Come nasce una dittatura: l’inganno del consenso
L’Olocausto non è nato con le camere a gas, ma con il silenzio del pensiero.
Talvolta, le domande più disarmanti provengono dai bambini. “Se Hitler era così cattivo, perché gli altri lo hanno seguito?” – chiede una bambina con innocente stupore. E in quell’interrogativo, semplice solo in apparenza, si cela tutta la vertigine del nostro dovere di memoria. L’unica risposta possibile – l’unica onestamente fondata – è che il nazismo, il fascismo e l’Olocausto non sono emersi da un giorno all’altro, ma si sono costruiti lentamente, nel quotidiano accoglimento dell’inaccettabile, nella normalizzazione del disumano.
In meno di un ventennio, un meccanismo infernale ha preso forma in Germania e si è propagato in Europa, privando intere popolazioni, prima tra tutte quella tedesca, della capacità di pensare autonomamente e, ancor più, di provare empatia. La propaganda, come un concime avvelenato, ha fecondato il terreno sociale e politico di un Paese ferito: il seme del male ha attecchito nella Germania degli anni Venti, affranta dalla pace punitiva imposta dal Trattato di Versailles.
L’accordo di pace del 1919, lungi dal favorire una riconciliazione, fu percepito come un’umiliazione nazionale. Anche il cittadino tedesco più moderato ne uscì convinto che l’onore fosse stato calpestato, e con esso nacque il desiderio di rivalsa. La Repubblica di Weimar, pur essendo formalmente uno degli esperimenti democratici più avanzati dell’epoca, si rivelò instabile, minata da turbolenze economiche e da una fragilità politica che vide, dal 1919 al 1933, ben venti governi e dodici cancellieri succedersi senza pace.
Dopo un’effimera ripresa economica sostenuta dai capitali americani, il crollo del 1929 travolse Weimar come un uragano. Disoccupazione, miseria e sfiducia dilagarono. I sindacati erano impotenti, i partiti democratici divisi, il Parlamento paralizzato. In un simile vuoto, l’estremismo trovò campo fertile. Quando la democrazia è percepita come debole e inefficace, le soluzioni autoritarie si vestono da salvezza.
Così accadde che Adolf Hitler poté insinuarsi nelle crepe di quella fragile repubblica, avvalendosi della retorica del nemico interno – comunisti ed ebrei –, strumentalizzando persino l’incendio del Reichstag per ottenere un “decreto di protezione” che sancì la fine delle libertà civili.
Sciolse i sindacati, chiuse i giornali, abolì i partiti: nacque così uno Stato totalitario che trasformò la repressione in metodo e la propaganda in pedagogia dell’odio. Ogni voce dissenziente veniva silenziata, ogni libro “scomodo” bandito. La politica antisemita, dapprima sottile e insinuante, divenne sistematica, escludendo gradualmente gli ebrei dalla vita civile. L’obbedienza cieca fu coltivata come una virtù. E il peggio fu reso possibile.
Perché Hitler non ha agito da solo. L’orrore fu permesso – e in molti casi eseguito – da uomini e donne comuni. Con il silenzio, con la complicità, con l’indifferenza. L’Europa osservava, troppo tardi, troppo poco. La filosofa Hannah Arendt ci ha insegnato a riconoscere in tutto ciò la “banalità del male”: la terrificante normalità con cui si può smettere di pensare, la pericolosa abitudine a eseguire ordini senza interrogarsi sul bene e sul male.
Il totalitarismo non piomba dall’alto come un fulmine: si insinua, giorno dopo giorno, annullando gli scrupoli, trasformando la brutalità in consuetudine, il pregiudizio in legge, l’odio in dovere civico. Il male non si presenta con le fattezze del mostro, ma con quelle rassicuranti del vicino di casa. E proprio per questo torna ciclicamente a bussare, travestito da emergenza, da sicurezza, da “buon senso”.
Non è un capitolo chiuso. Non è un rischio archiviato. Il nostro presente non ce lo permette. L’Olocausto non iniziò con le camere a gas. Cominciò con le battute nei bar, con i soprannomi nei cortili, con le discriminazioni apparentemente lievi accettate con un’alzata di spalle.
Il male è un virus silenzioso: solo la memoria – vigile, attiva, quotidiana – può contenerlo. E forse, proprio quella bambina che ha posto la sua domanda ingenua, ha ricordato a tutti noi che ogni risposta autentica parte da una riflessione: se non vigilati, i semi dell’odio germogliano ovunque.
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Adelia Giordano
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