Causa in concreto e contratto giusto: il ruolo del giudice
Sommario: 1. Introduzione: la causa come elemento di struttura del contratto – 2. La causa in astratto – 2.1. Rapporti tra causa in astratto e presupposizione – 3. L’avvento della teoria della causa in concreto – 3.1. La causa in concreto e l’inutilità sopravvenuta del contratto: la causa turistica – 3.2. La causa in concreto e la gratuità economicamente interessata – 3.3. La causa in concreto e il giudizio di meritevolezza ex art. 1322, co. 2 c.c. – 4. La causa in concreto e il sindacato giurisdizionale sull’equilibrio originario del contratto – 5. Osservazioni conclusive
1. Introduzione: la causa come elemento di struttura del contratto
La validità di un contratto si esprime se, e nella misura in cui, lo stesso possa ritenersi sorretto da una causa[1].
Nell’elencazione degli elementi essenziali del contratto, infatti, il legislatore si premura di precisare, all’art. 1325 c.c., che non è sufficiente che esso si fondi sull’esistenza di un accordo volto a costituire, estinguere o modificare un rapporto giuridico a contenuto patrimoniale, che rispetti la forma, eventualmente imposta dalla legge o dalla volontà delle parti o che, ancora, deduca nel rapporto un oggetto, ancorché esso risulti possibile, lecito e determinato/determinabile.
2. La causa in astratto
Ai fini del giudizio di validità di un contratto, tuttavia, non è sufficiente il positivo riscontro della formale sussistenza di tutti gli elementi di struttura: occorre, in particolare, che lo stesso sia sorretto da una giustificazione causale ossia, secondo una tradizionale impostazione, il positivo riscontro circa la conformità del tipo contrattuale che le parti abbiano posto in essere rispetto al tipo astratto previsto dalla legge e al quale hanno inteso confarsi.
Fermo restando che, in caso di regolamentazione atipica di interessi, ove questa dovesse risultare, nonostante l’atipicità, socialmente meritevole di tutela degli interessi perseguiti (ex art. 1322, co. 2 c.c.), il contratto dovrebbe ritenersi comunque valido.
Quanto fin qui dedotto avvalora quella che è la concezione di causa in astratto del contratto intesa, dunque, quale idoneità del regolamento contrattuale ad esprimere aderenza rispetto al tipo contrattuale selezionato dalle parti tra i vari tipi previsti dal legislatore.
Nell’ottica del Codice del 1942, gli interessi individuali e concreti perseguiti dalle parti non possedevano rilevanza rispetto alla causa, se non limitatamente ai casi nei quali avessero consentito di eludere un divieto di legge ai sensi dell’art. 1344 c.c., o di perseguire un fine illecito, ex art. 1343 c.c. o di condurre alla stipula di un contratto con motivo illecito comune ad entrambe le parti, art. 1345 c.c..
Ne discende che, in tutte le altre ipotesi nelle quali le parti avessero stipulato un contratto che, ancorché non avente causa illecita ai sensi delle succitate norme, avesse una causa non conforme al tipo contrattuale astratto e non fosse nemmeno in grado di tutelare interessi socialmente apprezzabili ai sensi dell’art. 1322 c.c., sarebbe andato incontro alla censura di nullità per difetto di causa in astratto.
Esemplificativa di questa concezione è stata, per esempio, la disciplina approntata dalla giurisprudenza ai contratti di vendita c.d. nummo uno o a prezzo simbolico.
Infatti, dal momento che la validità del contratto di vendita sotto il profilo causale veniva vagliata guardando alla sussistenza di un corrispettivo della cessione, veniva ritenuto nullo, per difetto di causa, il contratto di vendita a prezzo simbolico.
Diversamente, il contratto di vendita a prezzo vile che, ancorché prevedesse un corrispettivo assai sproporzionato rispetto ai valori di mercato e al valore stesso del bene compravenduto, prevedesse comunque una contropartita, veniva invece ritenuto valido.
Tale ultimo contratto, dunque, pur rasentando uno squilibrio economico, non veniva sottoposto al vaglio del giudice sotto il profilo dell’equilibrio economico originario in virtù della cogenza dell’accordo voluto dalle stesse parti; pertanto, in ragione della mera sussistenza di un corrispettivo della cessione, tale contratto veniva ritenuto causalmente giustificato in quanto conforme al tipo.
Si argomentava, sul punto, che, diversamente, la vendita a prezzo simbolico non consentiva di cogliere all’esterno una causa di scambio e, per ciò solo, non poteva che essere nulla per difetto di causa di scambio o nulla per difetto di forma, ove nel suo substrato venisse rinvenuto un animus donandi.
Tali considerazioni consentono anche di evidenziare che, nelle more della vigenza della teoria della causa in astratto, la gratuità veniva concepita con una certa diffidenza: infatti, in un contesto nel quale la logica della causa veniva osservata prescindendo dagli interessi concretamente perseguiti dalle parti, la giustificazione causale veniva desunta da un dato oggettivo, immediatamente percepibile dal contratto: il corrispettivo. Sicché, in assenza di corrispettivo, la conclusione immediata era il riscontro di un difetto di causa.
In tal senso, veniva meno qualsivoglia possibilità di ammettere ipotesi di gratuità economicamente interessata, ossia di una gratuità intesa in termini non puramente economici ma che sottendesse, comunque, una contropartita in favore dell’altra parte, anche non economica.
Non era, dunque, ammessa una situazione nella quale non vi fosse né causa donandi né una causa di cambio tradizionalmente intesa ma meramente un accordo volto a realizzare un interesse economicamente rilevante senza la controprestazione di un prezzo: l’idea che potesse ottenersi un vantaggio a prescindere da un formale corrispettivo, del resto, avrebbe presupposto un’indagine concreta sul contenuto del contratto e degli interessi concretamente perseguiti dalle parti, non ammessa nel dogma della causa in astratto.
2.1. La causa in astratto e la presupposizione
Un ulteriore precipitato applicativo dell’adesione alla teoria della causa in astratto si rinveniva, poi, rispetto alla disciplina del contratto concretamente inutile ossia di quel contratto che, nonostante la rispondenza al “tipo”, risultasse incapace di soddisfare i reali interessi che le parti intendevano perseguire.
Ebbene, nelle more della vigenza della teoria della causa in astratto, dal momento che la causa poteva dirsi soddisfatta ove vi fosse aderenza del tipo contrattuale adottato al tipo astratto previsto, gli interessi individuali delle parti, concretamente perseguiti con il negozio, erano considerati motivi irrilevanti. Di tal ché, in linea di principio, la concreta irrealizzabilità degli interessi avrebbe dovuto essere irrilevante.
Tuttavia, si cominciò ad osservare che, nei casi in cui l’interesse perseguito dalle parti non fosse rimasto nel loro foro interno (alla stregua di un comune motivo) ma si fosse concretamente oggettivizzato nel contratto, risultando già dal regolamento contrattuale, la concreta irrealizzabilità degli interessi non avrebbe potuto essere, tout court, irrilevante. In tali evenienze, la giurisprudenza comincio a ricorrere all’istituto della presupposizione.
La teoria di matrice tedesca sulla quale esso si fonda aveva lo scopo di dar rilevanza a tutte quelle sopravvenienze (intese quali eventi futuri ed incerti) che accedono a contratti che, pur avendo una data causa astratta, si basano su un presupposto esterno al contratto ma oggettivizzato nel regolamento e la cui materiale irrealizzabilità – non dipendente dalla volontà delle parti – condiziona la validità del contratto e, dunque, la sua efficacia, legittimando l’esercizio del potere di recesso.
3. L’avvento della teoria della causa in concreto
Sebbene, dunque, la teoria della presupposizione avesse ovviato ai deficit che recava con sé la concezione della causa in astratto con riguardo a tali tipologie di sopravvenienze, imperversava, tuttavia, la convinzione per la quale quest’impostazione – riflesso, in fondo, dell’originaria ideologia nell’ambito della quale venne redatto il Codice civile -, non fosse più troppo compatibile con i principi discendenti dalla Costituzione che ha imposto, sin dal suo avvenuto, una rilettura, in ottica costituzionalmente orientata, degli istituti civilistici.
Ed infatti, la stessa libertà negoziale, quale diritto fondamentale ed espressivo della più generale libertà di iniziativa economica ex art. 41 Cost., non può essere concepita come mezzo per la soddisfazione esclusiva degli interessi della società (rectius, utilità sociale delle operazioni negoziali) ma va intesa come strumento di sviluppo della personalità del singolo nelle formazioni sociali ove si svolga la sua personalità e che deve essere garantito fintanto che non arrechi danno alla collettività.
In questo senso, dunque, l’interpretazione costituzionalmente conforme della libertà negoziale impone l’abbandono della retorica della funzione socio-economica del contratto, in base alla quale lo stesso veniva asservito ai bisogni della collettività e, per ciò, doveva recare un’utilità sociale, per incontrare la nozione della funzione economico-individuale del contratto, intesa come strumento di soddisfacimento degli interessi del singolo, anche non socialmente utili, purché non dannosi per la società.
Da tali premesse è disceso il superamento della nozione di causa in astratto, che albergava proprio nella retorica della funzione socio-economica del contratto e necessitava la conformità dei negozi al tipo previsto dal legislatore allo scopo di recare un’utilità sociale.
La causa in astratto ha, dunque, dovuto cedere il passo alla nozione di causa in concreto in base alla quale la causa non rappresenta più la funzione socio-economica del contratto ma costituisce, al più, la funzione economico-individuale dello stesso. Tramite la teoria della causa in concreto, la causa non si appiattisce più sul tipo perché identifica la causa stessa con gli interessi oggettivamente perseguiti tramite il contratto dalle parti.
Nell’ottica della causa in concreto, infatti, anche quell’interesse che, nella teoria della presupposizione, si oggettivizzava nel regolamento contrattuale e che, ove irrealizzabile, condizionava l’efficacia del contratto, cessa di essere un presupposto esterno al contratto e diviene parte della causa che, ove irrealizzabile, rende nullo il contratto per difetto di causa in concreto.
3.1. La causa in concreto e l’inutilità sopravvenuta del contratto: la causa turistica
Tali principi hanno, di fatto, trovato conferma nella giurisprudenza della Cassazione sulla inutilità sopravvenuta del contratto (o irrealizzabilità sopravvenuta della causa o, ancora, inutilità sopravvenuta della prestazione).
La giurisprudenza, infatti, ha affermato che vi sono dei casi nei quali la sopravvenienza incide non
sulla materiale possibilità della prestazione, ma sulla utilità della stessa: laddove, infatti, la prestazione sia concretamente eseguibile, ma si rilevi inutile, perché l’interesse perseguito – ed oggettivizzatosi nel regolamento contrattuale – non può più essere soddisfatto, l’interesse diviene un presupposto causale del contratto e non (diversamente da ciò che accade nella teoria della presupposizione) presupposto esterno allo stesso.
Pertanto, la prestazione è, in questo senso, funzionale alla soddisfazione non solo dell’interesse del creditore ma, più ampiamente, è funzionale a soddisfare la causa del contratto.
Le superiori considerazioni sono state svolte dalla giurisprudenza in materia di pacchetti turistici e viaggi organizzati, nelle ipotesi nelle quali delle sopravvenienze rendano irrealizzabile, sotto il profilo individuale, la causa concreta del contratto avente ad oggetto il pacchetto turistico e che si connotti dalla c.d. “causa turistica”, ovvero la funzione di svago e di benessere che la parte intende perseguire pagando il prezzo del pacchetto.
In particolare, la giurisprudenza[2] ha in sostanza affermato che, aderendo alla causa in concreto, lungi dal darsi rilevanza, sic et simpliciter, ai motivi individuali, è possibile consegnare una dimensione sostanziale a quella sopravvenienza che, per la sua gravità, renda irrealizzabile ogni forma di svago o benessere: in tale ipotesi, infatti, anche prescindendo dal motivo individuale, ciò che viene ineluttabilmente pregiudicata è proprio la causa del contratto, che diviene concretamente irrealizzabile e che dà la stura alla risoluzione per impossibilità sopravvenuta di utilizzazione della prestazione.
In tal caso, infatti, ancorché la prestazione risulti ancora materialmente eseguibile, non è più in grado di soddisfare l’interesse che il creditore aveva e, in vista della quale, aveva assunto la sua controprestazione.
3.2. La causa in concreto e la gratuità economicamente interessata
L’adesione alla teoria della causa in concreto, oltre ad aver tendenzialmente eroso l’utilità della teoria della presupposizione, ha comportato anche una rivisitazione del tema inerente alla gratuità economicamente interessata.
Le cause che giustificano lo spostamento di ricchezza, che devono in ogni caso emergere chiaramente e senza opacità dal contratto, sono ravvisate nella tradizionale causa di liberalità e nella causa onerosa, alla quale ultima categoria oggi afferiscono tanto la causa di scambio (nella quale prestazione e controprestazione si giustificano vicendevolmente) quanto quella causa che, benché non contempli una contropartita economica, abbia comunque caratura onerosa in quanto comportante un vantaggio per una parte a fronte del sacrificio giuridico in capo all’altra.
Orbene, il passaggio dalla causa in astratto alla causa in concreto ha comportato un mutamento di quell’orientamento della giurisprudenziale che riteneva nullo il contratto di compravendita a prezzo simbolico e valido, invece, quello a “prezzo vile”, proprio sulla scorta della ritenuta ammissibilità, sotto il profilo della giustificazione causale, dello spostamento di ricchezza sorretto dalla gratuità economicamente interessata.
La compravendita a prezzo simbolico, se da un lato non risulta sorretta dalla tradizionale causa di scambio, intesa come sacrifici economici reciproci, se vagliata alla luce della causa in concreto, potrebbe disvelare, nel suo regolamento contrattuale, l’attribuzione alla controparte di un vantaggio indiretto, idonea a sorreggere il negozio da una causa (gratuità economicamente interessata) e a renderlo, in definitiva, pienamente valido.
Con riferimento, invece, alla vendita a prezzo vile, la concezione in concreto della causa non comporta una validità indiscriminata del negozio ma richiede, intanto, una preliminare verifica sull’eventuale intento di liberalità indirettamente perseguito dalla parte sacrificata (operando, in tal caso, le regole in materia di donazione indiretta di cui all’art. 809 c.c.).
Tuttavia, ove l’intento di liberalità dovesse ritenersi escluso, il regolamento contrattuale avente ad oggetto una controprestazione – il prezzo – non simbolico, ma talmente sproporzionato rispetto al valore del bene da non potersi definire nemmeno corrispettivo, sarebbe un regolamento del tutto opaco rispetto alla sua causa. E, non essendo la causa evincibile dal contratto, lo stesso sarebbe conseguentemente nullo.
È peraltro stato osservato che, in tale evenienza, a nulla varrebbe obiettare che si rischierebbe di utilizzare il “grimaldello” della causa per giudicare la convenienza economica del contratto e di accedere, dunque, ad un sindacato economico sul contratto: il giudizio causale, infatti, rimane distinto dal giudizio di convenienza e, solo ove lo stesso abbia dato l’esito circa la positiva sussistenza di una causa in concreto potrebbe, se del caso, accedersi ad una valutazione in merito all’equilibrio del contratto.
3.3. La causa in concreto e il giudizio di meritevolezza ex art. 1322, co. 2 c.c.
Altra conseguenza che ha comportato l’affermarsi della nuova concezione di causa in concreto afferisce al giudizio di meritevolezza di cui all’art. 1322, co. 2 c.c.
Ed infatti, secondo un orientamento, il giudizio di causalità sarebbe integralmente sostitutivo del giudizio sulla meritevolezza, il quale ultimo, peraltro, facendo riferimento ad un requisito di utilità sociale del contratto, incompatibile ormai con l’assetto che la Costituzione consegna al rapporto tra libertà negoziale e utilità sociale, sarebbe ormai ridondante.
Secondo un’altra tesi, invece, il requisito della meritevolezza conserva impregiudicata la sua utilità (distinta peraltro da quello della liceità), benché necessiti un’interpretazione costituzionalmente conforme e, specificamente, un ancoraggio al dovere di solidarietà sociale di cui all’art. 2 Cost. e, quindi, ai principi di correttezza e buona fede in senso oggettivo. Ne consegue che il contratto sarebbe nullo, sotto il profilo della meritevolezza, laddove il risultato che lo stesso intende perseguire risulti in contrasto con i principi di solidarietà che il nostro ordinamento pone a fondamento dei rapporti tra privati.
Tale ultima tesi ha, invero, trovato un avallo in alcuni importanti arresti giurisprudenziali, tra i quali quello della giurisprudenza di legittimità sviluppatasi in materia di clausole claims made.
La clausola c.d claims made (a richiesta fatta) è una clausola che, sovente inserita nel contratto di assicurazione della responsabilità civile, produce l’effetto di derogare all’art. 1917.1 c.c.
In base a tale ultima norma, generalmente, la prestazione dell’assicurazione della responsabilità civile consiste nel tenere indenne l’assicurato dal risarcimento del danno derivante dall’illecito commesso durante il periodo di vigenza della polizza e ciò indipendentemente dal momento in cui l’assicurato riceve la richiesta risarcitoria.
Con l’inserimento della clausola claims made, invece, l’operatività della copertura assicurativa è subordinata al momento in cui la richiesta risarcitoria viene riferita all’assicurato, limitando la copertura ai soli sinistri “reclamati” durante la vigenza del contratto.
Esaminando la validità di tali clausole, anteriormente all’intervento tipizzante del legislatore del 2017, la Cassazione[3] le considerava clausole atipiche e, in quanto tali, le sottoponeva allo scrutinio di meritevolezza, ai sensi dell’art. 1322, co. 2 c.c.
In tale occasione la giurisprudenza ebbe modo di affermare la netta distinzione che sussiste tra giudizio di liceità causale e giudizio di meritevolezza, in concordia al brocardo latino “non quod omne licet honestum est” ed in ragione della diversità ontologica dei due giudizi.
Mentre il giudizio di liceità causale è un giudizio sull’elemento di struttura (la causa) del contratto, il giudizio di meritevolezza è un giudizio sul risultato perseguito dal contratto, non sul contratto in sé.
E tale giudizio di meritevolezza dà esito negativo tutte le volte che le clausole inserite nel contratto, formalmente rispettoso della legge, abbiano per scopo o per effetto quello di attribuire ad una delle parti un vantaggio ingiusto e sproporzionato senza contropartita per l’atra parte, oppure di porre una delle parti in una posizione di indeterminata soggezione rispetto all’altra oppure, infine, di costringere una delle parti a tenere comportamenti contrastanti con i superiori doveri di solidarietà costituzionalmente imposti.
Su tutti e tre i profili, le clausole claims made vennero, inizialmente, ritenute immeritevoli e sanzionate con la nullità.
Successivamente alla loro tipizzazione, avvenuta con la l. 24/2017, tuttavia, la giurisprudenza a Sezioni Unite[4], chiamata nuovamente a pronunciarsi sulla loro meritevolezza, ha ritenuto di dover sottrarre le clausole claims made al giudizio meritorio di cui all’art. 1322 c.c.
Ciò nonostante, ha osservato che l’esclusione dal giudizio ex art. 1322, co. 2 c.c. non esclude la necessità di verificare se, nel caso concreto, il contenuto del contratto abbia comunque rispettato “i limiti imposti dalla legge” di cui all’art. 1322.1 c.c.
Secondo la Suprema Corte, infatti, tale controllo va effettuato sia sul piano della fase precontrattuale, sia sul piano del contenuto negoziale, verificando se la causa del contratto in concreto esista, se sia lecita e, inoltre, se sia adeguata allo scopo, dove l’adeguatezza viene riscontrata solo ove non vi sia uno squilibrio arbitrario tra il rischio assicurato e il premio.
4. La causa in concreto e il sindacato giurisdizionale sull’equilibrio originario del contratto
L’ulteriore precipitato logico, ancor prima che giuridico, dell’adesione alla teoria della causa in concreto, va invero ravvisato nella rivisitazione del tradizionale dogma dell’insindacabilità dell’equilibrio e nella rivalutazione della giustizia contrattuale.
Ed infatti, nell’ottica della causa in astratto, l’insindacabilità dell’equilibrio costituiva un dogma assoluto, come dimostrato in materia di compravendite a prezzo vile, ritenute sempre valide in quanto insindacabili nel loro equilibrio economico originario.
In tale prospettiva, dunque, le uniche ipotesi nelle quali si apriva alla possibilità di sindacare l’equilibrio economico originario del contratto erano quelle tipizzate dal legislatore e prevalentemente afferenti ai casi che legittimano il ricorso alla rescissione, ex artt. 1447 e 1448 c.c., nonché quella relativa alla clausola penale e al relativo potere giurisdizionale di riduzione ad equità della clausola eccessivamente sproporzionata ex art. 1384 c.c.[5]
Diversamente, oggi, la necessità di indagare la causa in concreto apre alla possibilità di ritenere nulle le compravendite a prezzo vile ove, in concreto, non riesca a rintracciarsi né una causa di liberalità, né una causa onerosa in generale, sindacandosi, così, sul merito del contratto.
Testimonia il temperamento dell’insindacabilità dell’equilibrio originario, oltre l’orientamento giurisprudenziale che, in merito alla validità delle clausole claims made, richiede il superamento di un vaglio di adeguatezza causale, anche un altro in materia di contratti derivati, ove la giurisprudenza ha affermato la nullità dei contratti aleatori connotati da alea irrazionale, ovvero contratti aleatori che, non contenendo nel regolamento gli elementi necessari a calcolare previamente il rischio (il quale diventa, così, del tutto incontrollabile, incalcolabile e, dunque, irrazionale) abbiano una causa talmente opaca da non lascia emergere chiaramente la razionalità economica del contratto e risultino, dunque, nulli per difetto di causa.
Altro filone interpretativo che ha messo in discussione il principio dell’insindacabilità dell’equilibrio è quello sviluppatosi in materia di responsabilità precontrattuale e, più precisamente, in materia di responsabilità precontrattuale da contratto valido ma svantaggioso, esito del comportamento scorretto di una delle parti.
In tale ipotesi, la parte conclude un contratto formalmente valido ma che risulta economicamente svantaggioso per sé, all’esito di un comportamento scorretto dell’altra parte.
Tale scorrettezza può consistere anche nella reticenza informativa, con la conseguenza che l’omessa informazione rilevante, che la parte aveva l’obbligo di fornire in virtù del dovere di correttezza, ha consentito all’altra parte di concludere un contratto sfavorevole per sé e molto favorevole per la parte scorretta. In tal caso, non risulta configurabile un vizio del consenso e la parte, vittima della scorrettezza, ha validamente accettato un contenuto contrattuale che, altrimenti, non avrebbe accettato.
Per diverso tempo, tale forma di responsabilità precontrattuale è stata ritenuta inammissibile, potendosi configurare solo le due forme di responsabilità precontrattuale e, specificamente, quella da contratto invalido e quella da recesso ingiustificato dalle trattative (che danno la stura al risarcimento dell’interesse negativo).
La ragione di tale mancata legittimazione risiedeva, invero, nella considerazione per cui un contratto valido ma non utile non può occasionare un risarcimento ancorato a tutte quelle utilità perdute a causa della stipula del contratto ma, diversamente, va riferito a tutte quelle utilità che la vittima della scorrettezza avrebbe potuto trarre dal suo contratto valido ove questo fosse stato anche utile (risarcimento del c.d. interesse positivo virtuale).
E tuttavia, riconoscere il risarcimento di tale ultimo interesse avrebbe significato sindacare l’equilibrio contrattuale: ed infatti, laddove il danno risarcibile venga ravvisato nella differenza tra l’utilità che il contratto virtuale avrebbe dato e l’utilità derivante dal contratto reale, deve concludersi che, attraverso il risarcimento del danno da responsabilità per contratto svantaggioso, si giungerebbe alla conclusione di ripristinare l’equilibrio economico finendo, così, per violare il principio del pacta sunt servanda.
Oggi, invece, sdoganata tale insindacabilità, si ritiene configurabile questa forma di responsabilità precontrattuale con la precisazione che, tuttavia, si rende, quanto mai, necessario circoscrivere le scorrettezze idonee a rendere contestabile il contratto sotto il profilo della responsabilità precontrattuale – come quelle di cui all’art. 1440 c.c., realizzate con dolo incidente – onde evitare che il principio dell’insindacabilità dell’equilibrio venga completamente eliso e sovvertito.
Nella disciplina di settore, il tema della giustizia contrattuale è trattato diversamente a seconda che acceda al contratto consumeristico ovvero al contratto del terzo settore.
Ed infatti, nella disciplina consumeristica, l’asimmetria informativa che caratterizza il rapporto tra professionista e consumatore giustifica la possibilità di sindacare lo squilibrio normativo tramite, ad esempio, il regime delle clausole vessatorie e quello della nullità di protezione ex art. 1419 c.c. Diversamente, il sindacato sull’equilibrio economico non è consentito, se non nei casi di assoluta opacità del prezzo.
Il sindacato sull’equilibrio economico, invece, è pienamente consentito nel c.d. terzo contratto, ovvero quello tra due imprese, in cui l’una è in posizione di dipendenza economica rispetto all’altra.
Nei contratti di questo tipo, invero, non vi è un problema di asimmetria informativa tra le imprese, bensì un problema di soggezione economica, dovuta alla posizione di dipendenza economica di un’impresa rispetto all’altra che potrebbe implicare la possibilità di ricatto dell’impresa dominante nei confronti dell’impresa economicamente dipendente.
L’impresa dominante, infatti, abusando della dipendenza economica dell’altra impresa, potrebbe imporle condizioni economiche inique: a fronte di tali ipotesi è prevista la possibilità di un sindacato sull’equilibrio economico, diverso a seconda del tipo di pressione esercitata.
Ove l’impresa dominante, abusando dell’impossibilità dell’impresa, economicamente dipendente, di subire una brusca interruzione del rapporto, imponga condizioni contrattuali inique e l’impresa economicamente dipendente ceda al ricatto, accettando le condizioni proposte, l’ordinamento prevede espressamente il sindacato sull’iniquità del contratto e sanziona con la nullità il corrispettivo incongruo ed il contratto gravemente iniquo ai danni dell’impresa economicamente dipendente.
Laddove, invece, l’impresa economicamente dipendente non ceda al ricatto e subisca il recesso, l’ordinamento consente il sindacato sul recesso, cioè la possibilità di rendere inefficace il recesso e di imporre la prosecuzione del rapporto contrattuale.
5. Osservazioni conclusive
Da tutte le considerazioni svolte emerge chiaramente come il propagarsi della concezione della causa in concreto del contratto abbia avuto un impatto assai considerevole sul tema della giustizia contrattuale.
L’eccessivo squilibrio contrattuale diviene, in tale prospettiva, ed a seconda dei casi esaminati, indice di assenza di causa, di inadeguatezza del regolamento contrattuale o di immeritevolezza, sanzionati con la nullità del contratto.
Va da sé che, tuttavia, il sindacato sull’equilibrio economico originario (fuori dai casi di cui agli artt. 1447, 1448 e 1384 c.c.) rimane eccezionale a fronte, invece, della generalità che connota il sindacato sull’equilibrio sopravvenuto del contratto, pacificamente ammissibile e contemplato espressamente dal codice civile sotto la scorta dell’art. 1256 c.c., che prevede la risoluzione per impossibilità sopravvenuta non imputabile, e dell’art. 1467 c.c., che disciplina, invece, la risoluzione del contratto per eccessiva onerosità sopravvenuta.
[1] A. Torrente – P. Schlesinger, Manuale di diritto privato, XX edizione, Giuffrè, p. 625
[2]Da ultimo, Cass. Civ., Sez. III, 06 dicembre 2024, n. 32463, pubbl. 10/01/2025, che ha anche avuto modo di precisare che: “In caso di contratto di viaggio vacanza “tutto compreso”, la finalità turistica di trascorrere una vacanza da condividere in compagnia di una o più persone può caratterizzare la causa concreta non solo di un contratto unitario, concluso per una pluralità di partecipanti, ma anche di due o più contratti stipulati anche separatamente e funzionalmente collegati, anche ove si tratti di “piccola comitiva” o di gruppo minimo di persone, con la conseguenza che la non imputabile sopravvenuta impossibilità di utilizzazione della prestazione per uno dei componenti integra causa di estinzione anche dell’obbligazione degli altri, idonea a legittimare il recesso dal contratto che ne è fonte.”.
[3]Cass. Civ., Sez. Un, 26 gennaio 2016, n. 9140, pubbl. il 06 maggio 2016.
[4]Cass. Civ., Sez. Un., 05 giugno 2018, n. 22437, pubbl. il 24 settembre 2018.
[5] Si badi, sul punto, che il Cons. Stato, Sez. IV, con sent. n. 6309 del 20 luglio 2022, ha stabilito che il potere di riduzione ad equità della penale spoporzionata è un rimedio espressivo di un generale principio di giustizia contrattuale che, in quanto tale, è applicabile anche in relazione agli accordi integrativi o sostitutivi di provvedimento, di cui all’art. 11 l. n. 241 del 1990, quando la funzione causale che la penale svolge nell’ambito dell’accordo, al di là del nomen juris prescelto dalle parti, è quella di tecnica di liquidazione forfettaria ed anticipata del danno, correlata, esclusivamente o principalmente, ad aspetti ed interessi economici, in quanto “ha lo scopo di riequilibrare alla luce della buona fede in funzione di integrazione cogente del regolamento contrattuale (cfr. art 1374 c.c.) […] in tal senso, la norma enunciata dall’art. 1384 c.c. fissa un potere che è corollario e manifestazione di principi in materia di diritto delle obbligazioni e dei contratti, dunque applicabili anche agli accordi ex art. 11 l. 241/1990.”.
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Adua Lega
Giurista abilitata all'esercizio della professione di Avvocato con solida formazione in ambito civile, penale e amministrativo, attualmente impiegata come Funzionario Amministrativo Direttivo presso un ente locale.
Dopo la laurea in Giurisprudenza, ho svolto una pratica forense completa, approfondendo prima il diritto civile e successivamente il penale, esperienze che mi hanno fornito un approccio concreto e multidisciplinare alla materia giuridica. Ho avuto, inoltre, l’onore di svolgere il tirocinio 73 D.lgs. 69/2013 stage presso la Corte d’Appello del distretto in cui risiedo, che mi ha permesso di osservare da vicino l’attività giudiziaria e di affinare le mie capacità analitiche e redazionali.
Ho poi ricoperto il ruolo di Funzionario Giudiziario Addetto all'Ufficio per il Processo (AUPP) nella medesima Corte d'Appello per la durata di due anni.
Nel mio attuale incarico presso la Pubblica Amministrazione, che mi consente di affrontare quotidianamente tematiche giuridiche complesse, applicando rigore normativo, senso pratico e capacità decisionale, mi occupo di attività che richiedono una profonda conoscenza normativa, attenzione ai dettagli e un costante dialogo con diversi attori istituzionali e privati.
Spero, con la mia collaborazione alla Rivista, di fornire ai professionisti ed ai neofiti del settore un contributo utile e gradito.
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