
Rielaborazione positiva e riapertura dei canali comunicativi: come la mediazione familiare trasforma il conflitto
Essere mediatrice familiare consente di verificare concretamente come il conflitto, in ambito familiare, non nasca per distruggere la relazione, ma per trasformarla. Un’affermazione che, sul piano teorico, potrebbe apparire astratta, ma che trova nel corso degli incontri di mediazione una declinazione concreta: nella stanza di mediazione il conflitto assume un volto, una voce, dei tempi ben precisi. Si manifesta attraverso silenzi, esitazioni, ripartenze, che diventano materia viva di lavoro professionale.
In tutti i casi di mediazione emergono con evidenza due pilastri della mediazione familiare: la rielaborazione positiva e la graduale riapertura dei canali comunicativi. Si tratta di elementi non si esauriscono in semplici tecniche, ma costituiscono una chiave di lettura del conflitto e, al tempo stesso, un cardine della professionalità del mediatore.
In un primo approccio, la rielaborazione positiva potrebbe essere intesa come uno strumento prevalentemente “didattico”, assimilabile a un esercizio di riformulazione linguistica. L’osservazione dei casi e delle simulazioni mostra, invece, come essa rappresenti qualcosa di più: un processo di ripensamento dei sentimenti e di reinterpretazione del significato attribuito alle parole proprie e altrui. La rielaborazione positiva si concreta, ad esempio, nel passaggio da espressioni rigide e assolute a formulazioni ipotetiche o aperte, nella sostituzione di parole accusatorie con termini descrittivi dei bisogni sottostanti, nello spostamento dall’“atto d’accusa” alla manifestazione di timori e fragilità.
Si pensi al caso di un conflitto genitoriale incentrato sulla scelta lavorativa di uno dei genitori – trasferitosi magari all’estero per motivi professionali e sul conseguente assetto di vita della figlia minore, rimasta sul territorio di origine con l’altro genitore e i nonni.
Dietro affermazioni apparentemente inconciliabili e a molti purtroppo note, quali “la bambina deve restare con me”, “voglio poterla tenere con me”, si celano, però, paure profonde: da un lato, il timore di essere esautorato dal ruolo genitoriale e privato della presenza costante della figlia; dall’altro, la paura di essere percepiti come genitore che privilegia il lavoro alla relazione con la minore.
Attraverso l’utilizzo di domande esplorative e riformulazioni, tipiche della rielaborazione positiva, le reciproche etichette di “egoista” o “poco presente” vengono progressivamente sostituite da riconoscimenti. La scelta di trasferirsi può, ad esempio, essere letta non più come rifiuto della responsabilità genitoriale, ma come tentativo di garantire stabilità economica e di ricostruire la propria identità professionale. E ancora: il rifiuto di modificare radicalmente la residenza della minore non viene più percepito solo come ostinazione, ma come volontà di preservare un contesto affettivo consolidato. La rielaborazione positiva si configura, insomma, come la capacità di rimettere in moto un sistema relazionale bloccato, consentendo al conflitto di divenire occasione di comprensione reciproca.
Un secondo elemento strutturale dei percorsi di mediazione familiare è la chiusura comunicativa, fenomeno estremamente frequente nelle situazioni di crisi di coppia. Giunti in mediazione, molti partners già da tempo si parlano solo attraverso messaggi di servizio o sono genitori che veicolano comunicazioni esclusivamente tramite i figli o per il tramite dei rispettivi difensori. Si può accertare situazioni di convivenze segnate da lunghi periodi di silenzio. Tale chiusura, lungi dall’essere un “capriccio”, viene vissuta spesso come una forma di protezione, poiché non parlare significa per molti evitare ulteriori ferite.
La riapertura dei canali comunicativi deve, dunque, necessariamente passare da una sorta di percezione di sicurezza. Infatti, le persone tornano spesso a comunicare quando avvertono di trovarsi in un contesto di fiducia, anche laddove la relazione affettiva originaria non sia più recuperabile.
Ed è così che una comunicazione iniziale rigidamente limitata a profili organizzativi – i classici orari dell’asilo o i turni dei nonni – , in cui ogni riferimento alla dimensione emotiva risultava assente, si trasforma nello spazio di mediazione, strutturato come luogo neutro e protetto, in un progressivo emergere di sofferenza connessa alla separazione dalla prole, della fatica e, insieme, della soddisfazione di essersi occupati in prima dei figli, dei dubbi sulla correttezza delle scelte compiute.
L’osservazione di questo tipo di dinamiche evidenzia che la comunicazione non può essere “pretesa” dal mediatore, ma va resa possibile attraverso la predisposizione di un contesto adeguato. Del resto, proprio per questo la presenza del mediatore familiare non ha natura giudicante, né decisionale: il suo ruolo è quello di facilitatore, chiamato a creare condizioni di ascolto non punitivo, ad accogliere la narrazione del conflitto senza attribuzione di colpe, a sostenere i tempi – spesso lenti – della riapertura dialogica.
Segnali tipici dell’avvio di questa riapertura comunicativa sono uno sguardo diretto dopo incontri caratterizzati da evitamento visivo, la disponibilità a riformulare un’espressione in termini meno accusatori, l’uso di formule come “capisco cosa intendi”, “possiamo provare così”. Per esempio, l’elaborazione congiunta di un calendario di presenze e responsabilità per il rappresenta non più un confronto finalizzato a stabilire “chi ha diritto al figlio”, ma un lavoro comune per costruire una genitorialità cooperativa, pur nella diversità delle scelte di vita.
Da un punto di vista sistematico, l’esperienza formativa consente di affermare che non può esistere una comunicazione efficace senza un previo processo di rielaborazione interna del vissuto emotivo, così come non può consolidarsi alcuna rielaborazione che non trovi conferma in un dialogo rinnovato. La mediazione familiare, in questo senso, si configura come uno spazio di ri-significazione dei ruoli genitoriali, della storia di coppia e del progetto di vita dei figli: non luogo della decisione eteronoma, ma contesto in cui le parti possono co-costruire soluzioni condivise, sostenibili e responsabilmente assunte.
In conclusione, anche in situazioni di crisi di coppia la comunicazione, pur fragile, risulta ricostruibile, il silenzio, lungi dall’essere vuoto, contiene significati latenti, anche i cambiamenti più incisivi si realizzano spesso attraverso micro-passaggi, piccoli “sì” che seguono a una lunga serie di “no” e quando una persona riesce a rielaborare il proprio dolore e a riattivare la parola, compie una scelta di apertura verso la relazione, nonostante la frattura. La mediazione familiare da questo punto di vista offre il contesto professionale in cui tale passaggio può avvenire in modo protetto, strutturato e rispettoso della dignità di tutti i soggetti coinvolti, a partire dai figli minori.
Salvis Juribus – Rivista di informazione giuridica
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