulla scorta della necessità e dell’urgenza.

Vale la pena osservare che il provvedimento monitorio, quale atto amministrativo, può essere validamente notificato al destinatario da un Ufficiale di Pubblica Sicurezza[10] legittimamente delegato dal Questore, purché la delega emerga dagli atti.

L’ufficiale, inoltre, è responsabile della correttezza della notifica dell’ammonimento all’interessato, assicurandosi che venga effettuata in modo formale e documentato.

A tal riguardo, è necessario che l’ufficiale informi l’interessato sui diritti e sulle modalità di impugnazione del provvedimento, nonché sulla possibilità di accedere a programmi trattamentali, tesi alla risocializzazione dell’ammonito.

La notifica, pertanto, reca con sé una proiezione più ampia di un mero atto formale.

È in questa prima fase, infatti che l’ammonito per la prima volta prende coscienza del disvalore del proprio comportamento innanzi all’apparato istituzionale.

La natura preventiva e dissuasiva dell’ammonimento, infatti, ha il merito di intervenire in maniera preventiva al fine di evitare la consumazione del reato, intervenendo prima del momento in cui la serie di condotte realizzate dall’agente ne acquisti i connotati di un reato, potendo poggiare su fatti che non hanno ancora raggiunto i crismi della tipicità. [11]

2. Ammonimento come strumento di lotta alla violenza di genere: differenza tra ammonimento per stalking ex art. 612 bis e maltrattamenti in famiglia ex art. 572 c.p.

La legge n. 168/2023, agli articoli 1 e 2, prevede importanti novità in materia di misure di prevenzione personali, intervenendo specificatamente sull’art. 3 del dl n. 93/2013 e l’articolo 8 del dl n. 11/2009. In particolare, è nota per aver offerto un nuovo design al provvedimento monitorio, arricchendolo mediante l’ampliamento del novero dei reati spia, cd. reati presupposto, nonché armonizzando la disciplina dell’ammonimento della violenza domestica con quella dell’ammonimento per atti persecutori (ex art. 8 così come novellato dall’art. 1, co. 3 l. 168/2023).

L’ammonimento del Questore per atti persecutori previsto dall’art. 8 D.L. n. 11/2009 – originariamente previsto per il solo reato di cui all’art. 612-bis c.p.  – è ora previsto anche per il reato di cui al 612-ter, rubricato “Diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti” (c.d. “revenge porn”), introdotta nel Codice penale dalla legge n. 69/2019.

L’ammonimento, dunque, è applicabile nei confronti di chiunque ponga in essere condotte astrattamente riconducibili al disposto di cui all’art. 612-bis o 612-ter, senza che sia necessaria l’acquisizione di prove del fatto penalmente rilevante.

Giova precisare che la misura di prevenzione in esame è attivabile soltanto dalla persona offesa e fino a quando non sia stata presentata querela; inoltre, è previsto un aumento edittale di pena, per i delitti di cui agli articoli 612-bis e 612-ter del codice penale, se il fatto è commesso da soggetto già ammonito, anche se la persona offesa è diversa da quella per la cui tutela è stato già adottato l’ammonimento.

E ancora, la previa irrogazione dell’ammonimento incide sulla procedibilità dei delitti di cui agli artt. 612-bis e 612-ter (originariamente procedibili a querela della persona offesa) che diventano procedibili d’ufficio quando il fatto è commesso da soggetto già ammonito, anche se la persona offesa è diversa da quella per la cui tutela è stato già adottato l’ammonimento.

L’ammonimento per violenza domestica, ex art. 3 del D.L. n. 93/2013, recentemente novellato dall’art. 1, co. 1 della Legge Roccella, ha esteso l’applicazione dell’ammonimento ad ulteriori condotte (cd. reati spia) rispetto a quelle originariamente previste (reato di percosse e lesione personale procedibile a querela della persona offesa) che, nel contesto delle relazioni familiari e affettive, possono assumere valenza sintomatica rispetto a situazioni di pericolo per l’integrità psico-fisica delle persone. Tra queste si segnalano i reati di: lesione personale (art. 582, co. 1 e 2); violenza privata (art. 610 c.p.); minaccia aggravata (art. 612 co. 2 c.p.); atti persecutori (art. 612 bis c.p.); diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti (art. 612 ter c.p.); violazione di domicilio (art. 614 c.p.); danneggiamento (all’art. 635 c.p.). Pertanto, allorquando sia segnalato alle forze dell’ordine da chiunque, ma in forma non anonima, un fatto che debba ritenersi riconducibile ai reati di cui sopra, consumati o tentati, nell’ambito di violenza domestica, il Questore, anche in assenza di querela, può procedere, assunte le informazioni necessarie da parte degli organi investigativi e sentite le persone informate dei fatti, all’ammonimento dell’autore del fatto.

A differenza dell’ammonimento per stalking, la misura di prevenzione in argomento opera a prescindere dalla presentazione della querela.

Inoltre, è richiesto che le condotte-presupposto si inseriscano all’interno di un contesto di violenza domestica.  In entrambe le ipotesi di ammonimento, il Questore è tenuto ad adottare i provvedimenti in materia di armi e munizioni (art. 3, comma 2, D.L. n. 93/2013 e art. 8, comma 1 e 2 D-L. n. 11/2009).

Da ultimo, al fine di potenziare l’ammonimento per violenza domestica e di armonizzare la disciplina con quella dell’ammonimento per atti persecutori, è stata introdotta, anche per la fattispecie in esame, una specifica aggravante (art. 3, comma 5 quater), nonché la procedibilità d’ufficio – laddove non già prevista (art. 3, comma 5 quinquies) – qualora il fatto sia commesso da soggetto già ammonito, nell’ambito di violenza domestica, anche se la persona offesa è diversa da quella per la cui tutela è stato già adottato l’ammonimento.

Una ulteriore novità introdotta dalla legge n. 168/2023 è costituita dal co. 5-ter dell’art. 3, estesa anche alla fattispecie di cui all’articolo 8 D.L. n. 11/2009, che prevede una specifica disciplina della revoca dell’ammonimento, non prima che siano decorsi tre anni dall’emissione del provvedimento, subordinata alla valutazione positiva della partecipazione a percorsi di recupero (art. 3, co. 5 bis). Si rammenta che l’art. 3, co. 5-bis, D.L. n. 93/2013 prevede l’obbligo per il Questore, contestualmente all’ammonimento, di informare l’autore del fatto circa i servizi territoriali disponibili per il trattamento degli autori di violenza domestica o di genere.

3. Il ruolo dei programmi di intervento per uomini maltrattanti come strumento di rieducazione e prevenzione della recidiva

Ai sensi del co. 5-bis dell’art. 3 del d.l. 93/2013, allorquando il Questore procede all’ammonimento, in sede di notifica, informa senza indugio l’autore del fatto circa i servizi disponibili sul territorio idonei a prestargli assistenza mediante l’attivazione di un percorso rieducativo e riabilitativo, dedicato alla comprensione del disvalore umano, sociale e giuridico delle condotte, al miglioramento della gestione delle emozioni, per limitare il rischio di recidiva.

La prassi evidenzia come gli autori di violenza sovente manifestano forme di disimpegno morale, che li inducono a minimizzare, oscurare o negare gli eventi occorsi e le ripercussioni delle proprie azioni, giungendo persino all’edificazione di distorsioni cognitive volte a eludere sentimenti di colpa, vergogna e disistima, con esiti di disumanizzazione della vittima.

Ne consegue l’ineludibile necessità che tali soggetti intraprendano un percorso riabilitativo presso centri e strutture idonee, che consenta loro di acquisire piena coscienza del disvalore dei propri comportamenti e di apprendere l’arte di dominare il complesso universo delle emozioni.

In tale frangente, la notificazione dell’ammonimento si affranca dal suo significato meramente formale, assurgendo a momento cruciale potenzialmente in grado di innescare un primario e significativo effetto dissuasivo, finalizzato a sensibilizzare il soggetto ammonito in relazione al discredito sociale delle condotte attuate, intimandogli la cessazione di ogni agire violento e informandolo, contestualmente, circa la facoltà di sottoporsi a un percorso trattamentale di rivisitazione del proprio bagaglio esperienziale.

La notifica, pertanto, si ammanta di una duplice significazione. Per quel che concerne la grammatica del provvedimento in esame, l’etimo è noto: stimolare, attraverso la condanna delle condotte o degli stili di vita adottati dall’ammonendo, un’adesione a comportamenti socialmente condivisibili, aderendo ai predetti percorsi trattamentali di recupero.

Per tale ragione, è fondamentale che l’Autorità di Pubblica Sicurezza, nel procedere alla comunicazione dell’ammonimento, tenga in debita considerazione una congerie di fattori atti a garantirne l’efficacia, calibrando con meticolosità modalità e contenuti, onde assicurare che il soggetto coinvolto pervenga a una piena comprensione della situazione e delle conseguenze delle proprie azioni, nonché dell’opportunità di riscatto offerta.

Al fine di una ricezione chiara e costruttiva del messaggio, si rende necessario che la comunicazione avvenga con deferenza e trasparenza, senza trascurare il potenziale impatto psicologico che la ricezione di un ammonimento può determinare.

La comunicazione del provvedimento è suscettibile di generare sentimenti di ansia, timore e vulnerabilità, scaturenti dal conflitto interiore tra l’anelito all’accettazione e il timore delle sanzioni. Tali reazioni possono propiziare una riflessione critica sul proprio agire, destando sentimenti di colpa o vergogna. Queste emozioni, se sapientemente gestite, possono fungere da volano per una metamorfosi positiva; al contrario, rischiano di innescare meccanismi di difesa o negazione, pregiudicando l’intero processo di acquisizione di consapevolezza. È, pertanto, essenziale che la notifica sia espletata con sensibilità e perspicuità, ove occorra attenuando gli effetti negativi e propiziando una risposta costruttiva.

L’obiettivo primario è che il soggetto percepisca l’ammonimento come un’occasione di crescita e mutamento, piuttosto che come una mera punizione.

Il messaggio dovrebbe essere orientato alla promozione della consapevolezza e della possibilità di intraprendere percorsi di cambiamento, inclusa la fruizione del trattamento previsto.

Presentare l’ammonimento come uno strumento di tutela per l’intera collettività, e non come un atto punitivo, può concorrere a edificare un ponte verso il cambiamento. Conseguentemente, diviene essenziale che la comunicazione, sempre assertiva, sia modulata tenendo in considerazione la personalità, lo stato psicologico e il pregresso relazionale del soggetto.

In alcuni casi, il momento della notifica può rappresentare un vero punto di svolta, inducendo il soggetto a interrompere condotte moleste e a rispettare la libertà e l’integrità psicofisica della vittima; mentre, in altri casi, potrebbe non sortire effetto, ma «all’opposto potrebbe incentivare l’aggressività del persecutore, anziché interromperla»[12]. Siffatta circostanza impone una “valutazione situazionale” specialistica, modulata, in primo luogo, sul trascorso esperienziale del soggetto da parte di personale adeguatamente formato, altamente qualificato e che abbia maturato specifiche competenze professionali nel settore della violenza di genere, con particolare riguardo all’approccio tanto alla vittima che al maltrattante.

3.1. Il percorso trattamentale per autori di violenza domestica: un passo verso la responsabilizzazione e il cambiamento

L’ordito normativo nazionale, conformemente ai quattro pilastri concettuali di prevenzione, protezione, punizione e politiche integrate, su cui si fonda la Convenzione di Istanbul, ascrive a sé il pregio di esaltare le potenzialità insite nell’accesso a percorsi trattamentali, focalizzando con determinazione l’attenzione sul recupero del soggetto maltrattante.

L’ingiunzione trattamentale si configura quale primario e significativo passo verso la responsabilizzazione dell’autore di violenza, propiziando una metamorfosi positiva e una più acuta consapevolezza di sé, con il precipuo fine di scongiurare la reiterazione o l’acuirsi di tali condotte.

Intervenendo nelle fasi embrionali dell’escalation, antecedenti al consolidamento del ciclo della violenza domestica, il trattamento si prefigge l’obiettivo di recidere una spirale che troppo frequentemente sfocia nei crimini più efferati, culminando, ancora troppo spesso, nel nefasto delitto di femminicidio.

La sua efficacia si radica su un duplice postulato: tutelare la vittima, prevenendo altresì fenomeni di vittimizzazione secondaria, e contestualmente favorire la risocializzazione del maltrattante mediante l’adesione a un percorso terapeutico mirato al perfezionamento della gestione emotiva e al contenimento dei comportamenti violenti, inclusi quelli recidivanti.

Il percorso trattamentale, gratuito e specificamente orientato, cui l’ammonito è invitato a partecipare, costituisce un paradigma d’azione innovativo, animato dall’intento di stimolare una piena cognizione del disvalore sociale, etico e giuridico delle condotte violente.

Per la concreta attuazione del co. 5-ter, si palesa la necessità di implementare e incentivare la stipula di protocolli d’intervento e intese con le amministrazioni locali, le Aziende Sanitarie Locali, gli uffici scolastici provinciali, i centri antiviolenza e le associazioni dedite alla tutela delle donne, in armonia con i protocolli diffusi a livello nazionale.

Il fondamento giuridico per l’istituzione dei Centri preposti alla presa in carico dei maltrattanti si rinviene nell’art. 5 del d.l. 14 agosto 2013, n. 93, convertito con modificazioni dalla legge 15 ottobre 2013, n. 119. Tale disposizione normativa statuisce che il Presidente del Consiglio dei Ministri, o l’Autorità politica delegata per le pari opportunità, elabori un Piano strategico nazionale contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica.

Alla lettera della norma è stata data concreta esecuzione mediante la recente Intesa Stato-Regioni del 14 settembre 2022 in rep. atti n. 184/CSR, come modificata dall’intesa del 25 gennaio 2024, in rep. atti n. 9/CSR, che disciplina la regolamentazione volta ad armonizzare il processo di sostegno, creazione e accreditamento degli Enti/centri rivolti agli autori di atti di violenza domestica. In particolare, la succitata Intesa ha stabilito i requisiti minimi dei centri per uomini autori di violenza domestica e di genere, d’ora innanzi definiti C.U.A.V..

Tali centri sono chiamati ad adottare programmi ispirati a un modello ecologico di intervento e metodologie idonee a incidere sui fattori che, a diversi livelli, possono generare una resistenza al cambiamento. Si tratta di programmi che perseguono l’obiettivo di prevenire e interrompere i comportamenti violenti, limitare la recidiva, favorire l’adozione di condotte alternative da parte degli autori, promuovere relazioni affettive improntate alla non violenza, alla parità e al mutuo rispetto.

A tal fine, i C.U.A.V. operano in maniera integrata con gli altri attori coinvolti nella gestione del fenomeno, garantendo l’unitarietà e la coerenza del programma e la continuità degli interventi. I trattamenti, improntati alla logica della multidisciplinarietà, sono erogati da un’équipe composta da almeno tre operatori, tra i quali deve figurare almeno un professionista con la qualifica di psicoterapeuta o psicologo con una formazione specifica nel campo della violenza di genere.

Nell’esperienza nazionale, il Protocollo Zeus[13] rappresenta un esempio virtuoso di protocollo d’intervento nel contesto della prevenzione e rieducazione di soggetti ammoniti o a rischio di recidiva.

La sottoscrizione di questi Protocolli, invero, non costituisce una mera enunciazione di intenti. Per vero, in conformità con quanto esplicitato nel Preambolo della Convenzione di Istanbul, i programmi destinati agli autori di violenza si fondano sulla convinzione che il cambiamento sia un’eventualità concreta, giacché la violenza, nella maggior parte dei casi, si configura come un comportamento appreso o una scelta, nondimeno modificabile attraverso l’accompagnamento alla comprensione e alla responsabilizzazione.

I C.U.A.V., quali strutture ove vengono concretamente somministrati i programmi trattamentali, hanno come scopo primario una netta assunzione di responsabilità della violenza da parte degli autori e il riconoscimento del disvalore intrinseco in tale modalità relazionale e di risoluzione dei conflitti.

I programmi trattamentali si articolano in un percorso terapeutico strutturato e calibrato sulle specifiche esigenze, che accompagna il soggetto dalla fase di riconoscimento della violenza agita sino al conseguimento del cambiamento. L’efficacia dei programmi è tuttavia variabile.

Le maggiori criticità sono da ricercare nella motivazione del maltrattante al cambiamento, che spesso rappresenta una variabile difficile da controllare.

Tra i principali limiti emerge la resistenza al cambiamento, un fenomeno complesso e multifattoriale, che può derivare dalla difficoltà ad ammettere il problema o a riconoscere di aver agito in modo violento; molte resistenze sono legate, poi, alla gestione delle emozioni, alla mancanza di consapevolezza o motivazione, o a ragioni culturalmente radicate che giustificano la violenza; anche l’ambiente sociale e familiare può influenzare negativamente, rafforzando convinzioni sbagliate.

3.2. L’alba del cambiamento offuscata dalle ombre normative: il dilemma dei CUAV

Nonostante evidenze empiriche attestino la potenziale efficacia dei protocolli di intervento rivolti a uomini maltrattanti, allorché strutturati con rigore e implementati con continuità, nel ridurre il rischio di recidiva e nel promuovere una profonda revisione critica, la disciplina di riferimento pare manifestare talune intrinseche criticità.

In primis, si annovera quale limite genetico l’assenza di un quadro normativo attuativo e regolamentare a livello nazionale, unitamente alla mancanza di direttive standardizzate concernenti il soggetto deputato a espletare le valutazioni e le verifiche sull’efficacia dei programmi e sui tassi di recidiva.

Allo stato attuale, l’articolo 5, lettera 1. b), dell’Intesa Stato-Regioni in repertorio atti n. 184/CSR, come modificata dall’intesa del 25 gennaio 2024, in repertorio atti n. 9/CSR, attribuisce al Centro la facoltà di attestare l’inizio o la conclusione di un programma da parte dell’utente; ciononostante, tale attestazione è priva di qualsivoglia valore valutativo in merito all’effettiva efficacia del programma e/o al reale cambiamento dell’autore di violenza.

La criticità di maggiore rilievo attiene alla fase valutativa; una volta concluso il percorso trattamentale, il C.U.A.V. si troverebbe nell’impossibilità giuridica di rilasciare una formale attestazione di valutazione sull’efficacia dell’intervento.

Tale circostanza solleva un interrogativo di ampio spettro in merito all’individuazione dell’organismo competente ad assolvere tale cruciale funzione valutativa, con implicazioni dirette sulla verifica del concreto mutamento comportamentale e sulla gestione del rischio di reiterazione delle condotte violente.

Dunque, per favorire le promesse di cambiamento e recupero a cui l’opera dei CUAV è ispirata, parrebbe emergere l’esigenza di un intervento normativo volto a sanare le lacune attualmente esistenti e ad uniformare le procedure inerenti ai percorsi trattamentali destinati agli autori di violenza, con particolare riguardo ai soggetti destinatari di ammonimento.

Ulteriormente, si rileva che i C.U.A.V. che si occupano dei percorsi trattamentali destinati ai soggetti ammoniti non sono attualmente vincolati ad alcun obbligo di comunicazione alla Questura in merito alla presa in carico, alla valutazione iniziale, al programma individualizzato e alla valutazione finale, diversamente da quanto statuito per i percorsi previsti dall’articolo 165, co. 5 c.p., peculiarmente disciplinati.

Emerge, pertanto, una fondamentale dicotomia tra i programmi trattamentali ex articolo 165, co. 5 c.p., e quelli destinati ai soggetti destinatari di ammonimento.

In particolare, per questi ultimi, le modalità operative sono al momento definite esclusivamente mediante Protocolli, differenti a seconda del territorio in cui vengono stipulati, i quali si fondano su prassi convenzionali che, tuttavia, si dimostrano insufficienti a colmare la lacuna di un esplicito obbligo di aggiornamento sistematico, idoneo a instaurare un rigoroso meccanismo di monitoraggio concertato tra la Questura e i C.U.A.V.

Non è di secondaria importanza la criticità inerente alla disomogeneità territoriale, che ostacola una applicazione uniforme dei programmi sull’intero territorio nazionale, unitamente all’assenza di modelli di trattamento omogenei; invero, pur nel rispetto della diversità di potenziali approcci, si registra una marcata carenza di coordinamento nazionale in relazione alle tipologie e ai programmi di intervento.

Tali criticità rischiano di inficiare significativamente l’affidabilità complessiva dei C.U.A.V.

La potenziale disparità nell’efficacia riabilitativa derivante dall’applicazione di metodologie differenti e non coordinate potrebbe tradursi in esiti disomogenei in punto di risocializzazione.

L’attuale carenza di un quadro regolamentare nazionale coerente e di direttive standardizzate sembrerebbe compromettere la piena efficacia dei C.U.A.V., limitandone la capacità di incidere in maniera significativa sulla diminuzione della recidiva e sulla promozione di un concreto cambiamento comportamentale.

4. Fondamento giuridico della revocabilità dell’ammonimento e il ruolo dei programmi di intervento

L’istituto della revocabilità previsto ex art. 3, comma 5 ter del D.L. n. 93/2013, valida tanto per l’ammonimento per violenza domestica che per le ipotesi di stalking, costituisce una importante novità introdotta dalla legge Roccella.

In particolare, a seguito della novella normativa, la revoca può essere disposta su istanza del soggetto ammonito, non prima che siano decorsi tre anni dall’emissione del provvedimento, valutata la partecipazione ad appositi percorsi di recupero e tenuto conto dei relativi esiti.

Ferma la necessità di proseguire sui binari di un intervento di tipo trattamentale che abbia come finalità quella di rendere consapevole l’autore di reati di violenza di genere della profonda antigiuridicità del comportamento tenuto, la previsione della revoca, subordinata al decorso di un triennio e previo accertamento di una resipiscenza del soggetto desunta dagli esiti del percorso di recupero, parrebbe sottendere, sebbene non esplicitamente enunciato, l’introduzione di un meccanismo premiale.

Tale meccanismo condizionerebbe la caducazione della misura all’esito positivo del trattamento riabilitativo intrapreso.

L’esegesi normativa pare suggerire che l’accettazione su base volontaria del percorso e la partecipazione attiva con esito positivo diventano conditio sine qua non per ottenere la revoca.

Tuttavia, sorge spontaneo un interrogativo critico: è effettivamente questa l’intenzione univoca del legislatore? E, in caso affermativo, perché tale meccanismo premiale non è stato formalizzato in maniera espressa e inequivocabile nel dettato normativo, adoperando un linguaggio giuridico rigoroso e privo di ambiguità? Per vero, qualora non si aderisse a tale interpretazione, lo strumento non solo verrebbe depauperato del suo autentico significato intrinseco, ma solleverebbe altresì una questione di palese disparità di trattamento tra coloro che, animati da sponte propria, scelgono di sottoporsi al programma trattamentale non cogente e coloro che, al contrario, decidono di non avvalersene.

L’assenza di una statuizione chiara in tal senso rischia di ingenerare incertezze interpretative e applicative, potenzialmente capaci di pregiudicare la finalità di incentivare attivamente la partecipazione e l’impegno del soggetto nel percorso di recupero.

La mancata esplicitazione di un tale beneficio, pur desumibile implicitamente, potrebbe attenuarne l’efficacia motivazionale, lasciando spazio a interpretazioni divergenti in sede applicativa.

 4.1. Il doppio taglio della revocabilità: le promesse di cambiamento al vaglio dell’ambiguità giuridica

L’ammonimento, così come recentemente novellato dalla L. Roccella, nonostante rappresenti uno strumento strategico di cruciale importanza nella lotta alla violenza di genere, – come dimostrano i dati – presenta diverse criticità che lasciano spazio a zone franche che, sembrerebbe, ne limitano l’efficacia complessiva.

In primis, il legislatore all’ art. 3, co. 5-ter d.l. n. 93 del 2013 ha espressamente previsto la revocabilità dell’ammonimento, decorsi tre anni, previa valutazione della partecipazione del soggetto ad appositi percorsi di recupero e tenuto conto dei relativi esiti.

Tuttavia, allo stato dell’arte, sul piano operativo, l’art. 5, lett. 1.b), dell’Intesa Stato-Regioni concernente la disciplina dei requisiti minimi dei C.U.A.V. stabilisce che: “Il C.U.A.V. può attestare che l’utente ha intrapreso ovvero ha concluso un programma. Tale attestazione non ha valore di valutazione del programma e/o del cambiamento effettivo dell’autore di violenza.”

Emerge una significativa antinomia normativa dall’analisi congiunta dell’articolo 3, co. 5-ter, d.l. 93/13 e l’art. 5, lett. 1.b) dell’Intesa che, a regime, potrebbe generare significative problematiche interpretative e applicative, minando la coerenza del sistema di prevenzione e contrasto alla violenza di genere.

Invero, la ratio legis sottesa all’articolo 3, co. 5-ter, che parrebbe prevede implicitamente la revoca come beneficio premiale, implica intrinsecamente la necessità di una valutazione oggettiva e qualificata del percorso svolto dal soggetto ammonito; invece, l’art. 5, lett. b), dell’Intesa stabilisce inequivocabilmente che l’attestazione rilasciata dal C.U.A.V. in merito alla partecipazione o alla conclusione di un programma di trattamento non possiede alcun valore di valutazione del programma stesso o del cambiamento effettivo manifestato dall’autore di violenza, poiché questi sono unicamente abilitati a certificare l’adesione formale al percorso, senza poter esprimere un giudizio sostanziale sull’efficacia del trattamento.

La discrasia tra le due normative evidenzia una criticità strutturale di ampio respiro; mentre la legge subordina la revoca dell’ammonimento a una valutazione dei percorsi trattamentali, l’Intesa nega la capacità di questi ultimi di fornire una valutazione significativa del cambiamento dell’autore di violenza.

Ulteriori problematiche potrebbero attenere al valore probatorio delle attestazioni rilasciate dai C.U.A.V.

Se tali attestazioni si limitano a certificare la partecipazione formale, senza poter attestare un effettivo cambiamento, il loro contributo al processo decisionale sulla revoca dell’ammonimento risulta significativamente depotenziato, se non nullo; diversamente, si appalesa il rischio che la revoca diventi un mero adempimento burocratico, svuotato del suo intrinseco significato di riconoscimento di un reale percorso di recupero.

Ancora, gli effetti giuridici derivanti dalla revoca dell’ammonimento e le implicazioni sulla tutela della vittima costituiscono aspetti complessi e delicati, che coinvolgono questioni di protezione dei diritti delle parti.

In particolare, la prassi evidenzia come la revoca potrebbe comportare un rinforzo negativo nella vittima, generando sfiducia nelle autorità qualora essa percepisse che il comportamento dell’aggressore non sia stato adeguatamente sanzionato o che la minaccia non sia stata affrontata in modo sufficiente.  A ciò bisogna obiettare che: «la circostanza della sussistenza di un precedente ammonimento, anche se revocato, rileva sia per la configurabilità dell’aggravante sia per la procedibilità di ufficio del reato, mentre si prescinde dalla considerazione dell’epoca in cui è stato emesso il provvedimento amministrativo e della vigenza dello stesso al momento della commissione degli atti persecutori».

Tale consolidato orientamento giurisprudenziale, pienamente aderente alla ratio preventiva, tuttavia, rischia di essere compromesso dalla sopravvenuta espressa previsione normativa della revocabilità del provvedimento, sinora non univocamente recepita dalla giurisprudenza. Sul punto, vale la pena premettere che in base ai principi generali dell’azione amministrativa, la revoca è un istituto di autotutela decisoria tipicamente irretroattivo, che, quindi, può avere ad oggetto solamente atti in grado di produrre ancora i propri effetti nel momento in cui l’Amministrazione li riesamina.

Tali principi sono stati recepiti nell’art. 21-quinquies, co. 1, della L. n. 241 del 1990, a mente del quale può essere revocato solo il provvedimento amministrativo ad efficacia durevole, purchè in presenza dei presupposti ivi indicati; né in senso contrario depone il comma 1-bis dell’art. 21-quinquies, il quale, fissando i criteri dell’indennizzo nell’ipotesi di incidenza del provvedimento ritirato su rapporti negoziali, fa riferimento anche agli atti “ad efficacia istantanea”.  In realtà, come pacifico tra gli interpreti, la peculiare tipologia di revoca degli atti ad efficacia istantanea di cui al comma 1-bis presenta un ambito applicativo ristretto ai soli provvedimenti attinenti a rapporti negoziali; mentre, quando il legislatore ha inteso derogare alla regola dell’irrevocabilità degli atti ad effetto istantaneo, ha dovuto prevederlo in modo esplicito. È il caso della misura di prevenzione personale dell’avviso orale c.d. semplice del Questore, disciplinato dall’art. 3 del d.lgs. n. 159/2011, il quale consiste nell’invito a tenere una condotta conforme alla legge;[14] e, ora, dell’ammonimento, che, però, lungi dall’essere una semplice caducazione, pare subordinata alla partecipazione effettiva a un percorso trattamentale e alla valutazione degli esiti conseguiti dallo stesso previo il decorso di un triennio.

Sicché, la natura tradizionalmente istantanea e irrevocabile dell’ammonimento sembrerebbe, dunque, virare verso una efficacia potenzialmente permanente, condizionata al decorso dei tre anni e alla verifica dell’adesione e del successo di un percorso riabilitativo.

Tuttavia, revocare un provvedimento sulla base della riabilitazione del soggetto e, contestualmente, assoggettarlo a un regime sanzionatorio in peius in ragione della mera pregressa emissione di un atto ormai privo di effetti giuridici (artt. 3, co. 5-quater e 5-quinquies) potrebbe generare una intrinseca contraddizione logica.

Tale meccanismo, che subordina l’applicazione di un’aggravante e la modificazione del regime di procedibilità a un atto amministrativo revocato, potrebbe costituire terreno fertile per avallare rilevanti questioni di compatibilità con i principi costituzionali, in aperta violazione con il principio di tassatività ed offensività del reato, poiché la ratio sottesa all’orientamento giurisprudenziale richiamato non contemplava la possibilità di una revoca subordinata all’esito positivo di un percorso trattamentale; inoltre, l’esegesi della norma in commento fa riferimento esplicito ai “soggetti già ammoniti”, omettendo di disciplinare specificamente la posizione di coloro il cui provvedimento di ammonimento sia stato revocato all’esito di una valutazione positiva del percorso trattamentale.

Ancora, l’estensione dell’applicazione dell’aggravante e del regime di procedibilità d’ufficio, prevista sia per il reato di cui all’ art. 612-bis c.p. che per quello di cui all’art. 612-ter c.p., anche qualora la persona offesa sia diversa da quella in favore della quale sia stato precedentemente emesso un ammonimento, appare foriera di una dissonanza logica nel tessuto normativo.

Tale previsione, infatti, disarticola la ratio legis sottesa all’articolo 8 del decreto-legge 23 febbraio 2009, n. 11, convertito con modificazioni dalla legge 23 aprile 2009, n. 38.

Quest’ultima disposizione, nell’ancorare l’aggravamento sanzionatorio e la procedibilità ex officio alla preesistenza di un ammonimento a tutela di una specifica vittima, mirava a offrire a quest’ultima la facoltà di optare per una differente strategia di tutela.

Premesso che il silenzio normativo non preclude di per sé la facoltà di procedere all’ammonimento, è parimenti innegabile che la mera esistenza di un pregresso ammonimento, ormai revocato e privo di qualsivoglia effetto giuridico in virtù di un’intervenuta riabilitazione, inficia la ratio legis sottesa alla previsione della procedibilità a querela di parte per talune fattispecie criminose. Invero, la scelta del legislatore di subordinare l’azione penale alla volontà della persona offesa in specifici contesti delittuosi mira a contemperare l’interesse punitivo dello Stato con la valutazione, rimessa alla vittima, dell’opportunità di attivare il meccanismo sanzionatorio, sovente in ragione della specificità delle dinamiche relazionali e della auspicabile – o meno – prosecuzione di un conflitto giudiziario.

Tuttavia, qualora un soggetto, pur avendo in precedenza manifestato condotte tali da giustificare un ammonimento abbia successivamente intrapreso un percorso riabilitativo con esito positivo, sancito dalla revoca del provvedimento, la riemersione di tali pregresse condotte come elemento legittimante una procedibilità d’ufficio, eludendo la necessità della querela, appare dissonante con la finalità rieducativa e di reinserimento sociale che il legislatore implicitamente riconosce attraverso la previsione della revoca per resipiscenza.

In sostanza, considerare un ammonimento revocato come elemento sufficiente a derogare al regime di procedibilità a querela significherebbe attribuire un peso giuridico residuale ad una misura che il legislatore stesso ha ritenuto superata dall’evoluzione positiva del soggetto.

La generalizzazione dell’aggravante e della procedibilità d’ufficio, svincolata dal legame con la vittima originariamente tutelata dall’ammonimento, depotenzia significativamente tale prerogativa, precludendo alla persona offesa la possibilità di valutare autonomamente la via giudiziaria più consona alle proprie esigenze di tutela.

Elevare tale requisito a unico elemento da cui far derivare un trattamento in peius potrebbe risultare pregiudizievole, rischiando di tradursi in un vero e proprio “marchio sine die”, uno “stigma sociale” per il prevenuto, con il potenziale di pregiudicare l’efficacia dello strumento giuridico.

Sulla base della considerazioni svolte e invocando il principio per cui «il legislatore, nell’esercizio della sua discrezionalità, può reprimere sul piano penale, come fattispecie di reato, soltanto condotte che, nella loro descrizione tipica, comunque, rispettosa del principio di legalità, consistano, altresì, in comportamenti dal contenuto offensivo di beni meritevoli di protezione, anche sotto il profilo della loro mera esposizione a pericolo»,  pare appalesarsi la necessità di un intervento legislativo chiarificatore, necessario per garantire la coerenza sistematica dell’ordinamento e il rispetto dei principi fondamentali del diritto penale.

Nel licenziare queste riflessioni, un monito risuona imperante: senza un sollecito intervento legislativo, il rischio di veder dissolversi l’efficacia di questo cruciale strumento si staglia come un’ombra ineludibile sul futuro della sua applicazione.

 

 

 

 

 

 

[1]Quanto alla compatibilità con la Carta fondamentale, va ricordato che, storicamente, secondo la sentenza della Corte Cost. n. 27 del 5 maggio 1959, “le misure di prevenzione sono informate al principio di prevenzione e di sicurezza sociale, per il quale l’ordinato e pacifico svolgimento dei rapporti fra i cittadini deve essere garantito, oltre che dal sistema di norme repressive dei fatti illeciti, anche da un parallelo sistema di adeguate misure preventive contro il pericolo del loro verificarsi nell’avvenire.”; BRICOLA, Forme di tutela «ante delictum» e profili costituzionali della prevenzione, in Le misure di prevenzione.
[2] In questo senso, cfr. Cons. Stato, sez. III, n.6958/2021; Cons. Stato, sez. III, n.2599/2015; Cons. Stato, sez. III, nn. 758/2019 e 1085/2019 e
[3] Cons. St., sez. III, n. 758/2019: “E’ pur vero che all’ammonimento orale deve applicarsi quella logica dimostrativa a base indiziaria e di tipo probabilistico che informa l’intero diritto amministrativo della prevenzione”.
[4] Con l’ambizione di far avvertire l’antigiuridicità di una condotta che ancora non ha raggiunto una carica offensiva ritenuta meritevole di attivare la tutela penale, l’ammonito viene invitato ad aderire a modelli convenzionalmente dati.
[5] La lotta alla violenza contro le donne costituisce, peraltro, da diversi anni un obiettivo di rilevanza internazionale; risale infatti al 1993 la Dichiarazione sull’eliminazione della violenza contro le donne, approvata dall’Assemblea Generale dell’ONU, mentre nel 2011 è stata sottoscritta a Istanbul la Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, alla quale lo Stato Italiano ha aderito il 27 settembre 2013, ratificandola con legge del 27 giugno 2013, n. 77.
[6] F. Bartolini, Lo stalking e gli atti persecutori nel diritto penale e civile, Piacenza, La Tribuna, 2009, p. 163.
[7] Art. 7 L. 241/1990: “Ove non sussistano ragioni di impedimento derivanti da particolari esigenze di celerità del procedimento, l’avvio del procedimento stesso è comunicato, con le modalità previste dall’articolo 8, ai soggetti nei confronti dei quali il provvedimento finale è destinato a produrre effetti diretti ed a quelli che per legge debbono intervenirvi”.
[8] C. eur. dir. uomo, Sez. I, Giuliano Germano c. Italia, n. 10794/12, 22 giugno 2023
[9] Cons. Stato, sez. III, sent. n. 4241/2016;
[10] È attribuita la qualifica di ufficiale di Pubblica sicurezza agli appartenenti ai ruoli dei commissari e dei dirigenti della Polizia di Stato (art. 39, comma 3, della legge 121/1981) che, ai sensi dell’art. 12 del R.D. 690/1907, sono considerati permanentemente in funzione (servizio); agli ufficiali dell’Arma dei Carabinieri (R.D. 14 giugno 1934 n.1169 Art. 51); ai sindaci dei comuni in cui non vi sono ufficiali di pubblica sicurezza (art. 6 del R.D. 690/1907).
[11] Cfr. ad esempio A. Elif Dini, Ammonimento del questore e violenza di genere: un anello debole nella catena protettiva?, in Sistema Penale, n.20/2022, p. 80: «si parla, dunque, di una misura di prevenzione che interviene prima del momento in cui la serie di condotte realizzate dall’agente ne acquisti i connotati di un reato, potendo poggiare su fatti che non hanno ancora raggiunto i crismi della tipicità»;
[12] [12] cfr. G. Montanara, Voce atti persecutori, in Enc. dir., 2013, p. 73.
[13] Si tratta di un Protocollo di collaborazione tra la Questura di Milano e il Centro Italiano per la Promozione e la Mediazione (C.I.P.M), sottoscritto il 5 Aprile 2018, per cui il Questore ha introdotto nei decreti di ammonimento la cosiddetta ingiunzione trattamentale che consiste in un invito fatto, in sede di notifica, a rivolgersi al centro per intraprendere un trattamento volto al miglioramento della gestione delle emozioni. L’esperienza del protocollo Zeus ha indotto altre Questure alla firma di protocolli con centri specializzati per la presa in carico della persona ammonita.
[14] In questo senso anche TAR Liguria -Genova, sent. n. 826/2022

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Carmela Improta

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