Donne e carcere: diritti, famiglia e rieducazione
Uno sguardo generale alle problematiche e alle soluzioni prospettate- con attenzione particolare alla genitorialità in regime detentivo
Sommario: 1. Dati e regole sovranazionali – 2. Il regolamento-tipo – 3. Genitorialità e detenzione – 4. I rapporti familiari in carcere – 5. L’attività trattamentale rivolta alle donne e conclusioni
1. Dati e regole sovranazionali
In Italia, le donne detenute costituiscono una piccola percentuale rispetto alla totalità della popolazione carceraria: infatti, la componente femminile rappresenta poco meno del 5% di coloro che vivono nei nostri istituti detentivi. In generale, le pene inflitte alle donne sono meno severe e la loro permanenza in carcere è più breve rispetto a ciò che avviene per gli uomini: infatti, solo il 18% degli arresti e denunce vedono protagoniste le donne, colpevoli, soprattutto, di reati contro il patrimonio. Attualmente, le ergastolane in Italia sono, in totale, trenta, mentre settantadue sono le donne che stanno scontando una pena superiore ai 20 anni di reclusione.
Per assicurare il rispetto dell’art. 14 della legge sull’ordinamento penitenziario, che, al comma 6, statuisce che “le donne sono ospitate in istituti separati da quelli maschili o in apposite sezioni in numero tale da non compromettere le attività trattamentali”, le detenute sono dislocate all’interno delle 52 sezioni istituite all’interno di carceri maschili, oltre che nei pochissimi istituti penitenziari interamente femminili presenti sul territorio italiano.
Le Regole Minime per il trattamento dei detenuti delle Nazioni Unite (di quasi 70 anni fa e, oggi, oggetto di un processo di revisione), affermano, alla regola 8, che “uomini e donne, per quanto possibile, devono essere ristretti in istituti separati, o in sezioni completamente separate dello stesso istituto”, ma senza fornire soluzioni rispetto al problema delle eventuali discriminazioni che possono ledere le detenute, impedendo loro di beneficiare di tutte le disposizioni che permettono alla pena di tendere alla rieducazione, come imposto all’art. 27, comma 3, della nostra Costituzione.
Infatti, proprio perché le donne costituiscono una minoranza della popolazione carceraria, i loro bisogni specifici sono spesso disattesi, in quanto vivono prevalentemente in una realtà che è stata pensata per gli uomini (dagli uomini). Infatti, il modello su cui sono costruiti gli istituti detentivi mal si presta alle necessità emotive, familiari, sociali e sanitarie delle donne: esse appaino rappresentare un “non problema” nella logica della complessa gestione di tutta la restante popolazione detenuta, al punto che le loro problematiche sono avvertite come residuali. In molti Paesi le detenute sono destinate a sezioni separate dagli uomini per evitare casi di promiscuità sessuale, finendo, così, con l’essere particolarmente isolate dal mondo esterno: in Italia, al contrario, la ratio della separazione è più incentrata sul trattamento, ma, nei fatti, rischia di portare alle stesse conseguenze di isolamento e a una minor offerta rieducativa.
2. Il regolamento-tipo
Vi è una grande lacuna legislativa che riguarda l’esecuzione penale femminile; nel 2008, si è cercato di colmarla attraverso una circolare della Direzione Generale dei Detenuti e del Trattamento, con la quale è stato divulgato uno schema di regolamento interno per le sezioni femminili che ospitano detenute comuni. Si tratta di un regolamento-tipo che cerca di cogliere tutte le differenze di genere che potrebbero realizzare una serie di discriminazioni tra uomini e donne. Nel regolamento-tipo si presta particolare attenzione alla dimensione affettiva, alle specifiche necessità sanitarie del mondo femminile, nonché al bisogno di offerta formativa volta al reinserimento sociale; per quanto riguarda l’ultimo punto, in particolare, sono aumentate le occasioni di compartecipazione con i detenuti maschi alle diverse iniziative culturali, ricreative e sportive.
Problema risolto? Bisogna pur sempre sottolineare come la condizione detentiva, soprattutto, femminile, è spesso accompagnata da forme di disagio e sofferenza complesse, a causa del diverso ruolo sociale e dalle peculiarità psicofisiche delle donne, che, si ricordi, sono spesso anche madri. Le detenute, a causa del distacco dagli affetti, provano spesso un conseguente senso di colpa. Il distacco dai figli può essere molto problematico e la sofferenza che ne deriva può provocare conseguenze gravi per la salute mentale e fisica delle detenute, che manifestano, in questi casi, una minore adattabilità alla detenzione, una maggiore tendenza alla depressione, ansia e malattie psicosomatiche. La lontananza dai figli aggiunge dolore alla pena detentiva, mentre i locali per le visite offrono raramente uno spazio adeguato al fine di ritrovare intimità e vicinanza nel rapporto tra madre e figlio. Nei casi più gravi, si arriva anche al suicidio, che, con gli atti di autolesionismo, sono più frequenti tra la popolazione detenuta femminile rispetto a quella maschile.
3. Genitorialità e detenzione
La legge 21 aprile 2011, n. 62, che tutela il rapporto tra i minori e le madri detenute, ha l’obiettivo specifico di tutelare sia la salute mentale e fisica del genitore, da un lato, sia il diritto a una crescita serena in capo al figlio, dall’altro. Tra le novità, spicca l’istituzione degli ICAM, gli istituti a custodia attenuata, per ospitare le donne detenute che abbiano figli minori al seguito, ovvero i padri nel caso in cui le madri manchino. Questi istituti hanno una conformazione diversa rispetto ai normali istituti detentivi, riproducendo le caratteristiche di una dimora civile. Anche il regime penitenziario presenta caratteristiche diverse di quello applicato alla detenzione ordinaria: è di tipo familiare-comunitario, in cui l’obiettivo è responsabilizzare il ruolo genitoriale e “assicurare la crescita armoniosa e senza traumi dei minori”, come emerge dal sito del Ministero della giustizia. Sempre dal sito del Ministero, si apprende che, attualmente, sono operativi gli ICAM di Milano e del Veneto, mentre sono in procinto di aprire nuovi ICAM in Piemonte, Toscana, Lazio e Campania. Evidente è, però, che l’offerta attuale non soddisfa la domanda: gli istituti a custodia attenuata sono al momento numericamente insufficienti per garantire l’obiettivo voluto dal legislatore di preservare, per tutti gli aventi diritto, il delicato rapporto tra genitore e figlio in regime di privazione della libertà (sia a titolo definitivo che cautelare) e le conseguenze che da tale rapporto derivano.
La stessa legge dispone anche che le donne incinte o con prole di età inferiore ai 10 anni possano scontare la pena detentiva inferiore ai 4 anni, anche se residua, presso la propria abitazione in regime di detenzione domiciliare o presso la nuova figura che viene introdotta proprio in questa legge della “casa-famiglia protetta”. Il ministero della Giustizia, con il decreto 8 marzo 2013, all’art. 4, comma 1, ha individuato le caratteristiche di una casa-famiglia protetta tipo: deve essere collocata in luoghi in cui vi siano i servizi territoriali che rispondano alle esigenze dei bambini (si pensi, in primo luogo, agli istituti scolastici), favorendo un modello di vita comunitario; deve avere tutti gli spazi interni necessari ai colloqui e alle visite mediche, nonchè deve essere dotata di opportuni servizi igienici e camere riservate agli uomini. Le case-famiglia protette presentano un vantaggio di non marginale rilievo rispetto agli ICAM: sono quasi a costo zero per il bilancio dello Stato, dato che il Ministero della giustizia può individuare, d’intesa con gli enti locali, le strutture idonee ad essere utilizzate come case-famiglia protette. Molte Associazioni territoriali si sono attivate al fine di mettere a disposizione strutture che abbiano i requisiti prescritti per legge. Per esempio, il sito del Ministero della giustizia menziona il Progetto Nazionale di Accoglienza delle Donne detenute con figli predisposto dalla Caritas italiana insieme ai Centri diocesani Migrantes e all’Ispettorato dei Cappellani delle carceri italiane: assicura una rete di strutture per l’accoglienza, su tutto il territorio, delle detenute madri, con particolare attenzione alla finalità del reinserimento sociale.
4. I rapporti familiari in carcere
Nonostante il legislatore preveda diverse misure (tra cui strutture istituite ad hoc, come gli ICAM) al fine di tutelare il rapporto tra genitori detenuti e figli minori, nella realtà, numerose sono le madri private della libertà personale che, nel quotidiano, non vedono i propri figli, se non saltuariamente durante le ore di colloquio.
Negli ultimi anni, si sono succedute fonti legislative che hanno posto dei principi a proposito del rapporto tra genitori e figli, anche fuori dal carcere. In particolare, la legge n°54 del 08/02/2006 ha introdotto il principio della bigenitorialità, inteso come il diritto del minore a mantenere rapporti equilibrati con entrambi i genitori, anche dopo la cessazione della loro convivenza. In questa norma si noti che si parla di “entrambi i genitori”, ponendo l’attenzione anche sulla figura paterna, che, spesso, ricopre una posizione marginale nelle previsioni del nostro ordinamento (per esempio, infatti, nella disposizione di cui all’art. 47-ter comma 1 lett. a), della legge sull’ordinamento penitenziario, si prevede la detenzione domiciliare per il padre, esercente la potestà, di prole di età inferiore ad anni dieci con lui convivente, solo quando la madre sia deceduta o altrimenti assolutamente impossibilitata a dare assistenza alla prole). Questa disciplina, in realtà, riguarda i casi di separazione tra genitori e, dunque, cessazione della convivenza; ma, la convivenza cessa anche nel momento in cui uno dei due genitori viene sottoposto a regime detentivo e, quindi, dovrebbe essere considerata efficace anche relativamente a questi particolari casi. Il figlio dovrebbe sempre avere diritto a mantenere una relazione con i genitori, anche detenuti, e a non essere discriminato in alcun modo.
Il mantenimento del rapporto affettivo, inoltre, non è di fondamentale importanza solo per il figlio e per i suoi diritti, ma anche per i genitori stessi, in quanto la preservazione dei vincoli familiari svolge un importante ruolo ai fini della reintegrazione e rieducazione e, quindi, per garantire il tendere alla finalità della pena sancita dall’art. 27, comma 3, della Costituzione.
Si può anche notare come il figlio e il mantenimento del rapporto con lo stesso sia anche utile nella prevenzione delle recidive. In mancanza sopravvenuta del rapporto, il detenuto o la detenuta potrebbe, infatti, avvertire di essere vittima di un’ingiustizia, di un trattamento contrario al senso d’umanità (vietato dall’art. 27, comma 3, della Costituzione) o un trattamento inumano e degradante (vietato dall’art. 3 della CEDU, norma interposta ex art. 117 della Costituzione) e, quindi, perdere di vista il fine ultimo della sua detenzione che dovrebbe essere, appunto, la rieducazione e il reinserimento sociale.
L’Amministrazione penitenziaria, per ottemperare ai doveri costituzionali, si deve impegnare a garantire la presenza di un ambiente pronto ad accogliere tutti i bambini, contemperando le diverse e opposte esigenze di sicurezza e i necessari contatti familiari, istruendo adeguatamente anche il personale preposto a tal fine. Tra le soluzioni adottate dalle carceri italiane possono essere citate, a titolo esemplificativo, l’eliminazione del bancone divisorio nelle sale colloqui o la realizzazione di spazi verdi, in cui sono presenti anche scivoli o altalene, volte a creare un ambiente che trasmetta un senso di normalità ai minori in visita.
5. L’attività trattamentale rivolta alle donne e conclusioni
Tornando, più nello specifico, al tema dell’universo femminile in carcere, bisogna affrontare la fondamentale questione circa le attività trattamentali che vengono proposte ai fini rieducativi e risocializzanti. Come si è già detto, le detenute hanno una minore possibilità di accesso alle attività trattamentali rispetto agli uomini che si trovano nella medesima condizione. Si tratta di una discriminazione dovuta, principalmente, dal numero limitato di donne in carcere e dall’impossibilità di condividere gli spazi penitenziari con i detenuti uomini. Tuttavia, si ritiene che le (seppur scarse) offerte trattamentali che vengono rivolte al mondo detenuto femminile siano di ottima qualità; vero è che sono poche le detenute che riescono ad accedervi, ma alle donne, tendenzialmente, vengono affidati lavori di eccellenza. Un esempio che si reputa di particolare spicco e rilevanza, è la Sartoria di San Vittore: ivi, si realizzano toghe per avvocati e magistrati, nell’ottica della riabilitazione delle donne private della libertà personale. Forse, nel coinvolgere le detenute in un lavoro simile, che unisce due mondi in apparente contrapposizione (operatori della giustizia, da un lato, e popolazione carceraria, dall’altro) vi è l’ulteriore e sottointeso intento di avvicinare le detenute alla legalità, al fine di spezzare quella retorica del “noi e loro”, facendole sentire parte integrante e fondamentale del mondo della giustizia, in quanto alleate e non “nemiche”.
La pena ha sì una grande importanza di carattere general-preventivo ma, innanzitutto, deve tendere alla rieducazione del condannato o della condannata, come più volte richiamato nel corso di questo scritto e come sancito in uno dei principi cardini del nostro ordinamento, enunciato all’art. 27, comma 3, della Costituzione. Se i detenuti devono avere un atteggiamento propositivo nei confronti delle attività volte al loro reinserimento sociale, anche gli esperti e i tecnici del diritto devono saper cogliere le misure più adatte ad ottenere i risultati migliori, per il bene sia dell’individuo che della collettività. Non si raggiungerà mai appieno l’obiettivo rieducativo da parte del condannato se, quest’ultimo, non avvertirà uno Stato vicino e presente, non per punirlo ma per accompagnarlo nel percorso di presa di consapevolezza. Si sposta, così, l’attenzione dall’individuo, il condannato, all’entità statale, responsabile dei suoi cittadini e abitanti e, dunque, dei suoi reclusi, ai quali non devono essere mai negati i diritti fondamentali, primo tra tutti la dignità, di cui all’art. 2 della Costituzione.
Salvis Juribus – Rivista di informazione giuridica
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Federica Longo
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