Estorsione e rapporto di lavoro: verso una costituzionalizzazione del diritto penale

Estorsione e rapporto di lavoro: verso una costituzionalizzazione del diritto penale

Abstract. Il presente contributo analizza la sentenza n. 29368/2025 della Corte di Cassazione, che ha riconosciuto la configurabilità del delitto di estorsione ex art. 629 c.p. nel contesto lavorativo. Attraverso un approccio casistico e sistemico, l’articolo evidenzia come la giurisprudenza penale abbia progressivamente esteso la nozione di “minaccia” sino a ricomprendere condotte larvate, simboliche o ambientali, valorizzando il contesto di subordinazione economica e la vulnerabilità del lavoratore. La pronuncia si inserisce nel più ampio processo di costituzionalizzazione del diritto penale del lavoro, riaffermando il ruolo del diritto penale quale strumento di tutela della libertà negoziale e della dignità personale del prestatore. Viene inoltre proposta una rilettura dogmatica dell’art. 629 c.p., idonea a distinguere l’estorsione da figure contigue come la truffa contrattuale o l’abuso di dipendenza economica. In conclusione, l’articolo sottolinea la necessità di un bilanciamento tra potere organizzativo e tutela penale, in un contesto segnato da nuove forme di precarietà e di dipendenza economica.

Sommario: 1. Premessa – 2. Nozione e inquadramento del reato di estorsione nel contesto lavorativo – 3. Ratio della sentenza e struttura della minaccia – 4. Analisi del caso concreto e implicazioni sistemiche – 5. Conclusioni

 

1. Premessa 

Il rapporto di lavoro subordinato si fonda su un vincolo fiduciario che, pur avendo natura contrattuale, si inserisce in una relazione strutturalmente asimmetrica tra le parti. Il potere organizzativo e direttivo del datore di lavoro, se esercitato in modo distorto o abusivo, può tradursi in forme di pressione psicologica incompatibili con la libertà di autodeterminazione del lavoratore, compromettendo non soltanto l’equilibrio sinallagmatico del rapporto, ma anche la dignità personale del prestatore.

In tale prospettiva, il diritto penale assume una funzione di garanzia non più circoscritta alla tutela dei beni patrimoniali, ma estesa alla protezione della libertà individuale e alla salvaguardia della correttezza delle relazioni lavorative. La crescente attenzione della giurisprudenza verso le dinamiche di subordinazione economica e le forme di coercizione larvata impone oggi una rilettura sistematica dell’art. 629 c.p., tradizionalmente collocato tra i delitti contro il patrimonio, ma sempre più frequentemente richiamato in contesti di abuso del potere contrattuale e di strumentalizzazione dell’asimmetria lavorativa.

Il presente contributo analizza la sentenza n. 29368/2025 della Corte di Cassazione, al fine di verificare la configurabilità del delitto di estorsione nel contesto lavorativo, alla luce delle più recenti evoluzioni giurisprudenziali e dottrinali. Attraverso un approccio casistico, sistemico e comparativo, fondato sull’analisi testuale della pronuncia e sul confronto con gli orientamenti consolidati della dottrina (Fiandaca–Musco; Mantovani), si intende mettere in luce come la giurisprudenza penale abbia progressivamente ampliato la nozione di “minaccia”, ricomprendendovi anche condotte simboliche, ambientali o indirette, e valorizzando il contesto di vulnerabilità del lavoratore quale elemento qualificante della condotta estorsiva.

La riflessione si inserisce nel più ampio dibattito sulla tutela penale della parte debole del contratto di lavoro e mira a contribuire alla definizione di un paradigma interpretativo coerente con i principi costituzionali di eguaglianza sostanziale, libertà personale e giustizia sociale, in linea con le moderne esigenze di protezione del lavoratore nel mercato del lavoro contemporaneo.

2. Nozione e inquadramento del reato di estorsione nel contesto lavorativo

Il delitto di estorsione, disciplinato dall’art. 629 c.p., è collocato nel Titolo XIII del codice penale, dedicato ai delitti contro il patrimonio. La disposizione incriminatrice punisce chiunque, mediante violenza o minaccia, costringa taluno a fare o ad omettere qualcosa, procurando a sé o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno. La fattispecie si articola dunque in una condotta (violenza o minaccia), un evento di costrizione, un risultato (ingiusto profitto e danno altrui) e un nesso causale che colleghi l’azione intimidatoria all’atto dispositivo della vittima.

La struttura del reato rivela la sua natura plurioffensiva, poiché incide tanto sul patrimonio quanto sulla libertà di autodeterminazione del soggetto passivo. La dottrina ha sottolineato che l’estorsione si distingue dalla rapina per la necessaria cooperazione — seppur coartata — della vittima: l’atto dispositivo è formalmente volontario ma sostanzialmente indotto da una pressione psichica.

La giurisprudenza di legittimità ha chiarito che non è richiesto un danno patrimoniale effettivo, essendo sufficiente la potenziale compromissione della libertà negoziale (Cass. pen., sez. II, 8 agosto 2025, n. 29368; Cass. pen., sez. II, 19 marzo 2025, n. 10974). La minaccia, inoltre, può assumere forme eterogenee — esplicite o implicite, dirette o indirette, verbali, gestuali o ambientali — purché idonee, secondo una valutazione ex ante, a generare uno stato di costrizione psicologica.

Nel contesto lavorativo, l’applicazione dell’art. 629 c.p. richiede di considerare l’asimmetria strutturale del rapporto e la vulnerabilità economica del lavoratore. La minaccia può consistere nella prospettazione del licenziamento, nella negazione della retribuzione o nella manipolazione delle condizioni contrattuali. In tali ipotesi, l’ingiusto profitto si concreta nella simulazione di regolarità retributiva o nell’elusione di obblighi fiscali e contributivi, mentre il danno si manifesta nella compressione dei diritti del lavoratore e nella lesione della sua dignità personale.

L’estorsione in ambito lavorativo si configura dunque come strumento di repressione di condotte datoriali abusive, capaci di alterare il libero svolgimento del rapporto contrattuale e di compromettere la libertà e la dignità del prestatore.

3. Ratio della sentenza e struttura della minaccia

La sentenza n. 29368/2025 della Corte di Cassazione segna un punto di svolta nell’interpretazione dell’art. 629 c.p. in ambito lavorativo, confermando la configurabilità del delitto di estorsione anche in assenza di violenza fisica o minacce esplicite. La Corte ha ritenuto penalmente rilevante la condotta del datore di lavoro che, sfruttando la propria posizione di supremazia gerarchica, ha costretto due lavoratrici a sottoscrivere buste paga recanti indicazioni non veritiere, prospettando la mancata corresponsione della retribuzione in caso di rifiuto.

La ratio decidendi si fonda su una lettura estensiva del concetto di “minaccia”, intesa non come mera intimidazione esplicita, ma come pressione psicologica idonea a coartare la libertà di autodeterminazione del soggetto passivo.

La Corte ha valorizzato il contesto di subordinazione economica e la condizione di vulnerabilità delle lavoratrici, riconoscendo che la frase «se volete quei soldi, quelle buste paga dovete firmarle» integra una forma di coercizione larvata sufficiente a costituire minaccia penalmente rilevante.

Richiamando orientamenti consolidati (Cass. pen., sez. II, 12 luglio 2007, n. 24643; Cass. pen., sez. II, 19 marzo 2025, n. 10974), la Corte ribadisce che la minaccia può manifestarsi in modalità verbali, simboliche o ambientali, purché idonee ex ante a generare uno stato di costrizione psicologica.

Il profitto ingiusto è stato individuato nella simulazione della regolarità retributiva funzionale all’elusione contributiva, mentre il danno consiste nella compressione dei diritti delle lavoratrici. Tale impostazione segna un ampliamento del concetto di minaccia e, al tempo stesso, una ridefinizione della funzione del diritto penale come strumento di tutela sostanziale della libertà negoziale.

4. Analisi del caso concreto e implicazioni sistemiche

La sentenza de qua  rappresenta un caso paradigmatico di applicazione dell’art. 629 c.p. nel contesto delle relazioni di lavoro, ponendo in luce la capacità del reato di estorsione di adattarsi a forme di coercizione non fisica ma psicologica, proprie delle dinamiche datoriali. Il caso sottoposto all’esame della Corte di Cassazione riguardava un datore di lavoro che, abusando della propria posizione gerarchica e dell’asimmetria contrattuale, aveva imposto alle lavoratrici la sottoscrizione di buste paga recanti dati retributivi non corrispondenti alla realtà, prospettando, in caso di rifiuto, la mancata corresponsione dello stipendio o addirittura la cessazione del rapporto di lavoro.

Pur in assenza di minacce esplicite o di violenza fisica, la Corte ha ritenuto la condotta idonea a integrare il delitto di estorsione, valorizzando l’effetto di coartazione psicologica derivante dalla strumentalizzazione del potere datoriale. La minaccia di perdere il lavoro — anche se formalmente ancorata a un potere gestionale astrattamente legittimo — è stata qualificata come strumentale e abusiva, poiché finalizzata al conseguimento di un profitto ingiusto, consistito nell’elusione degli obblighi fiscali e contributivi e nella simulazione di regolarità retributiva.

In tale prospettiva, la Corte ha riconosciuto che la libertà negoziale del lavoratore può essere compressa non solo da forme di violenza esplicita, ma anche da pressioni ambientali, simboliche o psicologiche, idonee a indurre un consenso meramente apparente. Si tratta di un orientamento che amplia la nozione di minaccia rilevante ai sensi dell’art. 629 c.p., estendendola a quelle situazioni in cui la costrizione si manifesta come risultato di un contesto di soggezione strutturale e dipendenza economica, piuttosto che come reazione a una violenza immediata.

Secondo la dottrina prevalente, l’estorsione rientra tra i delitti patrimoniali a cooperazione artificiosa, nei quali la vittima, pur agendo formalmente in modo volontario, è indotta da una pressione psichica che ne compromette la libertà di autodeterminazione. La giurisprudenza, in linea con questa impostazione, ha da tempo chiarito che ciò che rileva non è l’effettivo verificarsi di un danno, bensì l’idoneità della minaccia a generare uno stato di costrizione tale da limitare la libertà della persona offesa, valutato secondo un parametro ex ante e tenendo conto delle concrete condizioni soggettive della vittima (Cass. pen., sez. II, 12 luglio 2007, n. 24643).

Nel caso di specie, il danno si è concretizzato nella lesione della dignità lavorativa e della libertà personale, poiché le lavoratrici, pur formalmente aderendo alla richiesta datoriale, hanno agito sotto il peso di una minaccia implicita ma concreta, derivante dalla prospettiva di perdere la fonte primaria del proprio sostentamento. Tale situazione, secondo la Corte, integra una forma di costrizione psichica economicamente mediata, pienamente idonea a fondare la responsabilità penale per estorsione.

Sotto il profilo sistemico, la sentenza si inserisce in una tendenza evolutiva che tende a riconfigurare il diritto penale del lavoro in chiave costituzionale, ponendo al centro la persona del lavoratore e la sua tutela contro gli abusi di potere economico. L’intervento repressivo non si limita a sanzionare la lesione patrimoniale, ma assume anche una funzione di garanzia della libertà e della dignità del soggetto debole del rapporto di lavoro, in coerenza con i principi sanciti dagli artt. 2, 3 e 4 Cost.

La decisione in commento contribuisce, pertanto, a delineare una concezione relazionale e personalistica del diritto penale, nella quale la protezione della libertà contrattuale e della dignità individuale assume rilievo pari a quella dei beni patrimoniali. In questa prospettiva, l’estorsione, nella sua declinazione lavoristica, diventa uno strumento di presidio della legalità contrattuale e della giustizia sostanziale, capace di contrastare le nuove forme di sfruttamento che si celano dietro l’apparente regolarità dei rapporti economici.

In definitiva, la pronuncia non solo ribadisce la centralità del principio di autodeterminazione del lavoratore, ma rafforza il processo di integrazione tra diritto penale e diritto costituzionale, confermando che la libertà dal bisogno e dalla coercizione economica rappresenta oggi una componente essenziale della libertà personale.

5. Conclusioni

Il dictum  della Corte di Cassazione segna un passaggio decisivo nell’evoluzione interpretativa dell’art. 629 c.p., sancendo l’ingresso definitivo del delitto di estorsione nel perimetro delle relazioni di lavoro. La Corte ha affermato che la minaccia, anche in assenza di manifestazioni esplicite o di violenza fisica, assume rilievo penale quando si traduce in una pressione psicologica idonea a comprimere la libertà di autodeterminazione del lavoratore, soprattutto in contesti caratterizzati da subordinazione economica e asimmetria contrattuale.

Attraverso una lettura casistica e sistemica, la pronuncia valorizza la dimensione relazionale del reato, riconoscendo che la strumentalizzazione del potere datoriale può integrare l’estorsione quando sia funzionale al conseguimento di un profitto ingiusto con altrui danno. Tale prospettiva consente di superare una visione meramente patrimonialistica dell’art. 629 c.p., evidenziando la sua portata di garanzia rispetto ai valori personalistici e costituzionali che permeano il rapporto di lavoro.

Sotto il profilo dogmatico, la decisione contribuisce a ridefinire i confini dell’estorsione rispetto a figure contigue, quali la truffa contrattuale e l’abuso di dipendenza economica, individuando nel carattere coattivo della condotta e nella compressione della libertà negoziale i criteri distintivi essenziali. In tal modo, la Corte esclude ogni assimilazione tra il legittimo esercizio del potere organizzativo e il suo impiego distorto quale strumento di sopraffazione e di elusione della legalità retributiva.

Sul piano sistemico, la sentenza si inserisce nel più ampio processo di costituzionalizzazione del diritto penale del lavoro, che tende a coniugare la funzione repressiva con quella garantista, in chiave solidaristica e personalistica. Essa riafferma la centralità della persona del lavoratore come soggetto di diritti inviolabili e non mero ingranaggio della produzione, restituendo al diritto penale la funzione di argine alle derive autoritarie del potere economico privato.

In conclusione, la pronuncia offre un quadro interpretativo coerente con i principi di dignità, libertà ed eguaglianza sostanziale sanciti dagli artt. 2, 3 e 4 Cost., configurando l’estorsione come strumento di presidio della legalità contrattuale e della giustizia sostanziale nel mercato del lavoro contemporaneo. Tuttavia, essa apre anche a nuove prospettive di riflessione sul bilanciamento tra potere organizzativo e tutela penale, nonché sull’effettività delle garanzie costituzionali in un contesto segnato da crescenti forme di precarietà, dipendenza economica e vulnerabilità sociale del lavoratore.


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