Il principio di onnicomprensività della retribuzione dirigenziale e gli incarichi in società participate
Commento a Corte dei Conti Marche n. 104/2025
Sommario: 1. Introduzione – 2. Il fatto: incarico dirigenziale, presidenza in partecipata e compensi controversi – 3. La decisione della Corte dei Conti – 3.1. Inderogabilità del principio di onnicomprensività – 3.2. Regime autorizzatorio e obbligo di riversamento – 4. L’elemento soggettivo – 5. Autonomia del giudizio contabile – 6. Considerazioni conclusive
1. Introduzione
La sentenza n. 104 del 27 maggio 2025, emessa dalla Corte dei Conti, Sezione Giurisdizionale per la Regione Marche, offre un’occasione preziosa per ritornare su temi centrali del diritto del pubblico impiego e della responsabilità amministrativa, con specifico riferimento al regime degli incarichi esterni conferiti a dirigenti pubblici e al principio di onnicomprensività della loro retribuzione. La pronuncia, che condanna una dirigente comunale al risarcimento del danno erariale per la mancata devoluzione all’ente di appartenenza dei compensi percepiti quale Presidente del Consiglio di Amministrazione di una società partecipata dal Comune stesso, si innesta in un solco giurisprudenziale consolidato, ma consente di ribadire alcuni concetti fondamentali.
2. Il fatto: incarico dirigenziale, presidenza in partecipata e compensi controversi
La vicenda da cui origina la pronuncia riguarda una dirigente in servizio a tempo pieno presso un Comune marchigiano, nominata, su designazione del Sindaco, Presidente del Consiglio di Amministrazione di Pi.Am. S.p.A., società partecipata (sebbene, come si vedrà, qualificata in altra sede come “non a controllo pubblico“) dal medesimo ente locale. L’incarico, rinnovato per un secondo triennio, si è protratto dal settembre 2013 al settembre 2019, prevedendo un compenso annuo lordo di € 12.500,00, oltre a rimborsi forfettari.
Elemento peculiare della fattispecie è che, per un lungo periodo e su iniziale indicazione della stessa Presidente, i compensi non le vennero corrisposti direttamente, bensì accantonati dalla società con l’intento di versarli al Comune. Successivamente, tuttavia, la dirigente, mutando orientamento, richiedeva e otteneva dalla società partecipata l’erogazione diretta in proprio favore delle somme maturate (per un totale di € 41.638,00), rifiutandosi poi di riversarle all’amministrazione di appartenenza, nonostante formali richieste in tal senso. Tale condotta ha portato all’instaurazione del giudizio per danno erariale da parte della Procura regionale della Corte dei Conti, nonché a un procedimento penale per peculato (dal quale, in primo grado, la dirigente è stata assolta “perché il fatto non sussiste” con sentenza non definitiva).
Le difese della convenuta si sono incentrate principalmente sulla pretesa inapplicabilità del principio di onnicomprensività della retribuzione dirigenziale, stante la natura di società meramente partecipata e non “a controllo pubblico” della Pi.Am. S.p.A., come accertato da due sentenze del TAR Marche. Secondo tale tesi, la disciplina speciale introdotta dall’art. 4 del D.L. n. 95/2012 avrebbe derogato alla regola generale per gli incarichi in società non controllate, richiamando la disciplina civilistica che prevede il diritto dell’amministratore al compenso. Inoltre, la dirigente sosteneva la non necessità di autorizzazione ex art. 53 D.Lgs. n. 165/2001, essendo stata designata dal Sindaco, e quindi, a suo dire, l’incarico sarebbe stato conferito dall’amministrazione stessa o comunque da questa implicitamente avallato.
3. La decisione della Corte dei Conti
La Corte dei Conti marchigiana ha accolto integralmente la domanda della Procura, ritenendo fondata la pretesa risarcitoria. Il Collegio ha ancorato la propria decisione a due pilastri fondamentali del pubblico impiego: il principio di onnicomprensività della retribuzione dirigenziale (art. 24, comma 3, D.Lgs. n. 165/2001) e, in via alternativa ma convergente, la disciplina autorizzatoria per gli incarichi esterni con obbligo di riversamento dei compensi (art. 53, commi 7 e 7-bis, D.Lgs. n. 165/2001).
3.1. Inderogabilità del principio di onnicomprensività
Il cuore della motivazione risiede nella perentorietà dell’art. 24, comma 3, del Testo Unico sul Pubblico Impiego, il quale stabilisce che il trattamento economico dei dirigenti “remunera tutte le funzioni ed i compiti attribuiti ai dirigenti […] nonché qualsiasi incarico ad essi conferito in ragione del loro ufficio o comunque conferito dall’Amministrazione presso cui prestano servizio o su designazione della stessa; i compensi dovuti dai terzi sono corrisposti direttamente alla medesima Amministrazione e confluiscono nelle risorse destinate al trattamento economico accessorio della dirigenza“.
La Corte ribadisce che tale principio ha una portata generale e inderogabile, costituendo un cardine del rapporto di lavoro dirigenziale pubblico. La sua ratio è quella di assicurare l’esclusività della prestazione del dirigente verso l’amministrazione, evitando che la retribuzione possa essere incrementata attraverso meccanismi esterni che, di fatto, premierebbero attività comunque riconducibili alla sua posizione e al suo legame con l’ente. Cruciale, nel caso di specie, è l’inciso “su designazione della stessa [amministrazione]“. Essendo pacifico che la nomina della Ta. a Presidente della Pi.Am. S.p.A. fosse avvenuta su designazione del Sindaco del Comune di appartenenza, i relativi compensi, secondo il Collegio, rientravano a pieno titolo nel perimetro dell’onnicomprensività e dovevano, quindi, essere versati direttamente all’ente locale.
Di fronte a tale chiara previsione, la Corte ritiene del tutto irrilevante la distinzione, sollevata dalla difesa, tra società a controllo pubblico e società a mera partecipazione pubblica non di controllo. Secondo i giudici contabili, la qualificazione giuridica della Pi.Am. S.p.A., come accertata dal TAR Marche in altre controversie, non incide minimamente sugli obblighi che discendono ex lege dal rapporto di pubblico impiego della dirigente con il suo Comune. L’art. 24, comma 3, non opera distinzioni in tal senso quando l’incarico, come nel caso in esame, promana da una designazione dell’amministrazione di appartenenza. L’obbligo di riversamento, pertanto, scaturisce direttamente dalla norma citata, indipendentemente dalla natura civilistica della società erogante o dalle specifiche previsioni del D.L. n. 95/2012, che, ad avviso della Corte, non introducono deroghe al principio generale per gli incarichi conferiti “su designazione” dell’ente.
3.2. Regime autorizzatorio e obbligo di riversamento
La Corte, pur basando la condanna primariamente sulla violazione dell’art. 24, comma 3, non tralascia di considerare la fattispecie anche sotto il profilo dell’art. 53 D.Lgs. 165/2001, che disciplina gli incarichi extra-istituzionali. Anche qualora l’incarico non fosse stato considerato strettamente conferito “in ragione dell’ufficio” ma come un incarico esterno retribuito, la dirigente avrebbe dovuto munirsi di formale autorizzazione preventiva. I commi 7 e 7-bis del medesimo articolo stabiliscono che, in caso di incarichi autorizzati (o che avrebbero dovuto esserlo), i compensi spettanti al dipendente pubblico, se superiori a una certa soglia o se l’incarico è conferito dall’amministrazione di appartenenza o da essa designato, devono essere versati all’amministrazione stessa.
La Procura aveva infatti prospettato la responsabilità anche sotto questo profilo, evidenziando la duplice mancanza: l’assenza di una formale richiesta di autorizzazione e, comunque, il mancato riversamento dei compensi. La Corte, pur non sviluppando ampiamente questo argomento perché assorbito dal primo, lo considera una via alternativa ma parimenti idonea a fondare la responsabilità, dato che l’esito sarebbe stato il medesimo: l’obbligo di devolvere i proventi all’ente. La designazione sindacale, seppur rilevante per ricondurre l’incarico alla sfera di influenza dell’amministrazione, non elide la necessità del procedimento autorizzatorio formale, né tantomeno il conseguente obbligo di riversamento dei compensi percepiti.
4. L’elemento soggettivo
Sul piano dell’elemento soggettivo, la Corte dei Conti ravvisa una condotta connotata da dolo, o quantomeno da colpa grave di eccezionale entità. Diversi elementi concorrono a tale convincimento. In primo luogo, la stessa dirigente, inizialmente, aveva dato disposizioni affinché i compensi maturati fossero versati direttamente dalla Pi.Am. S.p.A. al Comune. Tale circostanza, debitamente provata e non smentita, dimostra la sua piena consapevolezza, ab origine, dell’esistenza dell’obbligo di riversamento. Il successivo “mutamento di orientamento“, concretizzatosi nella richiesta di pagamento diretto e nel rifiuto di restituzione, appare quindi come una scelta deliberata e cosciente di contravvenire a un obbligo noto.
In secondo luogo, il Collegio valorizza l’elevata professionalità e le specifiche cognizioni giuridiche della dirigente, la quale, peraltro, operava in un settore (Gestione Risorse Umane) che presuppone una profonda conoscenza della normativa sul pubblico impiego. Tale qualifica rende ancor meno scusabile l’errore interpretativo o la negligenza.
Infine, anche qualora la dirigente avesse nutrito dubbi interpretativi sulla spettanza personale dei compensi (ad esempio, a seguito delle sentenze del TAR sulla natura della società o di una diversa lettura del D.L. n. 95/2012), la Corte sottolinea che “ella avrebbe, comunque, dovuto riversarli tempestivamente al Comune […] salva l’eventualità di far valere successivamente le proprie asserite ragioni nelle competenti sedi“. Il mancato adempimento di questo basilare dovere di lealtà e correttezza verso l’amministrazione, preferendo l’autotutela e l’incameramento diretto delle somme, integra ulteriormente la gravità della condotta.
5. Autonomia del giudizio contabile
Un passaggio significativo della sentenza riguarda il rapporto con il giudizio penale pendente. La difesa aveva prodotto la sentenza del GUP di Ascoli Piceno che aveva assolto la Ta. dal reato di peculato “perché il fatto non sussiste”. La Corte dei Conti, tuttavia, ne ha correttamente ridimensionato la portata nel giudizio amministrativo-contabile, richiamando due principi fondamentali:
Mancanza di giudicato: La sentenza penale non era definitiva, essendo stata appellata dalla Procura della Repubblica.
Autonomia dei giudizi: Vigige il principio di piena autonomia e separazione tra il giudizio di responsabilità amministrativa per danno erariale e il giudizio penale. Ciascun giudice valuta i fatti autonomamente, alla luce delle specifiche norme e finalità del proprio ordinamento processuale. Pertanto, l’esito del processo penale, soprattutto se non definitivo e se basato su una diversa qualificazione giuridica o su una diversa soglia probatoria, non vincola la Corte dei Conti.
Questa precisazione è importante per ribadire come la tutela dell’erario e la responsabilità del pubblico dipendente per la gestione delle risorse pubbliche seguano logiche e presupposti distinti da quelli penali, focalizzandosi sul danno patrimoniale e sulla violazione degli obblighi di servizio, anche a prescindere dalla rilevanza criminale della condotta.
6. Considerazioni conclusive
La sentenza in commento, pur muovendosi nel solco di un orientamento giurisprudenziale consolidato, offre spunti di riflessione di più ampia portata.
In primo luogo, riafferma con nettezza la centralità del principio di onnicomprensività quale presidio dell’imparzialità e del buon andamento dell’amministrazione (art. 97 Cost.), nonché dell’esclusività della prestazione del dirigente pubblico. Esso mira a evitare che la funzione pubblica possa trasformarsi in occasione per lucrare indebiti vantaggi personali attraverso incarichi esterni che, pur formalmente distinti, sono comunque legati alla posizione istituzionale ricoperta.
In secondo luogo, la decisione chiarisce che le complesse normative sulle società partecipate (D.L. n. 95/2012, D.Lgs. n. 175/2016) e la natura giuridica di queste ultime (controllo pubblico, mera partecipazione, organismi di diritto pubblico, imprese pubbliche) non possono essere invocate strumentalmente per eludere i principi fondamentali che governano lo status del dipendente pubblico e i suoi obblighi verso l’amministrazione di appartenenza. Se una norma generale come l’art. 24, comma 3, del D.Lgs. n. 165/2001 collega un preciso obbligo alla “designazione” da parte dell’amministrazione, tale obbligo permane indipendentemente dal fatto che la società designata sia o meno a controllo pubblico, a meno di una deroga espressa e inequivocabile, che nel caso di specie la Corte non ha ravvisato.
La sentenza, inoltre, pone l’accento sulla responsabilità personale del dirigente, che non può trincerarsi dietro interpretazioni normative auto-assolutorie, specie quando queste contrastano con la lettera chiara della legge e con un dovere di lealtà che imporrebbe, in caso di dubbio, una condotta prudenziale e il prioritario rispetto degli interessi dell’ente. Il mutamento di comportamento della dirigente, da una iniziale corretta impostazione a una successiva pretesa personale, è stato giustamente valorizzato come indice di una consapevole deviazione dalla norma.
Infine, la pronuncia contribuisce a rafforzare la tutela dell’erario, sanzionando non solo le condotte attive produttive di spesa illegittima, ma anche quelle omissive che determinano una mancata entrata per l’ente pubblico. Il danno, nel caso di specie, è consistito proprio nel mancato introito di somme che, per legge, sarebbero dovute confluire nelle casse comunali, impoverendo le risorse destinate, tra l’altro, al trattamento accessorio della dirigenza nel suo complesso.
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Marco Paoloni
Funzionario amministrativo tributario a Agenzia delle Entrate - Direzione Provinciale di Fermo
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