Inquadramento e mansioni: fondamento del rapporto di lavoro
Abstract. Per evitare contenziosi — tanto con gli enti previdenziali e assistenziali quanto con il lavoratore stesso — è necessario prestare la massima attenzione alla corretta instaurazione del rapporto di lavoro, a partire dalla scelta della qualifica e del livello contrattuale. Una negligenza in questa fase può rivelarsi il primo passo verso un lungo (e costoso) percorso giudiziario. In questa sede si intendono esaminare i principali riflessi giuridici e gestionali connessi alla corretta consulenza in materia di inquadramento e mansioni.
Sommario: 1. Il ragionamento logico-giuridico alla base dell’inquadramento – 2. Esempio pratico – 3. Le principali conseguenze dell’inquadramento – 4. Tra diritto e dignità – 5. Il lavoro come crescita della persona – 6. Conclusioni
1. Il ragionamento logico-giuridico alla base dell’inquadramento
Il primo passo, spesso sottovalutato, è l’analisi delle mansioni concretamente assegnate al lavoratore nell’ambito dell’organigramma aziendale. Nessun contratto, per quanto ben redatto, può prescindere da una chiara conoscenza della struttura in cui il lavoratore si inserisce e delle funzioni che sarà chiamato a svolgere.
Il secondo passaggio è l’individuazione, all’interno del contratto collettivo nazionale di lavoro (CCNL) applicabile, del livello corrispondente alle mansioni individuate. La regola aurea, valida oggi come ieri, è che il confronto tra la realtà effettiva delle mansioni e la disciplina collettiva non lasci margini di discrepanza.
La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 11584 del 2 maggio 2025, ha ribadito il principio: “occorre accertare in fatto le attività concretamente svolte dal lavoratore, individuare poi la qualifica rivendicata e le mansioni alla stessa riconducibili secondo la disciplina dettata dalla contrattazione collettiva ed infine verificare che le prime corrispondano a queste ultime; in particolare, si è precisato che, ai fini della determinazione dell’inquadramento spettante al lavoratore alla stregua delle qualifiche previste dalla disciplina collettiva di diritto comune, al giudice del merito spetta dapprima identificare le qualifiche o categorie, interpretando le disposizioni collettive secondo i criteri di cui agli artt. 1362 ss. c.c.; deve poi accertare le mansioni di fatto esercitate e deve infine confrontare le categorie o qualifiche così identificate con le mansioni svolte in concreto.”
2. Esempio pratico
Un dipendente assunto come commesso stimatore di gioielleria in un’azienda che applica il CCNL Commercio Confcommercio (codice CNEL H011) sarà inquadrato al 3° livello, come previsto dall’art. 113 del contratto, che include tra le mansioni di concetto “il commesso stimatore di gioielleria”.
Da questo inquadramento discendono, inevitabilmente, tutti i diritti e doveri contrattuali. La precisione, qui, non è solo virtù: è garanzia di legittimità.
3. Le principali conseguenze dell’inquadramento
Retribuzione: gli importi erogati a titolo di retribuzione dal datore di lavoro sono commisurati alle mansioni a cui il lavoratore è assegnato a seconda della responsabilità e difficoltà dei compiti. Per tali premesse, quindi, dall’attribuzione del livello discende la relativa retribuzione lorda che sarà poi la base su cui calcolare gli importi registrati nel libro unico del lavoro. In conseguenza di ciò il lavoratore può chiedere le differenze retributive per errato inquadramento, in questa ipotesi sarà valutata dal giudice la mansione svolta concretamente dal lavoratore e, dopo aver accertato tale condizione, provvedere al ricalcolo delle retribuzioni considerando il diverso inquadramento.
Validità del periodo di prova: in sede di contratto individuale le parti possono prevedere l’inserimento della clausola c.d. di prova. La durata del periodo di prova è indicata dal CCNL applicato dal datore di lavoro in relazione al livello di inquadramento; pertanto, un diverso livello comporta una diversa durata del periodo di prova. Per giurisprudenza consolidata, oramai, il periodo di prova deve essere riferito alle specifiche mansioni che il lavoratore deve svolgere; in difetto il datore di lavoro, nel caso in cui si voglia avvalere della clausola inserita nel contratto, rischia di subire contestazioni dal dipendente in quanto lo stesso non è stato adibito alle mansioni indicate nella lettera di assunzione. In conclusione, sul punto, quindi la clausola può essere dichiarata nulla compromettendo la sua efficacia ex tunc. A tal fine un’eventuale chiusura del rapporto di lavoro in forza della clausola in esame può essere dichiarata nulla dal giudice con relativa reintegra del lavoratore, oltre al riconoscimento delle retribuzioni intercorse nel lasso di tempo dal licenziamento illegittimo al suo reintegro;
Inquadramento tra operaio e impiegato: un diverso inquadramento del lavoratore comporta riflessi rilevanti anche per il costo aziendale del lavoratore, l’esempio più significativo riguarda l’indennità di copertura di malattia. L’indennità di malattia è erogata dall’INPS per determinati settori e qualifiche (ad esempio operai la cui azienda è inquadrata nel settore dell’industria), in assenza la copertura è garantita dal datore di lavoro direttamente (impiegati la cui azienda è inquadrata nel settore dell’industria). Nella prima ipotesi, il datore di lavoro verserà un’aliquota contributiva a carico azienda leggermente superiore a fronte della copertura della malattia dall’istituto previdenziale (eventualmente il datore di lavoro dovrà corrispondere l’integrazione prevista dal CCNL); nella seconda ipotesi, invece, a fronte di un’aliquota inferiore mensilmente la malattia sarà totalmente a carico del datore di lavoro.
Contestazioni disciplinari: il datore di lavoro ha la possibilità di iniziare un iter procedimentale, regolato dall’art. 7 della legge 300 del 1970, a fronte di inadempienze del lavoratore dipendente. La contestazione deve essere tempestiva, contestuale e precisa nella descrizione della condotta del lavoratore. Quest’ultimo, per veder subire un procedimento disciplinare, deve essere adibito alle mansioni indicate nel contratto di assunzione o a lui assegnate e notificate successivamente. Il lavoratore, infatti, ha sottoscritto un contratto di lavoro per lo svolgimento delle mansioni indicate nel contratto stesso; pertanto se i fatti sono riconducibili a mansioni diverse, il dipendente potrà difendersi richiamando le mansioni formalizzate, asserendo che i fatti addebitati riguardino compiti diversi con la possibilità, inoltre, di eccepire anche la mancata formazione ricevuta per lo svolgimento dell’incarico.
Danno professionale: un errato inquadramento del lavoratore può comportare anche una legittima richiesta di risarcimento danni con conseguente condanna in sede giudiziale a favore del dipendente. Sul punto, negli ultimi anni, la Corte di Cassazione, con orientamento ormai consolidato, ha ribadito che la prestazione lavorativa non si riduce in una mera prestazione ma è finalizzata anche alla crescita della professionalità e, in senso più lato, anche della persona come espressione del suo essere all’interno della comunità.
In conseguenza di quanto sopra, quindi, la scelta del lavoratore di sottoscrivere un contratto con l’indicazione della relativa mansione ed inquadramento, non si può ridurre ad una mera formalità amministrativa – burocratica, ma si sostanzia in un dovere in capo al datore di lavoro.
La Corte di Cassazione con sentenza n. 369 del 07 febbraio 2023 ha stabilito che: “… come da questa Corte anche di recente affermato (Cass. 8 aprile 2022 n. 11499), ove vi sia concretizzato, con la destinazione del dipendente ad altre mansioni, il sostanziale svuotamento dell’attività lavorativa, la vicenda esula dalle problematiche attinenti alla verifica dell’equivalenza formale delle mansioni del d. lgs n. 165 del 2001, ex art. 52, configurandosi non un demansionamento, ma la diversa e più grave figura della sottrazione pressoché integrale delle funzioni da svolgere, vietata anche nell’ambito del pubblico impiego; è stato anche puntualizzato, sempre in tema di mansioni, (v. Cass. 18 maggio 2012, n. 7963) che il comportamento del datore di lavoro che lascia in condizione di inattività il dipendente non solo viola l’art. 2103 c.c. (e così anche del d. lgs n. 165 del 2001, art. 52), ma è al tempo stesso lesivo del fondamentale diritto al lavoro, inteso soprattutto come mezzo di estrinsecazione della personalità di ciascun cittadino, nonché dell’immagine e della professionalità del dipendente, ineluttabilmente mortificate dal mancato esercizio delle prestazioni tipiche della qualifica di appartenenza; tale comportamento si traduce in una lesione di un bene immateriale per eccellenza qual è la dignità professionale del lavoratore, intesa come esigenza umana di manifestare la propria utilità e le proprie capacità nel contesto lavorativo, e tale lesione produce automaticamente un danno (non economico, ma comunque) rilevante sul piano patrimoniale (per la sua attinenza agli interessi personali del lavoratore) suscettibile di valutazione e risarcimento anche in via equitativa;” ampliando quindi l’importanza dell’inquadramento e della mansione concretamente svolta dal lavoratore, valorizzando il lavoro sul piano della dignità e manifestazione della personalità del dipendente stesso a prescindere da quanto indicato nella lettera di assunzione.
4. Tra diritto e dignità
Recentemente l’ordinanza della Corte di Cassazione n. 11586 del 02/05/2025 ad integrazione di quanto sopra ha stabilito che “l’assegnazione a mansioni inferiori pacificamente rappresenta fatto potenzialmente idonea a produrre una pluralità di conseguenza dannose, sia di natura patrimoniale che di natura non patrimoniale … innanzi tutto l’inadempimento datoriale può comportare un danno da perdita della professionalità di contenuto patrimoniale che può consistere nell’impoverimento della capacità professionale del lavoratore e nella mancata acquisizione di un maggior saper fare”.
Alla luce delle sentenze citate, quindi, l’assegnazione in concreto di mansioni diverse da quelle previste nel contratto di assunzione, comporta un danno per il lavoratore, non riconducibile direttamente alla sfera economica ma di certa valutazione patrimoniale da cui ne deriva un risarcimento del danno subito.
In ultimo la Corte di Cassazione, però, ha ribadito che il danno arrecato dal datore di lavoro al dipendente deve essere da quest’ultimo provato concretamente.
5. Il lavoro come crescita della persona
Il principio sotteso è quello dell’art. 4 della Costituzione.
Come ricordava il deputato Francesco Colitto durante il dibattito costituente: “Ogni cittadino sano, il quale cerchi lavoro, deve poterlo trovare per la estrinsecazione della sua personalità e per il suo maggiore benessere spirituale e materiale”.
Il lavoro, dunque, non si esaurisce nella retribuzione, ma si innalza a strumento di crescita, di dignità e di riconoscimento sociale.
Quando il datore di lavoro, per superficialità o convenienza, sottrae al dipendente le mansioni concordate, non incide solo sul piano amministrativo: mina la fiducia, interrompe il percorso di crescita e impoverisce l’impresa stessa del suo capitale più prezioso — la competenza.
6. Conclusioni
Una corretta definizione di mansioni e inquadramento non è una formalità burocratica, ma un atto di responsabilità bilaterale.
Il datore di lavoro che costruisce fondamenta solide, fondando il rapporto su chiarezza e coerenza, non tutela solo sé stesso da contenziosi: investe in un capitale umano stabile, motivato e produttivo.
La sfida dei prossimi anni sarà coniugare rigore giuridico e flessibilità organizzativa, facendo del rispetto del lavoratore non un obbligo, ma una scelta strategica di crescita aziendale e civile.
Salvis Juribus – Rivista di informazione giuridica
Direttore responsabile Avv. Giacomo Romano
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Antonio Emanuele D'Isa
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