
Ubi societas, ibi ius: la Corte Costituzionale su matrimonio, unioni civili e convivenze “di fatto”
Abstract. L’istituto giuridico del matrimonio ha caratterizzato la storia dell’essere umano e dei suoi rapporti tra privati, ma sono state soprattutto le sue tangenze con il tessuto sociale a determinarne la mutevolezza e l’impellenza di una “rilettura del sistema, in considerazione delle mutate condizioni sociali e giuridiche”[1]. Durante gli anni di evoluzione di tale branca del diritto privato, la corrispondenza tra la realtà dei rapporti privatistici e le norme sul vincolo tra due persone non è sempre stata agevolmente riconoscibile. In uno Stato moderno, il riconoscimento dei cambiamenti del mosaico sociale, più o meno eterogeno, più o meno distante dai modelli del passato, è parte attiva dei doveri di una democrazia. Talché, la sensibilità dei legislatori e dei Garanti delle Leggi Fondamentali custodiscono una funzione insostituibile per l’attuazione dei paradigmi familiari di fatto diffusi tra la popolazione. Il perfezionamento degli istituti delle unioni civili e della convivenza, a oggi, anelano a sopperire ad un’improbabile sostituzione del modello costituzionale del matrimonio, incardinato nel Codice civile del 1942. La rassegna delle sentenze del Giudice delle Leggi testimonia la sensibilità di quest’ultimo alla contemporaneità; sensibilità che tuttavia non può ergersi a sostituto del legislatore, che negli anni, più o meno tempestivamente, è intervenuto al fine di colmare lacune normative.
Sommario: 1. Il tramonto del monopolio matrimoniale – 2. Le prime istanze “costituzionali” con le sentenze n. 138/2010 e n. 148/2014 – 3. I riconoscimenti delle unioni civili e delle convivenze di fatto nella legge Cirinnà – 4. Gli ultimi episodi dinanzi al Giudice costituzionale – 5. Il progressivo adeguamento adoperato dalla Corte Costituzionale e dal legislatore
1. Il tramonto del monopolio matrimoniale
Le sentenze della Corte Costituzionale in merito alla materia in esame, così come quelle che, più in generale, interessano la famiglia intesa come “formazione sociale”[2], – nelle intenzioni – hanno dimostrato, durante le ultime due decadi, una capacità di adattamento dell’orientamento pretorio alle necessità della comunità sociale. La missione a cui è chiamata la Consulta è volta all’adeguamento del diritto scritto con il retroterra civile e richiede da un lato di fronteggiare la cristallizzazione dell’istituto “matrimonio” introdotto nel 1942 dal Codice civile, incapace di divincolarsi dalla tradizione giudaico-cristiana, dall’altro, di contenere gli sconfinamenti che possono eludere l’applicazione prettamente giuridica e secundum legem.
In questa tematica, la ricerca della contemporaneità è avvenuta spesso e soltanto mediante l’azione della Consulta, che tuttavia non può ergersi ad atipico produttore di un’amorfa legislazione, ma necessita di un riscontro anche da parte del Parlamento. La norma – è stato più volte ribadito – non può essere sostituita da un’operazione interpretativo-creativa, ma deve essere considerata la fonte primaria. Orbene, non sempre la legge si è dimostrata solerte nell’adeguarsi al sostrato reale, talvolta apparendo indifferente allo scorrere del tempo, ma altre volte rendendosi in positiva affidataria di un compito promozionale per diffondere un modello di vita estraneo alle logiche delle società[3].
Non è erroneo, oggidì, sostenere che il matrimonio non è più l’unica soluzione per consentire l’unione tra due esistenze, così come non è assurdo ritenere surrogabile la sua funzione all’interno del mosaico sociale. In Italia, la tutela della “società naturale”[4] formatasi grazie al legame di due persone ha tentato di accogliere le conseguenze delle varie evoluzioni del nucleo familiare dal 1942, di rimanere al passo con numerosi Stati, sicuramente più tempestivi, e di positivizzare le garanzie che spettano in quanto preziose parcelle di un diritto fondamentale.
L’influenza del “diritto al matrimonio” nella società è stata inevitabilmente caratterizzata dall’inderogabile funzione di uno Stato sociale nel riconoscimento delle libertà dell’individuo, adoperata per il tramite del nostro Giudice delle Leggi. Tali libertà evitano di pietrificare l’arcaica concezione dell’istituto e ne garantiscono l’evoluzione. Ad esempio, si è avvertito il bisogno di specificare che chiunque voglia contrarre un matrimonio o un’unione civile è libero di farlo con la persona prescelta, ma soprattutto è libero di non sposarsi[5]. E tanto sembrerebbe oggi scontato, avendo riguardo alla consapevolezza dell’odierna collettività, ma disvela la mutevolezza nella rappresentazione dell’immaginario comune di una realtà giuridica che è – e deve essere – in progressivo sviluppo.
E in tal senso, quanto più lontanamente immaginabile dal legislatore del 1942, ma forse non dal Costituente, il vincolo legale riportato nel Codice civile ha perso la sua primizia nella produzione degli effetti legali che sono stati sempre più ricorrentemente riconosciuti anche alle coppie omosessuali, ma soprattutto ad una situazione di fatto, quale quella del convivente more uxorio[6]. Se non per l’evolversi dei costumi, da un punto di vista giuridico, sarebbe improprio parlare di un tramonto dell’istituto, che comunque continua ad offrire una garanzia massima di tutela a chiunque voglia sancire la condivisione del percorso di vita. Seguendo questa angolazione, la Corte Costituzionale ha tracciato un vero e proprio file rouge, seguito poi dallo stesso legislatore, eleggendo l’istituto del matrimonio come indeclinabile ed immodificabile sulla scorta della varietà delle realtà interpersonali, ma architettando un’artificiosa struttura giuridica capace di assicurare gli stessi – o, per meglio dire, la maggior parte degli – effetti giuridici anche alle coppie omosessuali per tramite delle unioni civili, così come a coloro che volontariamente decidono di non istituzionalizzare il proprio legame affettivo.
2. Le prime istanze “costituzionali” con le sentenze n. 138/2010 e n. 148/2014
La prima crepa nel sistema tradizionale è rinvenibile all’interno della sentenza n. 138/2010 della Corte Costituzionale, in cui è stato, però, impossibile architettare un’operazione “rivoluzionaria” che, per saltum, avrebbe consentito allo Stato italiano di collocarsi tra i Paesi più all’avanguardia nella determinazione delle tutele delle unioni omosessuali[7], a quel tempo totalmente ignorate – ma solo poiché non evincibili chiaramente – dalle previsioni normative. Un’operazione praeter legem che, garantendo l’estensione dell’istituto del matrimonio alle coppie omosessuali, verosimilmente avrebbe riconosciuto la più elevata forma di tutela per chiunque voglia accedere al vincolo legale proprio di questo tipo di unione.
La questione si sviluppa durante il giudizio di legittimità, sollevato durante una controversia sorta a causa del rifiuto dell’ufficiale di stato civile di voler procedere alla pubblicazione di matrimonio richiesto da una coppia omosessuale nel 2010[8]. In tale occasione, fu sottoposta al sindacato costituzionale la questione circa l’inesistenza di una tutela del diritto delle coppie omosessuali di sposarsi, rilevando che ad ogni individuo non deve essere soltanto garantito il “diritto di vivere liberamente una condizione di coppia”, ma anche quello ad ottenere “il riconoscimento giuridico con i connessi diritti e doveri”[9]. La sentenza, però, dichiarerà inammissibili le questioni riguardanti gli artt. 2 e 117, primo comma, Cost., nonché non fondate quelle degli artt. 3 e 29 Cost., ma le considerazioni che il Giudice costituzionale ha svolto costituiranno una tappa fondamentale per la presa di coscienza del legislatore.
Lo spunto per comprendere l’esito della disamina costituzionale è rinvenibile nelle dichiarazioni della stessa Corte, in cui si sottolinea che, sulla scorta delle volontà del Costituente, “la famiglia contemplata dalla norma (ndr. Codice civile) aveva dei diritti originari preesistenti allo Stato, che questo doveva riconoscere”[10]. La Corte Costituzionale, dunque, in questo passo evidenzia che la società naturale di cui all’art. 29 Cost. era inclusiva di un modello famigliare oramai consolidato nella disciplina civilistica e che in tal senso doveva essere orientata l’interpretazione costituzionale, benché comunque un rinvio statico al tempo della redazione della Carta Fondamentale obliterasse la “duttilità propria dei principi costituzionali”[11]. Sicché la stessa Corte dichiarerà, come ricordato, inammissibili e non fondate le predette questioni, proprio a causa dell’impossibilità di un saltum ermeneutico adoperato dallo stesso Giudice delle Leggi in assenza di un sostrato modificativo della vigente disciplina. Ciò posto, sarebbe compromettente considerare i concetti di famiglia e matrimonio cristallizzati nelle decisioni del Costituente, che comunque aveva previsto la possibilità di rileggere il sistema Costituzione, ma solo in presenza di un’espressa operazione secundum legem.
Tuttavia, il matrimonio, di cui alle richieste dei ricorrenti, inteso così come si evince dalla lettera degli articoli, pareva sottendere una vacatio legis, socialmente non di poco conto, colmabile soltanto da un intervento del legislatore. Ma ciò fu inevitabilmente veicolato dall’insoddisfazione della Corte, la quale aveva – più che – invitato lo stesso ad intervenire “nei tempi, nei modi e nei limiti stabiliti dalla legge”, rappresentando soltanto il quomodo e ritenendo indiscutibile l’an. In altri termini, il Parlamento non fu soltanto avvisato, ma anche incoraggiato (sentenza cd. “monito”) a provvedere alla mancanza di una norma che doveva essere foriera di una disciplina di carattere generale ed esaustivo[12], non potendo in alcun modo sottrarsi al riconoscimento di una realtà da tempo discriminata.
Nella visione del Giudice costituzionale, benché l’interpretazione della Carta Fondamentale rapportata alla norma da parte dei rimettenti non è in alcun senso risultata priva di fondamento, l’assenza di una previsione normativa ad hoc precludeva la possibilità di operare una svolta giuridica così tanto influente nella tradizione collettiva. Contrariamente, sullo sfondo della dottrina, non è di certo mancato un atteggiamento critico verso l’inerzia della Corte Costituzionale, che avrebbe potuto, incalzata soprattutto dalle coeve spinte europee e da una visione d’insieme del tessuto sociale, proporre un’interpretazione conforme secondo una sentenza – più o meno – manipolativa delle norme applicabili nel giudizio a quo[13]. E tanto avrebbe garantito il superamento di una visione che ancòra al significato testuale della Costituzione e che ne esige modificazioni al fine di innovare la materia[14]. Ma dubitare dell’apertura culturale del Giudice delle Leggi, soprattutto negli ultimi quindici anni, non appare pertinente, come dimostrato dal fatto che il medesimo constata sin da subito la rilevanza sociale delle unioni di persone dello stesso sesso[15]. Tutt’al contrario, la rigidità del matrimonio nella Costituzione, incardinato negli interstizi dell’istituto nel Codice civile del 1942, non avrebbe mai consentito un’interpretazione in via analogica o estensiva dello stesso.
Giacché il legislatore avvertì l’impellenza di dare ascolto agli impulsi della Consulta anche e soprattutto a seguito della sentenza n. 170 del 2014. L’istanza del 2010 aveva rappresentato un pregevole stimolo nei confronti del Parlamento, foriero di interessi sociali, completato poi successivamente nel 2014, quando la Corte Costituzionale ebbe a pronunciarsi sulla legittimità delle previsioni che prevedevano l’annotazione di “cessazione degli effetti del vincolo civile del matrimonio” a seguito dalla sentenza di rettificazione del sesso di uno dei due coniugi. In tal caso, però, la questione non era relativa ad una forma “inesistente” di matrimonio, quanto ad una che era stata contratta, ma era trasmodata in una forma “nulla”[16]. Ebbene, già con la sentenza n. 138 cit., la tematica riguardante il matrimonio con una persona transessuale aveva animato le aule del Palazzo della Consulta, essendo stata richiamata da parte del giudice a quo, che in quel caso aveva denunciato una disparità tra la predetta forma di matrimonio (efficace e valido) e la possibilità di coppie omosessuali di unirsi giuridicamente. Tanto, però, dimostrava un’argomentazione flebile poiché riconosciute sono le distinzioni tra “identità di genere” ed “orientamento sessuale”, non essendo, ad avviso anche della Corte, comparabili sulla bilancia del giudizio di ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost.[17], in quanto situazioni diverse.
Nel giudizio costituzionale del 2014, le istanze dei rimettenti vennero ritenute fondate[18], donando espressa dignità giuridica ad un legame contratto in una situazione di eterosessualità e che, a seguito della sentenza di rettificazione del sesso, era divenuto omosessuale. È evidente che qui la portata rivoluzionaria della pronuncia di accoglimento sia più limitata rispetto agli effetti che avrebbero a prodursi nel caso di pronuncia favorevole nel 2010, ma la maturità dei tempi dimostrava la necessità di cristallizzare i cambiamenti sociali all’interno delle norme.
Talché, è doveroso sottolineare che neanche le altre Corti Costituzionali europee sono rimaste estranee e inerti al sindacato di norme che escludessero il vincolo matrimoniale per le coppie dello stesso sesso. Mentre il 4 ottobre 1993 la Corte tedesca ha riconosciuto nella Grundnorm un vero e proprio limite all’estensione del matrimonio, assumendo come unica valida forma quella contratta tra uomo e donna, in epoca più recente, in Belgio (sent. n. 159 del 2004) e in Portogallo (n. 121 del 2010), è stata confermata la legittimità dell’applicabilità delle leggi del matrimonio anche a coppie omosessuali[19]. E di ciò la Consulta ne era avveduta già al tempo delle pronunce. Oltreché riconoscere il diritto di sposarsi come un diritto fondamentale della persona (artt. 12 e 16 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e artt. 8 e 12 della CEDU), la Corte rappresenta, su suggerimento del rimettente, che “in alcuni Stati (Olanda, Belgio, Spagna) il divieto di sposare persone dello stesso sesso è stato rimosso, mentre altri Paesi prevedono istituti riservati alle unioni omosessuali con disciplina analoga a quella del matrimonio, a volte con esclusione delle disposizioni relative alla potestà sui figli e all’adozione”[20].
E nonostante possa risultare “fascinoso” rilevare una violazione dei nostri artt. 11 e 117, comma 1, Cost. per contrarietà alle fonti sovrannazionali gerarchicamente superiori, inducendo coattivamente una reinterpretazione del matrimonio, si tradirebbe comunque il senso della territorialità statale che traspare dalle fonti stesse[21]. Invero, seguendo anche le interpretazioni ermeneutiche delle Corti internazionali, i citati articoli non obbligano affatto i legislatori nazionali a riconoscere lo stesso istituto al fine di estendere gli effetti del matrimonio al coniugio omosessuale, quanto richiedono che sia osservato, con un adeguato supporto legislativo, il diritto al rispetto della vita familiare in ogni sua sfumatura, ben ricordando che l’Unione Europea non ha alcuna competenza in materia familiare[22].
La nostra Corte, nei casi menzionati, ha preferito evitare di offrire un’interpretazione evolutiva che includesse nel matrimonio anche fenomeni che volutamente, al tempo della promulgazione del Codice civile, non erano stati inclusi nelle disposizioni di cui agli artt. 79 e ss.[23]. Ma il brocardo latino dura lex sed lex in questo caso sembrava non convincere e non combaciare con la consapevolezza sociale del tempo e l’esigenza di un riconoscimento normativo, oltreché sociale, essendo più che mai vivente il bisogno di una soluzione normativa, concretizzatasi nella legge 20 maggio 2016, n. 76.
3. I riconoscimenti delle unioni civili e delle convivenze di fatto nella legge Cirinnà
Seguendo le istanze che già nei giudizi costituzionali in rassegna erano state spedite all’indirizzo del legislatore[24], nonché quelle provenienti dalla Corte EDU[25], la cd. legge Cirinnà ha attuato sia un’opera compilativa e di sistematizzazione delle normative già vigenti, sia un’integrazione legislativa al fine di dare rilevanza giuridica al diritto ad una vita familiare alle coppie che differiscono da quelle formate da persone di sesso diverso, finanche non unite dalla volontà di contrarre il vincolo formale.
Per quanto i ricorrenti avessero, dal 2010, denunciato condivisibili e attuali rappresentazioni della famiglia, la “formazione sociale” delle coppie omosessuali, la cui forma però non è stata ritenuta dalla Consulta compatibile con quella della famiglia composte da un uomo e una donna nonostante una sostanziale identità di anime, sarà soltanto sei anni dopo riconosciuta dalla l. 20 maggio 2016, n. 76 (cd. legge Cirinnà), la quale al comma 1, ne specifica l’espresso inquadramento all’interno degli artt. 2 e 3 Cost.
Il coniugio qui in disamina tuttavia risulta se non proprio sovrapponibile, almeno compatibile con la disciplina di cui agli artt. 76 ss. c.c.: basti pensare che numerose disposizioni riproducono il contenuto dell’istituto del matrimonio eterosessuale, altre ne fanno espresso rinvio, sempre specificando – tacitamente o espressamente – parificazioni negli effetti[26]. Ad esempio, il contenuto degli artt. 143 e 144 sono riprodotti quasi integralmente nella legge (art. 1, comma 11), oppure la stessa cancellazione degli effetti giuridici dell’unione a seguito della sentenza di rettificazione di attribuzione di sesso è stata dichiarata incostituzionale[27], celebrando almeno nelle intenzioni la ricerca dell’eliminazione delle disparità, così come avvenuto nel 2014 per il matrimonio.
Il riconoscimento tout court della rilevanza, nonché dignità giuridica delle unioni civili – che, si badi, rappresentano ancora un’identità distinta dal matrimonio, come anche testimoniato dall’inserzione in apposito distinto registro – è avvenuto anche mediante l’estensione degli effetti della nuova legge italiana alle unioni, civili e matrimoniali, ove possibile, contratte all’estero[28].
Quindi, mentre in un primo momento si era affidata una missione di salvaguardia della molteplicità delle relazioni interpersonali attraverso un metodo analogico, si è passati ad una netta cristallizzazione dei contenuti in un’atipica produzione normativa (un articolo con sessantanove commi)[29]. Orbene, è manifesto che, per quanto pregevole, non si tratta di una norma perfetta. Già all’indomani della promulgazione si sollevarono una serie di problematiche dovute ad alcune denunciate leggerezze. Basti ricordare la difficile ricostruzione occorsa in caso di scioglimento dell’unione civile: i coniugi possono sì, mediante dichiarazione allo stato civile, eleggere uno dei due cognomi, ma solo un volo pindarico verso la legge sul divorzio potrebbe potenzialmente offrire una soluzione[30].
Nonostante ciò, non è difficoltoso poter affermare che, seppur con le imperfezioni che qualsiasi maieutica legislativa porta con sé, essa abbia rappresentato una frattura nel tradizionale sistema giuridico della famiglia, rassegnando un cambiamento necessario ai fini del riconoscimento dei rapporti – tutti – fra esseri umani.
E se di rotture del sistema si può parlare, viene in auge il riferimento alla convivenza di fatto. La portata innovativa – o soltanto socialmente riepilogativa – della legge Cirinnà non si esaurisce con l’introduzione delle unioni civili, ma si esplica anche mediante la regolamentazione della convivenza cd. “di fatto”. Orbene, nella riforma dei modelli familiari, l’esplicito riconoscimento dell’istituto della convivenza, ancorché nel passato avesse ottenuto una disciplina – seppur frammentaria e frazionata[31] –, ha evidenziato che, anche e soprattutto per la legge, la costituzione della famiglia non dipende necessariamente dall’istituzionalizzazione di un vincolo formale, ma soltanto da una scelta di vita concretizzata in un programma di realizzazione interiore e dei propri figli mediante la solidarietà e l’affetto nel rapporto[32].
Nondimeno, la giurisprudenza aveva, già da una decade, realizzato una rappresentazione della famiglia diversa da quella “di diritto” basata esclusivamente su matrimonio o unione civile. L’operata parificazione di numerosi effetti legali inevitabilmente allontana da una visione della famiglia cd. – impropriamente – tradizionale. A tal proposito, basti ricordare, che, come cennato, nonostante la legge si prodigherà nel 2016 per estendere tutele e garanzie anche al convivente di fatto, la giurisprudenza aveva già dimostrato una certa operosità in tal senso, anche e soprattutto senza alcuna previa scelta da parte degli interessati. Prima dell’intervento del legislatore, era jus receptum che il convivente potesse ottenere i congedi per assistere il familiare con disabilità, decidere del trattamento del cadavere e della sua sepoltura o essere preposto all’assistenza durante il ricovero. Tanto testimonia che in via pretoria si sono potuti muovere tutt’altro che timidi passi, costruendo un’impalcatura di elementi presuntivi capaci di donare dignità giuridica a questo contesto[33]. E come spesso accade, ciò che non è scritto nelle leggi, ma illuminato dalla giurisprudenza funge da perno per la svolta normativa che parte dalla legge Cirinnà per l’equiparazione dello sposo con la figura del coniuge, a oggi completata dall’art. 2, comma 2, lett. n), d.lgs. n. 105 del 2022.
Tuttavia, non sono mancate le critiche della dottrina denuncianti una velata mancanza di chiarezza del legislatore che, nell’originalità di una riforma nodale per sancire la fine del monopolio del matrimonio, con l’art. 1, comma 36 della citata legge tenta di superare la necessità di stipulazione del contratto di convivenza, di cui agli artt. 4 e 13, comma 1, lett. b), d.P.R. n. 223/1989, tra coppie eterosessuali ed omossessuali e riconosce dignità giuridica ad una situazione di fatto. Gli interrogativi si generano già da una piana lettura del successivo comma 37, in cui viene giust’appunto richiamata la predetta dichiarazione anagrafica, rievocando dubbi circa la costitutività della stessa ai fini dell’ottenimento delle tutele giuridiche; onde origina l’alternatività tra un istituto che vuol garantire un’identità di prerogative, ma che richiama i cittadini ad un regime che si appalesa come opzionale, richiedendo una formale iscrizione delle proprie volontà[34].
Da una rapida disamina delle convivenze descritte nella l. n. 76 cit., è possibile suddividere la disciplina di cui al comma 36 e ss. in due macrogruppi: un primo costituito dai commi 36 – 49 ed un secondo dai restanti commi 50 – 64, in cui si evidenzia la derogabilità di una serie di circostanze secondo le proprie propensioni se e solo se lo si disciplina “con la sottoscrizione di un contratto di convivenza” (comma 50). Sicché, per dotare gli interrogativi prima sollevati di una risposta, è utile proprio far riferimento a ciò, sottolineando che è stata effettuata una generale opera di pariordinazione tra matrimonio e convivenza di fatto, ancorché quest’ultima sprovvista della formalizzazione delle volontà di ricevere benefici e oneri ex lege, mentre per alcuni aspetti[35] la legge richiede e attende l’attestazione dei conviventi per istituire un vincolo espresso.
4. Gli ultimi episodi dinanzi al Giudice costituzionale
Giacché, la Corte Costituzionale non è rimasta sicuramente insensibile alle libertà degli individui di affidare alla propria “spontaneità dei comportamenti, tutti quegli aspetti che caratterizzano la gestione della coppia”[36]. E la strada appariva – e appare – indicare la via dei progressivi riconoscimenti delle conquiste sociali, ancorché giuridiche. Nella vicenda che occupa, si rinviene un esempio autoesplicativo nell’estensione da parte della Corte dell’applicazione degli artt. 230 bis e 230 ter anche ai conviventi di fatto per quanto riguarda la disciplina dell’impresa famigliare. In tale occasione, pietra miliare nell’evoluzione degli effetti giuridici legati al matrimonio, fu la sentenza n. 148/2024. La solidarietà “che intercorre nei rapporti tra parenti e tra coniugi”[37] richiede una specifica tutela anche sul posto di lavoro, tanto da trovare espresso riconoscimento da parte della Corte, la quale ravviserà un’identità di spiriti nei – vari – legami affettivi, anche sulla base di una lettura sistematica delle norme costituzionali (artt. 2, 3, 4, 35 e 36), unionali (art. 9 CDFUE) e convenzionali (art. 8 CEDU).
Oltre che per il valore che la sentenza ha nell’attualità, essa colora di significato la convivenza “di fatto” anche in relazione al passato. Non dovrebbe stupire, difatti, che il Giudice delle Leggi rimarca che l’istituto effettivamente non era rimasto nemmeno fuori dalle pagine del Codice civile del ’42, evocando l’art. 260 c.c. e la “Relazione Solmi al progetto del nuovo codice civile” in cui compare per la prima volta l’espressione “convivente a modo di coniugi”, al fine di superare l’obsoleto riferimento al concubinato[38]. Tanto dimostra che la rilevanza giuridica di quest’edificando istituto non risultava evanescente nemmeno all’epoca in cui non si intravedevano alternative al matrimonio. La Corte stessa, inoltre, rifiuta di ammettere l’estraneità del diritto nei confronti a fronte di un’evidenza empirica quale quella della condivisione delle esistenze di due soggetti.
Nella possibilità di intravedere e demarcare una linea continua nell’orientamento evoluzionistico giurisprudenziale, in questo lavoro progressivista che disancòra il monumento “matrimonio” dalle fondamenta storiche, l’atteggiamento della Corte disvela, tuttavia, una certa prudenza nel parificare la convivenza di fatto con il matrimonio. L’affidamento della Consulta nel ruolo del Parlamento, sottendendo un atteggiamento distante dalla rottura con il principio legalistico, rappresenta le relative perplessità circa un’interpretazione della legge che minus dixit quam voluit.
Difatti, eccezion fatta per i già menzionati episodi in cui la consapevolezza costituzionale si è distaccata dalla letteralità della disciplina vigente (come avvenuto quando ha riconosciuto la conservazione del vincolo giuridico nel caso del cambiamento di sesso o quanto supra esposto per l’impresa famigliare), il Giudice delle Leggi, anche durante l’ultima vicenda nel Palazzo della Consulta, ha privilegiato sempre i punti di contatto con la normativa rispetto ad operazioni ermeneutiche anologiche e innovative che portano ad una pronuncia di incostituzionalità. Riguardo gli elementi che hanno condotto alla promulgazione della sentenza n. 120 del 2025, le doglianze del rimettente rilevavano una presunta violazione degli artt. 3 e 38 Cost. da parte dell’art. 2, d.P.R. n. 797/1955 “nella parte in cui non prevede tra le cause ostative al riconoscimento dell’assegno per il nucleo famigliare (ANF) la situazione di convivenza more uxorio tra il datore di lavoro ed il lavoratore subordinato”[39].
In questa ultima vicenda nel Palazzo della Consulta, si è ravvisata l’impossibilità di una dichiarazione di illegittimità costituzionale in quanto l’assegnazione dell’ANF risulta frutto di una determinata posizione giuridica rinvenuta da una scelta adoperata da parte dei coniugi. Difatti, la circolare dell’INPS n. 84 del 2017 precisa che «(a)i fini della misura dell’ANF, per la determinazione del reddito complessivo è assimilabile ai nuclei familiari coniugali la sola situazione dei conviventi di fatto, di cui ai commi 36 e 37 dell’art. 1 della legge n. 76/2016, che abbiano stipulato il contratto di convivenza di cui al citato comma 50 dell’art. 1 della legge n. 76/2016, qualora dal suo contenuto emerga con chiarezza l’entità dell’apporto economico di ciascuno alla vita in comune». Talché soltanto una chiara ed espressa volontà di condividere anche negli aspetti relativi al sostentamento il proprio rapporto coniugale (di fatto e di diritto) avrebbe potuto ammettere i ricorrenti all’ottenimento dei benefici di cui sopra.
Nonostante le questioni relative alle violazioni degli artt. 3 e 38 Cost. siano state infatti dichiarate infondate, la natura solo laterale dell’episodio non arresta l’assestamento dell’orientamento della Corte, la quale ricerca la propria coerenza di pensiero nel riconoscimento di una “permanente diversità tra il rapporto coniugale e la convivenza di fatto, ritenendo però costituzionalmente illegittima, – sottolinea – in casi particolari, casi la differenziazione tra le due situazioni, alla luce della ratio della norma censurata nella singola ipotesi”[40]. Ed è evidente che la prudenza della Corte è giustificabile sulla base della complessità della materia dovuta anche e soprattutto dai cambiamenti sociali. Essi richiedono un adeguamento normativo, forse, senza precedenti nel passato del legislatore, costituito dalla necessità dell’affermazione di ogni individualità – spesso obliterate dalla vetustà normativa – in assetti di legge imperniati sulle prime redazioni della disciplina civile.
5. Il progressivo adeguamento adoperato dalla Corte Costituzionale e dal legislatore
Nel disegno ora tracciato appare nodale approdare ad una conclusione quanto mai orientata alla costruzione di un sistema legale e sociale in cui l’affermazione della coppia, ancorché dell’individuo, appare veicolata verso la costituzione della formazione sociale famigliare. Mentre agli albori della Repubblica, non era complesso riconoscere un imposto schema di vita del cittadino che si concretizzava, nella maggior parte dei casi, nella costituzione di un rapporto cristallizzato in un – unico – matrimonio, la varietà dei percorsi esistenziali propri di uno Stato sociale moderno non disdegna la crescita personale dell’individuo inteso come monade capace di intrattenere le proprie relazioni da sé.
Ciò paradossalmente si scontra anche con una certa imperatività della legge, che intravede, anche nel caso in cui due individui abbiano volutamente omesso di stipulare un contratto di convivenza, i requisiti minimi per la costituzione di una coppia ex lege[41]. Difatti, oltre ad agevolare chiunque abbia necessità di un’ostensione degli effetti legali del coniugio attraverso un’impalcatura di elementi presuntivi abbondantemente ricorrenti come la volontà di condividere un percorso di vita comune[42], la legge oggi incalza al riconoscimento di una formazione paramatrimoniale sulla base del presupposto di uno stesso tetto (non coniugale). Ci si trova dunque in una situazione sostanzialmente paradossale[43], ma, sotto alcuni punti di vista, spesso sufficientemente efficace: la legge italiana tenta di avvicinare – se non sovrapporre – gli effetti di due istituti giuridici (unioni civili e matrimonio) pur sostenendone una diversità ontologica, considerando però la rilevanza giuridica della situazione seppur di fatto della convivenza. I conviventi, tuttavia, nella maggioranza dei casi, rifiutano la contrazione del vincolo formale, ma possono comunque godere della quasi totale parificazione degli status e ciò ha testimoniato la riluttanza di alcuni Stati europei a riconoscere alle convivenze di fatto eterosessuali, seguendo il detto, di origine napoleonica, secondo cui “i concubini si disinteressano della legge e la legge non si cura di loro”[44].
Ma proprio qui si rinviene la portata innovativa dell’intervento legislativo del 2016 – e anche della giurisprudenza – che riconosce agilità e adattabilità delle tutele a coppie eterosessuali e omosessuali. Nessuno infatti potrebbe negare oggigiorno che anche quivi si tratta di una famiglia, che i figli di coppie omo/eterosessuali nati fuori da un qualsivoglia vincolo legale ne fanno parte e che non è necessario, ai fini di istituire un nucleo familiare, il solo matrimonio del 1942. Questo è l’approdo – o solo il punto di partenza – a cui deve tendere l’azzeramento delle disparità nella legge, prescritto dai principi fondamentali della Costituzione. E in ciò, la sacralità dell’art. 3 Cost. rappresenta sicuramente un memorandum per la nostra civiltà, rievocando la prosecuzione della lotta alle discriminazioni come una volontà testamentaria del Costituente.
Anche il legislatore, perlomeno in passato, è apparso avveduto circa la necessità di superare l’immobilismo del diritto, contrario alla declinabilità delle strutture sociali e della realtà umana, mediante una positivizzazione di istituti che di fatto abitano la quotidianità degli individui. E tanto dimostra anche una condivisione di vedute con la Corte Costituzionale, fondata sulla ricerca di un punto di equilibrio tra la storicità del diritto e la lotta alle disuguaglianze. La sensibilità della Consulta alle tematiche sociali, nonostante la consapevolezza del proprio ruolo di organo giudicante, ha incalzato l’inerzia del Parlamento sin dalle prime vicende del 2010 e 2014, il quale si è adeguato, soltanto nel 2016, alle prescrizioni impartite dalla collettività. E non sarebbe peregrino affermare che, in questo contesto, la stessa Corte ha svolto un ruolo nodale di auditrice delle istanze delle dinamiche relazionali e mediatrice nei confronti del legislatore, che ha dovuto adeguare l’assetto normativo a quello sociale, rinnovando un rapporto collaborativo improntato al riconoscimento della quotidianità nella carta delle leggi. D’altronde, ubi homo, ibi societas, ubi societas, ibi ius.
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A. Cordiano, Prime riflessioni sulla nuova legge Cirinnà: unioni civili e convivenze di fatto, in Osservatorio Nazionale sul Diritto di Famiglia, n. 2, maggio – agosto 2016, pp. 53, 57, 59.
U. Rescigno, Del preteso principio secondo cui spetta ai giudici ricavare principi dalle sentenze della Corte e manipolare essi stessi direttamente le disposizioni di legge per renderle conformi a tali principi, in Rivista dell’Associazione Italiana dei Costituzionalisti, 2009, n. 2417.
Gattuso, La Corte costituzionale sul matrimonio tra persone dello stesso sesso, in Famiglia e diritto, n. 7, 2010, p. 657, 658, 661.
Patti, Le convivenze “di fatto” tra normativa di tutela e regime opzionale, in Quaderni della Fondazione del Notariato, pp. 4, 5, 8, 9, consultabile online.
R. Romoli, Il diritto “consentito” al matrimonio ed il diritto “garantito” alla vita familiare per le coppie omosessuali in una pronuncia in cui la Corte dice “troppo” e “troppo poco”, in Rivista dell’Associazione Italiana dei Costituzionalisti, 2 luglio 2010, reperibile online.
Torrente, P. Schlesinger, Manuale di Diritto Privato, Giuffrè, Milano, 2019, XXIV ed., p. 1291, 1298.
[1] Corte Cost., 14 aprile 2010, n. 138.
[2] Art. 29 Cost.
[3] Cfr. T. Auletta, Diritto di famiglia, Giappichelli, Torino, 2024, VII ed., pp. 1 – 2. In tal senso gli istituti del regime patrimoniale della comunione legale, inutilizzato nel 1975, ovvero dell’affidamento condiviso.
[4] Così Trib. Venezia, ord. 3 aprile 2009, iscritta al n. 177 del registro ordinanze 2009, di rimessione alla Corte Costituzionale per la decisione del 14 aprile 2010.
[5] Si veda Corte Cost., 24 ottobre 2002 e Corte Cost., 6 maggio 1998, n. 166.
[6] Cfr. Corte Cost., 23 settembre 2016, n. 213.
[7] In tal senso R. Romoli, Il diritto “consentito” al matrimonio ed il diritto “garantito” alla vita familiare per le coppie omosessuali in una pronuncia in cui la Corte dice “troppo” e “troppo poco”, in Rivista dell’Associazione Italiana dei Costituzionalisti, 2 luglio 2010, reperibile online.
[8] Trib. Venezia, ord. 3 aprile 2009, cit. A testimoniare la valenza sociale della tematica (e della questione) vi è anche Corte d’appello Trento, ord. 29 luglio 2009 (n. 248 reg. ordd. 2009), su cui la Corte Costituzionale si è pronunciata congiuntamente alla citata prima ordinanza. La questione, ancora una volta, riguarda un’opposizione al rifiuto di procedere con le pubblicazioni dell’Ufficiale di stato civile.
[9] In tal senso M. Gattuso, La Corte costituzionale sul matrimonio tra persone dello stesso sesso, in Famiglia e diritto, n. 7, 2010, p. 657.
[10] Corte Cost., n. 138/2010, cit., Punto 9.
[11] Ibidem.
[12] Così M. Gattuso, op. cit., p. 658.
[13] Cfr. R. Romoli, op. cit.
[14] Cfr. G. U. Rescigno, Del preteso principio secondo cui spetta ai giudici ricavare principi dalle sentenze della Corte e manipolare essi stessi direttamente le disposizioni di legge per renderle conformi a tali principi, in Rivista dell’Associazione Italiana dei Costituzionalisti, 2009, n. 2417, in cui si specifica che solo una procedura di revisione costituzionale possa garantire una biunivocità della legge.
[15] Cfr. V. Barba, Artificialità del matrimonio e vincoli costituzionali: il caso del matrimonio omosessuale, in Famiglia e diritto, n. 10, 2014, pp. 866 – 867.
[16] Ivi, p. 873.
[17] Cfr. M. Gattuso, op. cit., p. 661. Ivi, sono richiamate anche la l. n. 164 del 192 e Corte Cost., 6 maggio 1985, n. 161, in cui si “autorizzò”, avendo considerazione dei tempi, l’intervento chirurgico necessario per far coincidere l’aspetto fisico con la psiche, vera scriminante del genere.
[18] Corte Cost., 11 giugno 2014 n. 170. Venne riconosciuta l’illegittimità costituzionale degli artt. 2 e 4 della legge 14 aprile 1982, n. 164 (Norme in materia di rettificazione di attribuzione di sesso), “nella parte in cui non prevedono che la sentenza di rettificazione dell’attribuzione di sesso di uno dei coniugi, che provoca lo scioglimento del matrimonio o la cessazione degli effetti civili conseguenti alla trascrizione del matrimonio, consenta, comunque, ove entrambi lo richiedano, di mantenere in vita un rapporto di coppia giuridicamente regolato con altra forma di convivenza registrata, che tuteli adeguatamente i diritti ed obblighi della coppia medesima, con le modalità da statuirsi dal legislatore” e, consequenzialmente nello stesso senso, dell’art. 31, comma 6, del decreto legislativo 1° settembre 2011, n. 150.
[19] Per un più approfondito novero in questo senso M. Gattuso, op. cit.,, p. 657.
[20] Così Corte Cost., n. 138/2010, cit.
[21] Sul punto V. Barba, op. cit., pp. 867 – 868
[22] Ad eccezione delle “misure relative al diritto di famiglia aventi implicazioni transnazionali” (art. 81 TFUE).
[23] Ivi, p. 872.
[24] Su tutte Corte Cost., sentt. n. 138/2010 e n. 170/2014, cit.
[25] Corte EDU, 21 luglio 2015, n. 18766/11.
[26] In tal senso A. Torrente, P. Schlesinger, Manuale di Diritto Privato, Giuffrè, Milano, 2019, XXIV ed., p. 1291. Ad esempio, l’art. 1, comma 12, l. n. 76/2016 rimanda espressamente, “per la stipula delle convenzioni patrimoniali […] (a)gli articoli 162, 163, 164 e 166 del codice civile”.
[27] Corte Cost., 22 febbraio 2024, n. 66. Così, la Corte è intervenuta in straordinaria analogia con quanto avvenuto con la sentenza n. 170/2024.
[28] Si veda T. Auletta, op. cit., p. 15.
[29] Sul punto A. Cordiano, Prime riflessioni sulla nuova legge Cirinnà: unioni civili e convivenze di fatto, in Osservatorio Nazionale sul Diritto di Famiglia, n. 2, maggio – agosto 2016, pp. 53 e 57.
[30] Ivi, p. 59.
[31] A titolo esemplificativo, sono state introdotte tutele previste dall’ordinamento penitenziario, come i colloqui e la corrispondenza anche tra conviventi, ovvero è esercitabile la facoltà di designarsi reciprocamente per alcune decisioni circa la salute in caso di futura incapacità di intendere o di volere.
[32] Cfr. T. Auletta, op. cit., pp. 19 – 25.
[33] Ibidem. In tal senso, la Suprema Corte ha ribadito che anche soltanto la “coabitazione” può assurgere alla funzione di connotato principale per il riconoscimento della convivenza (ex multiis Corte Cass. civ., 7 febbraio 2023, n. 3645; idem, 4 maggio 2022, n. 14151; Corte Cass. pen., 7 gennaio 2019, n. 345).
[34] Cfr. S. Patti, Le convivenze “di fatto” tra normativa di tutela e regime opzionale, in Quaderni della Fondazione del Notariato, reperibile online, pp. 8 – 9.
[35] Ad esempio, il regime patrimoniale da adottarsi.
[36] Si veda Corte Cost., 25 luglio 2024, n. 148. Nello stesso senso Corte Cass., sez. III civ., ord. 30 aprile 2025, n. 11337 e sez. I, ord. 2 gennaio 2025, n. 28.
[37] Ibidem.
[38] Difatti, si abbandonò “espressamente il termine «concubinato», che recava uno stigma, anche perché evocativo della sua (asimmetrica) criminalizzazione nel codice penale del 1930 (art. 560 cod. pen.), in favore dell’espressione «convivenza a modo di coniugi»” (Punto 5, Corte Cost., n. 148/2024).
[39] Corte d’appello di Venezia, ord. 20 settembre 2024, iscritta al n. 24 del registro ordinanze 2024 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 48, prima serie speciale, del 2024.
[40] Corte Cost., 25 giugno 2025, n. 120.
[41] Cfr. A. Torrente, op. cit., p. 1298.
[42] Cfr. Corte Cass., 13 aprile 2018, n. 9178. Possono essere considerati, ad esempio, indici presuntivi l’esistenza di un comune conto corrente, la compartecipazione di ciascuno dei conviventi alle spese comuni, la prestazione di reciproca assistenza e la coabitazione.
[43] Si veda S. Patti, op. cit., pp. 4 – 5.
[44] Ivi, p. 4, citando J. Carbonner, L’hypothèse du non-droit, in Archives de philosophie du droit, 1963.
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